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Zesco Stars, la squadra del progetto Hopeball per portare l’istruzione in Zambia

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«Se vai a chiedere agli abitanti di Monze per che squadra tifino, il 50% ti risponderà Manchester United e l’altro 50% Chelsea».
Ma questo non perché chi vive a Monze, villaggio urbanizzato nel sud est dello Zambia, conosca a fondo il calcio europeo, solamente «perché la Premier League, è arrivata – attraverso il meccanismo dei diritti TV – fino in Africa e le uniche partite trasmesse dalle emittenti televisive locali sono quelle del calcio inglese: il capitalismo è arrivato fin qui. Tutto come merce, anche, e soprattutto, lo sport».

Gianmarco Duina, ragazzo milanese classe 94, smette di fare sport a causa di un brutto infortunio, tuttavia la voglia di praticare attività fisica non lo ferma: «mi sono trasferito a Londra per un anno e l’idea di andare in Zambia è nata lì: dalla mia volontà di continuare a vivere lo sport, ovvero, in funzione educativa».
Gianmarco, dunque, arriva fino a Monze, nello Zambia, organizza una squadra di calcio, la ‘Zesco Stars’, trasmettendo i valori positivi dello sport e dell’aggregazione con un suo progetto: ‘Hopeball’.
Non è legato ad organizzazioni umanitarie, preliminarmente ha preso qualche contatto con una onlus ma l’iniziativa è totalmente ‘farina del suo sacco’ e ‘Hopeball’, proprio per questo, viene definito da Duina stesso un progetto individuale.
Valori positivi, dunque, che non possono che entrare in contrasto diretto e frontale, come prima accennato, con quelli del cosiddetto ‘calcio moderno’. Il calcio dei capitali stranieri, lontano dalle tifoserie e dalle comunità cittadine.

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«Sono sempre stato un tifosissimo del calcio nonostante praticassi sci di fondo prima d’infortunarmi, tuttavia ho avuto un disaffezionamento – racconta Duina – nei confronti del cosiddetto calcio moderno, un calcio in cui non mi ci ritrovo: il calcio dei milioni. Volevo dimostrare, dunque, che i valori dello sport esistono ancora: non gira tutto solo al denaro e ai business milionari».

Utilizzare lo sport, in questo caso il calcio, come strumento educativo, in sostanza, «per persone che non avessero la possibilità di accedere all’istruzione».
Certo è che, comunemente, si pensa all’Africa, e al volontariato nel continente africano, in relazione alle organizzazioni umanitarie come Emergency, Medici senza Frontiere o affini.
«Quando uno pensa al volontariato in Africa, infatti, pensa ad altre cose», afferma Duina, «ma io medico non sono, un ingegnere neanche… ho valorizzato quello che sapevo fare, in sostanza, unendo la passione per lo sport all’aspetto educativo/scolastico. Quello che dico sempre è che il progetto Hopeball, e la Zesco Stars, non ha la pretesa di insegnare a giocare a calcio, anche perché non ne ho le capacità: non c’è, infatti, una pretesa agonistica, c’è una pretesa educativa. E’ importante che i ragazzi vengano a contatto con dei valori trasmessi dal calcio: il rispetto, il lavoro di squadra, l’emancipazione e la conoscenza del proprio corpo al di là del risultato. Queste sono le fondamenta del progetto».

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Partire da Londra e finire nello Zambia, però, non è cosa da tutti i giorni: «il mio obiettivo era fare attività con dei ragazzi e, invece, la cosa s’è sviluppata in modo diverso, migliore, ovvero un campionato. A Monze ho incontrato un ragazzo del posto (Gift) che nel passato ha allenato una squadra, a tutti gli effetti, ma non aveva le capacità anche economiche, molto banalmente, per continuare a far sì che quel club si iscrivesse».
La Zesco Stars nasce così, dall’incontro fra uno zambiese ed un italiano, trasferitosi a Londra ed accorso a Monze «villaggio, sì, ma non piccolo, anzi: è uno dei più grandi del Sud dello Zambia, c’è anche un Ospedale molto grande».

