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Wimbledon e quel derby tutto british tra racchette e sacche da golf

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Wimbledon e quel derby tutto british tra racchette e sacche da golf

Questa è una di quelle storie che andrebbero consegnate a penne dallo humor sottile e balsamico, penne britanniche – va da sé – ché di Inghilterra e tradizioni stiamo parlando. Ma anche di un certo modo di prendere la vita: con distacco, aristocratico oseremmo dire, contaminato da quel filo di understandment che fa della vita stessa una rappresentazione di cui si è spettatori privilegiati, capaci però di avvertirne tutto il peso individuandolo ora nel ritardo con cui la tal stoffa verrà consegnata al sarto di fiducia per ricavarne una nuova giacca; nello sforzo cui si è costretti al mattino per raggiungere il campanello con cui chiamare il proprio maggiordomo; o nel tedio di chi, non potendosi sottrarre da una passeggiata a cavallo in compagnia per le campagne inglesi, trova in quel cavallo il suo miglior sodale, e con lui conversa, vagheggiando per entrambi un destino di agi e scevro d’obblighi, tra fieno e spazzole per il quadrupede, o immerso in comode poltrone di pelle – un bicchiere di wiskey in mano – a parlar di cene e incontri e “nebbie e saporosa ubertà”.

Lo sport, se visto con gli occhi di P.G. Woodhouse o J.K. Jerome, diventa un qualcosa di sommamente volgare, un’attività cui guardare con sincera e commossa curiosità di cui tuttavia non si riesce mai a rintracciarne l’utilità, il segreto che spinga gli uomini a rincorrersi e a lottare per una brama di gloria cui sacrificare mondanità e conversazioni con il serio rischio per di più di veder pregiudicati articolazioni e tendini. La vita è già di per sé troppo faticosa per affaticarsi in frivole attività che comprendano barche, guantoni o sfere di diverse dimensioni.

Virare si può su altre discipline, certo, a patto che rifuggano lo sforzo e che ingombrino il meno possibile la nostra agenda: il tiro a bersaglio, per esempio, il cui fascino “dipende quasi completamente dal fatto che tu sia dalla parte giusta o sbagliata del fucile” (questo è Woodhouse). O il golf, infallibile test di cui poi diremo nonché miglior “correttivo contro l’eccesso di orgoglio” (ancora lui), ma con prudenza, ché uno swing troppo brusco potrebbe avere ripercussioni molto dolorose per la nostra schiena già sferzata dalla pioggia e dal freddo di quelle latitudini.

Il golf. E qui veniamo ai giorni nostri.

Londra. SW19. Church Road. Coordinate che gli amanti del tennis conoscono bene. E’ qui infatti che sorge l’All England Lawn Tennis and Croquet Club: in una parola, Wimbledon. Sede del torneo omonimo più famoso del mondo. In tempi votati al professionismo e all’espansionismo ipertrofico, anche i tornei del Grand Slam hanno entusiasticamente sposato questa nuova logica: chi ampliando i propri stadi, chi facendone sorgere di nuovi, chi aggiornando e rinnovando cornici e scenografie su cui una volta l’anno viene allestito il grande evento.

Wimbledon no. Qui le cose si fanno ancora secondo tradizione. Si gioca di bianco vestiti, e bianche erano anche le palline utilizzate fino a una quarantina di anni fa (l’introduzione di quelle gialle iniziò nel 1972, giustificata da vacue esigenze televisive cui alla fine si dovette cedere, ma gradualmente, al fine di rendere la transizione il meno traumatica possibile, ndr); la domenica di metà torneo – “middle Sunday” – non si gioca, è capitato solo tre volte nella sua storia a causa della pioggia che decretando l’interruzione delle partite in corso aveva stravolto orari di gioco e calendario per la gioia di televisioni, giocatori e raccattapalle. Come sia stato possibile, nelle altre 129 edizioni, portare a termine il torneo entro i tempi previsti in un paese che vanta precipitazioni medie intorno ai 600ml resta un mistero.

(Ora, ci sarebbe da dilungarsi sul gustosissimo processo decisionale con cui venne valutata la proposta di dotare il Campo Centrale di un tetto retrattile, proposta a cui i membri del Commettee, tra l’incredulo e l’imbarazzato, risposero aprendo pagina uno del regolamento del torneo, prima riga, prima frase, “i Championships sono un evento che si svolge all’aperto e con la luce del giorno”, dichiarando pertanto conclusa la riunione. Alla fine si giunse a un compromesso, e oggi se siete tra i fortunati ad aver acquistato un biglietto per poter assistere a un match seduti su uno dei 14.979 seggiolini verdi che incorniciano quel campo, in presenza di pioggia non dovrete più aprire il vostro ombrello, contenendo senso di colpa e silenziosa solidarietà nei confronti delle due dozzine di raccattapalle che in meno di 10 minuti sotto i vostri occhi erano soliti srotolare metri e metri di teli verdi seguendo una dettagliatissima procedura scandita da gesti esatti ed efficaci tesi a preservare l’incolumità del manto erboso. Oggi in quello stesso arco di tempo potrete assistere, naso all’insù, a un trionfo della tecnologia che prendendo le mosse dal sotterraneo si sublimerà nel cielo assumendo la forma di un dodecaedro ricoperto di teli che provvederà a coprire campo e tribune permettendo nel giro di trenta minuti la ripresa delle ostilità (i teli utilizzati sono bianchi e trasparenti così da garantire un’illuminazione quanto più naturale possibile, la temperatura è stabilizzata intorno ai 24° e il tasso d’umidità fissato al 50% per prevenire la formazione di condensa che renderebbe oltremodo scivolosa l’erba per cui è stato progettato anche un sistema di drenaggio. Insomma: siete immersi in un climatizzatore gigante, ma almeno vi gustate una bella partita di tennis)).

