Drazen Petrovic: poesia sospesa tra Mozart e Nietzsche
“Drazen Petrovic had such artistic skills on the basketball court that those who saw him play called him the “Mozart of the Parquet.“
Questo è l’incipit della descrizione della Hall of Fame americana confezionata per il croato al momento del suo inserimento ufficiale nell’Arca della Gloria. Chi lo vide giocare fu rapito dalla poesia del suo basket al punto da ribattezzarlo “il Mozart dei Canestri”. Io sono tra questi.
L’ibisco è un fiore splendido, dotato di colori accesi e ricercati. La sua fioritura dura dalle prime luci del mattino fino a metà pomeriggio. Una volta reciso appassisce in un solo giorno. Queste caratteristiche lo rendono inno alla vita all’ennesima potenza che la Natura, madre suprema di tutte le vite, ci regala forse proprio come monito universale alla caducità delle nostre esistenze. Una sorta di rockstar del mondo floreale che proprio quando arriva all’apice del suo splendore ci saluta per sempre.
Drazen Petrovic è stato un ibisco in tutto e per tutto. Uno dei più belli che siano mai fioriti.
Solo 290 partite in NBA prima che il fato lo strappasse con violenza a questo mondo, proprio quando nel pieno della sua fioritura, era a detta di tutti pronto per dominare anche in America. La sua esperienza oltreoceano è stata una sorta di enclave contenuta in un immateriale territorio di pura Leggenda. Arrivato in America a 25 anni già da mito vivente del basket europeo, se ne è andato a soli 28 per entrare ad un livello di leggenda superiore, quello dove stanno le anime di chi ha lasciato un segno indelebile nel proprio tempo.
Petrovic è stato l’incarnazione perfetta del nietzschiano concetto di volontà di potenza.
A 15 anni gioca e dà spettacolo nella squadra della sua città, Sebenico.
A 20 anni è già nel Cibona Zagabria, la squadra più importante dell’allora Jugoslavia.
A 21 mette 112 punti in una singola partita di campionato. Avete letto bene. CENTODODICI.
40 su 60 al tiro, 10 su 20 da tre e 22 su 22 dalla lunetta.
Nella stagione 85/86 finisce il campionato a oltre 43 punti di media partita.
Vince tutto quello che si può vincere, comprese due Coppe dei Campioni consecutive.
Ma non gli basta.
La sua natura lo porta a desiderare di misurarsi ad un livello sempre superiore. Accetta l’offerta (sontuosissima peraltro) del Real Madrid.
Fa sfracelli anche in Spagna. Una partita su tutte. Finale di Coppa delle Coppe contro la nostra Snaidero Caserta. Contro un altro supremo virtuoso della tripla. Il brasiliano Oscar Schmidt.
Vince il Madrid su Caserta 117 – 113 dopo i supplementari.
Vince Petrovic su Oscar 62 – 48.
Mostruoso.
E’ il momento di andare in America a dimostrare agli infedeli che anche un europeo può dominare nell’università del basket. Saluta Madrid con queste parole.
“In Europa sono il più forte e ho vinto tutto. Non mi interessa continuare a vincere e collezionare coppe. Cerco altre sfide e voglio dimostrare di poter giocare nella NBA.”
Vola a Portland dove non trova esattamente l’ambiente più adatto per un esordiente.
Nel backcourt della squadra infatti giocano i boss della franchigia. Clyde “The Glide” Drexler e Terry Porter. Una stella assoluta e un ottimo play. Impossibile trovare i minuti per esprimersi, ma Drazen non demorde, perché Drazen sa di poter giocare, sa di meritarsi un posto fisso in squadra.
Così cambia, approda a New Jersey, e lì la storia cambia in maniera definitiva. Mozart comincia a suonare sul serio. La prima stagione da titolare la conclude con 20 punti di media tirando oltre il 50 da due e il 40 da tre. L’America comincia ad apprezzare. Lui ritornando sul fallimento di Portland dirà:
“Non ho mai dubitato di me stesso. Uno è bravo a suonare il piano, a Roma o a Portland; la musica è sempre la stessa ma le orecchie sono diverse.”
Già…il pianoforte…come Mozart.
La seconda stagione va ancora meglio. I punti diventano 22, e lo portano tra i migliori cannonieri della lega. In odore di All star game, ma non viene convocato. Finirà la stagione votato per il terzo quintetto dell’anno. Primo europeo della storia e secondo non americano dopo Olajuwon a finire nei quintetti ideali di fine stagione. Comincia a stargli stretta anche New Jersey. Drazen vuole una squadra che competa per il titolo.
Purtroppo quella splendida stagione per lui sarà anche l’ultima.
La sua carriera parla di 4461 punti in 290 partite. Una percentuale al tiro del 50% (non così facile per una guardia) e 43% da tre. Tutt’oggi è il quarto di tutti i tempi per percentuale di tiro oltre l’arco.
Guardando queste cifre emerge come una guardia che tirava tanto, e bene.
Ma era molto, molto di più. Questi sono i numeri, alcuni dei numeri. E i numeri vanno a costituire una sorta di mappa.