Il Campionato e il calcio in Zambia

La Zesco Stars partecipa ad un campionato amatoriale ed è riuscita ad accedere ai play-off per far sì che si potesse giocare la promozione nella lega calcistica zambiese. «Non ci sono tutte le categorie che sono presenti da noi», dice Duina «c’è il campionato amatoriale e poi c’è subito il professionismo».

«La squadra è aperta a tutti. Abbiamo creato una sorta di doppio livello: una di bambini e la ‘prima squadra’. Il raggruppamento di bambini, di ragazzini, non ha la possibilità di partecipare ad un campionato, dal momento che non esistono categorie ‘giovanili’» così come vengono intese in Occidente. Capita, infatti, che le prime squadre siano eccessivamente eterogenee ed abbiano giovanissimi e trentacinquenni.
La Zesco Stars, prima in classifica al campionato è, sì, eterogenea, ma «il più giovane ha 24 anni: l’età media è 18 anni. Quello che sarebbe il nostro sogno/progetto è creare un campionato anche per i più piccoli, che al momento è impossibile».

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«La mentalità sportiva zambiese tralascia completamente la considerazione dei giovani: anche le ‘grandi società’ al vertice del calcio zambiese non hanno minimamente la ‘cultura del vivaio’. C’era un giocatore che giocava nella nostra squadra, ad esempio, che è stato chiamato da un club della Division One, la nostra Serie B: l’hanno chiamato a 23 anni perché ‘era giovane’. A 23 anni, però, non sei ‘così’ giovane per il mondo del calcio, o meglio: lo sei se hai alle spalle un lavoro e una ‘storia calcistica’, se cominci ad allenarti a 23 anni non si riesce a sfruttare al massimo la potenzialità dell’atleta». Una delle domande che gli vengono rivolte, pourparler, è se in Zambia ci sono ‘campioni’: «No, non ce ne sono», è il commento di Gianmarco, «o meglio, ci sono in potenza, in atto non ce ne sono perché non c’è nessuno che li segue».

A proposito degli aspetti educativi del progetto, infatti, il creatore di ‘Hopeball’ non ha dubbi: «Uno tra gli aspetti fondamentali che io ho visto nella crescita della squadra è quello della responsabilità. Il calcio è uno sport di gruppo e noi [occidentali nda] siamo abituati a vivere tale dinamica quotidianamente coi colleghi di lavoro, a scuola, con la famiglia: la questione, però, è che questi ragazzi del ‘gruppo’ non sapevano nulla perché magari orfani, perché non vanno a scuola o perché non lavorano. Non sono mai in gruppo ed è capitato che se ci doveva essere una partita, non raggiungevamo il numero necessario per partecipare. La partita cominciava alle 15:00? Alle 15:30 eravamo in 8. Pensavano “ma anche se arrivo alle 4 cosa cambia?”, proprio perché non sono mai stati abituati a ragionare in un’ottica di gruppo, collettiva, di responsabilità. Non avevano in testa che se uno non veniva non giocava non solo lui, ma neanche tutta la squadra (perdendo anche la gara, peraltro!)». Questo è il fulcro di ‘Hopeball’.

Infine, una curiosità: il nome della squadra. Zesco, in realtà, è l’equivalente zambiese dell’ACEA o dell’ENEL.
«Il nome l’hanno scelto loro, io ho spinto per aggiungere ‘Stars’: in una riunione con Gift e i ragazzi, mentre parlavano il loro dialetto tonga, è venuta fuori l’idea del nome Zesco perché “quando diventeremo forti lo sponsor ci darà i soldi”(ride nda). Io ho chiesto di aggiungere Stars perché le stelle illuminano. E illuminano solo se stanno assieme».

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