Ore 15 di uno stupendo sabato pomeriggio primaverile romano, mentre al centro di una Capitale bloccata e con migliaia di agenti di polizia schierati a difesa delle manifestazioni che ricordano i 60 anni della firma dei trattati della costituzione della comunità europea, in un campo di calcio si affrontano due squadre di tredicenni che partecipano al campionato provinciale Giovanissimi della Figc. Entro in questa struttura dopo 10 anni, non è cambiato nulla: campo in terra battuta, una tribuna fatiscente con gradoni grigi di cemento armato (quelli freddissimi d’inverno e inavvicinabili d’estate); un bar al limite della decenza igienica che vende, ovviamente senza rilascio di alcuno scontrino, caffè per genitori e nonni che nervosamente attendono l’inizio del match, con ragazzini e ragazzine che consumano con voracità tutto quello che un normalissimo medico caldamente sconsiglia. Al centro del gruppo dei “ragazzini” c’è la fidanzata del capitano (forse 13 anni) che seppur giovanissima ha deciso di vestirsi da “grande” e che con goffaggine tenta di fumare una sigaretta.
Arrivano alla spicciolata i giovani calciatori, qualcuno appena in orario, la quasi totalità in ritardo; la maggior parte al telefono, qualcuno ascolta musica. Dopo pochi minuti che si chiudono gli spogliatoi per preparasi alla gara e ascoltare le ultime indicazioni dell’allenatore, primo colpo di scena: dallo spogliatoio della squadra ospite esce urlando un ragazzino/calciatore con un taglio di capelli alla Balotelli che insulta (eufemismo) l’allenatore e cerca disperatamente il padre che…era lontano e al telefono….e che appena capito l’affronto, che era stato perpetrato al figlio, si lancia verso lo spogliatoio per avere chiarimenti dal tecnico. Il motivo della scenetta? L’allenatore aveva semplicemente detto che la gara il giocatore la iniziava in panchina per entrare poi a gara in corso.
Prima di iniziare la partita guardo con attenzione gli “spettatori” presenti in tribuna. La maggior parte, seppur presente fisicamente, nella sostanza è assente perché impegnata al telefonino. Impegnata a parlare di saldi, di amanti (ovviamente sempre quelli degli altri), di professori incapaci di capire il talento nascosto nel figlio incompreso, di allenatori non capaci di comprendere il vero ruolo del figlio, di raccomandazioni più o meno presunte. Ogni tanto un urlo scomposto, con un terribile sottofondo di due allenatori che urlano sbraitano e che vorrebbero gestire la partita di 22 ragazzini come se fosse il Real Madrid non capendo che qualche differenza esiste. Da tecnico posso garantire che nessuno dei giocatori visti in campo potrà mai raggiungere il calcio professionistico perché mancano i prerequisiti di base e senza quelli non puoi accedere agli step superiori. Ma chi avrà il coraggio di dire “suo figlio potrà solo fare del calcio amatoriale non ha le caratteristiche per fare il professionista”? Nel nostro sistema credo nessuno. Questa è la foto reale di quello che spesso vediamo sui campetti di periferia. Possiamo continuare così? Assolutamente no. Il calcio giovanile come gli altri sport deve essere considerato come un’agenzia educativa. Il calcio deve essere sfruttato dalla famiglia perché insegna a lavorare, arrivare puntuale, mangiare in maniera corretta, rispettare le regole, i compagni, gli avversari, l’arbitro; giocare al calcio significa avere un progetto condiviso con i compagni nel rispetto dei ruoli.
Il gioco del calcio significa anche passione, elemento essenziale in una società che oggi offre veramente pochi modelli da seguire. Se poi tra tutti coloro che giocano per diletto gli addetti ai lavori scopriranno il talento da portare nel calcio professionistico allora per quel ragazzino si concretizzerà un sogno. Un sogno che si può concretizzare, numeri alla mano, soltanto una volta su ventimila. Questa è la realtà dei numeri, ma quello che il Calcio può dare alla crescita delle nuove generazioni, se correttamente veicolato, è molto di più che un esordio in serie A, è uno stile di vita, quella che in questo momento rischiamo di perdere e che dobbiamo fare di tutto per riscoprirla.