Il nuovo infortunio occorso al giovane talento della Roma impone una riflessione sugli eccessi di un mondo, quello del calcio professionistico, che sembra incapace di valutare i danni collaterali delle sue attuali dinamiche di sviluppo
E così sono due: già, due crociati in neanche nove mesi è un record triste per Nicolò Zaniolo, giovane virgulto del calcio italiano, prima ancora che della Roma, che non può non indurre a riflessioni più ampie rispetto alle considerazioni legate al recupero dall’infortunio.
Zaniolo è solo l’ultimo di una schiera sufficientemente nutrita di giocatori che sono caduti nel baratro temporaneo di questo grave incidente. Alcuni di loro, come lui, più di una volta. I confronti col passato remoto sono improponibili (fino agli anni Ottanta l’incidenza di questo crack del ginocchio era molto inferiore rispetto all’attuale). Vanno rinnovate, però, le critiche a un sistema calcistico che, essendo pienamente inserito nel contesto socio economico del mondo industrializzato, ne ripropone alcuni dei vizi tipici.
A partire da quello della necessità di produrre sempre di più, alla ricerca ossessiva di un risultato continuamente migliore di quello precedente, possibilmente con margini di crescita misurati in doppia cifra percentuale, che tiene ciecamente conto esclusivamente dei parametri economico-finanziari escludendo la valutazione di qualsiasi criterio ulteriore. Come le aziende programmano ogni anno incrementi di fatturato e redditività che sembrano dover proseguire all’infinito in linea retta, così le squadre di calcio sono trascinate a dover produrre sempre di più. E l’unico modo che hanno per fare questo è giocare più partite, costringendo la forza lavoro dei calciatori a esprimere sforzi fisici che vanno spesso oltre i limiti stabiliti dalla natura. Soprattutto ai migliori (Zaniolo è uno di questi) vengono richiesti sempre più straordinari che, alla lunga, rischiano di minare la salute.
Quello che per i dipendenti delle aziende è il rischio del burn out, per i giocatori si tramuta nella possibilità di incorrere in gravi infortuni. Un segnale che dà il corpo: estremo, inappellabile, per certi versi liberatorio perché costringe l’atleta a fermarsi per rigenerare risorse non più disponibili. Il passaggio finale di un sistema che invita a lavorare senza sosta, giocando fino a tre partite a settimana, che non consente di avere tempo per il riposo fisico e mentale, elemento indispensabile al fine di ottimizzare le prestazioni di un individuo. La velocità sempre crescente del gioco, poi, favorita anche da campi il cui tappeto d’erba viene appositamente ridotto nello spessore per consentire lo sviluppo accelerato delle azioni, porta con sé due riflessi negativi: l’incremento dei contrasti e gli impatti sul terreno duro che si riflettono negativamente sull’apparato osteo-articolare degli atleti.
Gli effetti negativi di questo sistema, che riesce a pensare esclusivamente al profitto immediato senza tenere in conto gli esiti a lungo termine che genera, impattano anche su chi del calcio si limita ad essere spettatore e tifoso. La restrizione degli intervalli temporali tra una partita e l’altra determina un effetto di assuefazione che mortifica la dinamica delle emozioni. Il gusto dell’attesa viene rimosso allo stesso modo in cui bruciano in pochi attimi le gioie e le delusioni causate dai risultati; il tutto in una sorta di tempo declinato infinitamente al presente che toglie profondità ai sentimenti, che rimangono il patrimonio più prezioso che qualsiasi sport porta in dono a chi lo vive.
L’infortunio di Zaniolo è l’ennesimo richiamo che la natura rivolge al suo essere più evoluto. Riallineare il pianeta calcio a parametri di maggiore sostenibilità complessiva, che riportino nella giusta dimensione i valori non economici a cui si dovrebbe ispirare, sembra essere un’esigenza non più rinviabile anche se poco avvertita da chi gestisce lo sport più bello del mondo.