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“What’s my name: Muhammad Ali”: un documentario racconta la grandezza del pugile più iconico della storia

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“What’s my name: Muhammad Ali”: un documentario racconta la grandezza del pugile più iconico della storia

Ho avuto la possibilità di vedere il documentario What’s my name: Muhammad Ali con qualche giorno di anticipo sulla première che, per l’Italia, cadrà venerdì 21 giugno alle 21.15, su Sky Arte (canali 120 e 400 di Sky).

L’ho visto nella notte tra martedì e mercoledì, appoggiato allo stipite d’ingresso del terrazzino, alla ricerca di un compromesso tra non soffocare e ricevere segnale wi-fi.

Per quanto, ogni tanto, io mi lasci andare a giudizi da autentico facinoroso, per i quali mi scuso coi miei cari lettori, credo mi si possa riconoscere lo status di “studioso del pugilato”.

Eppure, moltissime delle immagini di questo documentario sono contenute in filmati che appaiono sorprendentemente inediti anche a chi, come me, vive di spezzoni, articoli, locandine e ritagli che ritraggono la boxe in ogni sua forma.

Il pugilato trova in Muhammad Ali la propria più probabile incarnazione, sia nell’immaginario comune, sia nel più sensato dei ragionamenti: Ali è il pugile più conosciuto della storia ed è l’uomo che più ne abbia diffuso l’immagine nel mondo.

Nel documentario è finalmente assente quella linea novellistica che in troppi film sulla boxe restituisce un’idea di puerilità della produzione.

Sono convinto che la profondità narrativa appartenga alla scrittura, mentre il potente mondo delle immagini animate abbia il compito di dare concretezza a pensieri di destinatari più rilassati.

Presentare Ali, uno dei personaggi più complessi e controversi degli ultimi secoli, attraverso un puzzle di interviste e di incontri che mai si fissano noiosamente a lungo sulle une o sugli altri, è la forza di What’s my name: Muhammad Ali.

È un documentario straordinario che a me è piaciuto. Moltissimo.

Indicatore lungo il tratto della parabola di Ali, specchio dell’onestà e semplicità della boxe, finisce con essere il suo record.

All’ultimo campeggerà il 56-5 raggiunto al momento del ritiro, dopo la rovinosa sconfitta contro Berbick accompagnata dalle prime parole pronunciate con un senso di impotenza dalla voce malferma di Ali: “Vedevo i colpi, ma non li evitavo: mi ritiro!”

Le parole che più mi hanno toccato e commosso, nella mia scomoda posizione di nottambulo incallito, sono però state quelle dette subito dopo dall’intervistatore: “Muhammad, grazie mille! Grazie da parte di tutti noi e da ogni luogo del mondo”.

Il suo ritiro, atteso e caldeggiato da gran parte dell’opinione pubblica, in quel momento lasciava il ring, il bordo ring e l’intera società orfani della sua straordinaria classe.

Finita, però, la lunga età del pugile, prese ancor più forza l’iconica immagine dell’uomo che lotta per la parità dei diritti, che incontra Nelson Mandela, che salva i soldati presi in ostaggio da Saddam Hussein.

Immagini emozionanti che fanno il paio con quelle, straordinarie, del leggendario training camp di Deer Lake, con le pietre pitturate, le casupole in legno, la voluta assenza di elettricità. Muhammad Ali, infatti, tra le mille altre cose, è stato uno dei primi atleti ambientalisti a lasciar traccia tangibile del proprio impegno.

Una personalità mossa da spirito unico e indomabile, come nel momento in cui Ali prende in giro la propria narcolessia fingendo di addormentarsi e di risvegliarsi di scatto, spaventando l’amico che lo guardava compassionevolmente.

Con abile raggiro cinematografico, il regista – Antoine Fuqua – sfuma saltando decenni indietro, nel momento in cui un bimbo chiedeva al campione cos’avrebbe fatto una volta ritiratosi; anche allora, il giovane Ali aveva finto di addormentarsi.

Nella malattia e nella vecchiaia, le parole di Muhammad Ali hanno avuto la stessa forza di quando parlava a mille all’ora e la sua anima pareva poter penetrare gli schermi e le distanze.

La sua presenza si staglia davanti al nostro orizzonte mentre accompagna la caduta di Foreman, risparmiandogli l’ultimo pugno, mentre la freccia da lui accesa vola nel braciere olimpico, mentre le campane dei ring di tutto il mondo lo salutano coi dieci rintocchi nel silenzio del popolo del pugilato.

Venerdì sera riguarderò questo splendido documentario.

Se avrò la fortuna di stare al mondo a lungo, lo riguarderò anche negli anni a venire.

Marco Nicolini – Nicolini racconta di pugili

Foto: Rights of Publicity and Persona Rights: Muhammad Ali Enterprises LLC Photo by Ken Regan © 2019 Muhammad Ali Enterprises LLC

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Nipote di un insegnante sammarinese migrato nei licei delle vallate alpine, sono nato a Padova nel ’70 ed ho chiuso il cerchio di itinerante storia familiare rientrando nell’antica repubblica del Titano quando non ero ancora trentenne.

Avevo prima vissuto in varie parti d’Europa, dei Caraibi e dell’Africa grazie a diversi, talvolta avventurosi, impieghi giovanili. Al contrario, ora, lavoro in banca.

Ho coronato il mio amore per le lingue e le letterature straniere all’Università di Urbino, compiendo gli studi in una lunga e poco gloriosa carriera accademica.

Appassionato sportivo, ho praticato con alterne fortune il pugilato, il windsurf, il calcio, la canoa olimpica. Seguo il rugby con piglio da intenditore. Nel 2015 ho attraversato l’Adriatico in kayak nel suo punto più largo.

Scrivo di boxe perché ne vale la pena: il ring trattiene tra le corde le storie che la fantasia di un romanziere non potrebbe mai eguagliare.

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