Ma la mappa non è il territorio. Il “Territorio Petrovic” lo raccontò molto bene in un’intervista di qualche anno fa il grande Sergio Tavcar, mitico telecronista di Telecapodistria. Petrovic era una sorta di deviato, un malato di basket fin da bambino. Un monomaniaco che realizzava tutta la sua essenza come essere umano solamente dentro un campo di basket. Ore ed ore passate nelle palestre ad allenarsi e tirare tutti i santi giorni, prima e dopo la scuola. Un bambino schivo che, complici una malformazione congenita all’anca che lo faceva camminare in maniera scomposta e il successo del fratello maggiore Aza, appariva come un brutto anatroccolo solitario. Ma la forza di volontà di quest’uomo era qualcosa di sovraumano. La fede incrollabile in sé stesso lo accompagnerà per tutta la sua vita, e sarà più ancora del talento immenso, il motivo principale per cui Petrovic divenne Petrovic, il Mozart dei canestri.
Il suo interpretare ogni partita come una guerra tra lui, solo lui, e tutti gli avversari invece che un limite divenne la sua forza. I virtuosismi demoniaci e la tensione superomistica con cui viveva il basket avrebbero fatto impallidire anche Kobe Bryant.
Mise 44 punti in faccia a Vernon Maxwell quando quest’ultimo prima della partita dichiarò “Deve ancora nascere un europeo bianco che mi faccia il culo.”
Ne mise 24 in faccia a Jordan e al Dream Team nella finale delle Olimpiadi.
Petrovic in un unico essere umano racchiudeva tutti i concetti trainanti del pensiero di Nietzsche.
La volontà di potenza è per Nietzsche la volontà che vuole se stessa. Non un mero desiderio concreto di oggetti specifici, ma una forza impersonale, una pulsione infinita di rinnovamento, di se stessi e dei propri valori. Il suo uomo, che spesso viene definito “superuomo”, ma che in realtà è più un “oltreuomo”, infatti per poter assumere su di sé con leggerezza tutto il peso di questa volontà , accetta e afferma l’inesorabile ripetizione dell’attimo creativo, sottostando in pieno alla teoria dell’eterno ritorno.
Petrovic era un ubermensch nietzschiano. Un oltreuomo. E quell’attimo creativo che ripeteva all’infinito era il pallone che andava ad accarezzare il cotone. Lo aveva reso una forma d’arte assoluta. Poesia, come la musica di Mozart.
La sua storia con la nazionale , prima quella slava e poi quella croata, parla di un oro agli europei e uno ai mondiali. Parla di un amore viscerale che lo accompagnerà fino all’ultimo momento della sua vita.
Sarà proprio durante un viaggio in macchina dopo una partita con la Croazia che troverà la morte.
Il suo rapporto intenso con la nazionale e con l’amico del cuore Vlade Divac è magistralmente rappresentata nel documentario Once Brothers, un gioiellino visivo che sembra rubare il canovaccio ad uno dei romanzi fiume di due o tre secoli fa. Due uomini valorosi uniti da un’amicizia profonda vengono irrimediabilmente divisi dalla guerra, che li allontana per sempre senza possibilità di chiarimento fino alla morte di uno dei due.
A chiudere il cerchio c’è la visita, forse tardiva, di Divac alla famiglia di Petrovic, conclusa col serbo che depone fiori e fotografie sulla tomba del croato.
Ma per una volta andiamo oltre le divisioni etniche e nazionalistiche. Perché lì giace uno dei fiori più belli del basket, di quel basket che come la musica di Mozart diviene poesia assoluta.
E la poesia non appartiene a nessuno, non conosce bandiere. E’ di tutti.
E basta.
A Sebenico, nel campetto dove Drazen ha imparato a tirare c’è un’iscrizione che recita:
“Durante la tua vita hai raggiunto l’eternità e lì resterai per sempre”
Michele Ghilotti, il Profeta – Born in The Post
bellissimo pezzo, grazie per aver ricordato anche l’amicizia di Petrovic con Divac.
Me lo ricordo Petrovic (purtroppo ammirato solo in tv): un talento purissimo, che faceva tutto con una naturalezza disarmante.
Semplicemente strepitoso al tiro, poi.
E comunque giocava in una Jugoslavia mostruosa che avrebbe messo in difficoltà tutte le squadre NBA (basti pensare alla formazione che vinse gli Europei del 89 e i Mondiali del 90, da brividi!).
Bellissimo anche il richiamo a Once Brothers, documentario molto bello che recupera l’amicizia con Divac…
Un maledetto incidente stradale ha stroncato la vita di questo eccezionale talento, e una guerra crudele e insensata ci ha impedito di vedere all’opera la più forte squadra europea di tutti i tempi. La Jugoslavia, ancora insieme per l’Europeo del ’91 giocato in Italia, aveva stravinto la manifestazione con una squadra giovanissima destinata a dominare in campo continentale e a competere a livello planetario.
L’anno successivo la Croazia fu ammessa, a differenza della Serbia, alle Olimpiadi di Barcellona, dove trovò il vero “Dream Team” quello di Jordan, Bird a Johnson per intenderci, e giunta in finale tenne testa a questi fenomeni per un quarto di gioco, finché con i cambi emerse l’abissale differenza di valori. Pensa cha partita stellare sarebbe stata se i vari Rada, Kukoc e Petrovic fossero stati supportati da Divac, Paspalj, Diordjevic, Danilovic ….
Solo una piccola correzione: nella partita dei 112 punti le realizzazioni sono così 30 su 40 al tiro da due, 10 su 20 da tre e 22 su 22 dalla lunetta