Tornando all’espansionismo ipertrofico. Appurato quindi che innovare si può, pur nel solco della tradizione, all’AEC ci hanno preso gusto decidendo di aggiungere acri alla superficie su cui insiste il club, ancora tropo ristretta rispetto a quelle di competitors quali Melbourne Park, Parigi o Flushing Meadows. E questo per far sì che anche il torneo di qualificazione ai Championships possa svolgersi all’interno dell’AEC, e non presso il Bank of England Sport Ground della vicina Roehampton (“so that the players can feel the experience of Wimbledon”, ndr). Proprietari di un’area ben più grande di quella su cui sorgono i campi da gioco, i membri del Commettee si son guardati intorno per cercare di capire dove poter reperire gli acri necessari all’espansione. Carte alla mano, la scelta è parsa da subito obbligata ricadendo sull’adiacente Wimbledon Park Golf Club, prestigioso circolo sul cui percorso da 130 anni si ritrova con alterne fortune buona parte della upper class londinese.

E qui sorgono i problemi. Il primo: la concessione che permetterebbe all’AEC di rientrare in possesso dei suoi terreni scade tra 40 anni. Troppi. Il secondo: il WPGC è una cooperativa, e quindi proprietà dei suoi iscritti (754 per la precisione, che votano e deliberano su qualsiasi decisione inerente il loro club); per questo negli ultimi anni hanno preso il via dei negoziati – prima esplorativi, poi via via sempre più formali – per cercare di capire se e come fosse possibile accorciare quei tempi.

La questione, capite bene, non riguarda solo i soldi. E non potrebbe essere altrimenti viste le quote che i soci del WPGC son soliti versare per un’iscrizione annuale da full member. Non si spiegherebbe altrimenti una trattativa lunga dieci anni giunta in porto dopo continui rilanci, tutti passati al vaglio degli iscritti e tutti immancabilmente rispediti al mittente, fino all’ultima irrifiutabile offerta preceduta da una moral suasion degna dei migliori statisti anglosassoni. Più che gli interessi, a collidere in questi dieci anni sono state due visioni del mondo, entrambe aristocratiche e divise da ragioni – antropologiche ancor prima che giuridiche – che neanche 130 anni di buon vicinato son riusciti a portare a sintesi. Il fatto poi che queste differenze all’occhio estraneo risultino più come delle affinità interpretate secondo tradizione (dress code, caddie e ballboys, sportsmanship e clubhouse) rende il tutto ancora più squisito confermando ancora come la forma e non i gesti con cui decidiamo di abitare il mondo riveli molto della nostra identità: Thomas Mann parlava dell’“essere intagliati in un certo tipo di legno”, condizione che non si può allenare a differenza di drive, swing e rovesci.

Raccontano le cronache che la prima informale offerta (il termine inglese adottato per questo primo tentativo è “approach” e non potrebbe essere più calzante) fu rifiutata senza alcuna discussione e senza venir neanche sottoposta al voto degli iscritti. Al 2015 risale la prima vera offerta di 25 milioni di sterline, ritenuta inadeguata dal 58% degli associati (il 75% era la percentuale di consenso necessaria per la chiusura della trattativa). Quattro anni dopo, e siamo ormai al 2019, l’AEC rilanciò fino a 50 milioni e, trovando anche in quel caso pareri contrari, si decise infine per una “best and final offer” di 65 milioni che prevedeva una buonuscita per ciascun iscritto pari a 85 mila sterline. L’offerta ha trovato il placet dell’82% degli iscritti e il passaggio di consegne è stato infine sigillato con appuntamento per il 31 dicembre 2021, data in cui all’WPGC verranno scagliati gli ultimi colpi sui fairways delle sue prestigiose 18 buche.

“E’ un giorno molto triste”; “E’ come la Brexit; “Money talks”. Sono commenti rilasciati da alcuni veterani iscritti al WPGC. “E’ un’offerta che ha diviso i membri del club”, ha aggiunto uno di loro, “e c’è da capirlo, sono molti soldi”. E chissà che nel dirlo non stesse pensando a Woodhouse e alla sua definizione del golf come “infallibile test della fedeltà di un uomo”. Il test funziona così: “Colui che trovandosi nel rough, senza alcun occhio posato addosso se non quello del Signore, decida di tirare da lì il suo colpo senza spostare la sua pallina, quell’uomo sarà colui che vi servirà per sempre con totale e assoluta fedeltà”. Almeno fino alla prossima offerta, sir.

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