Cassano d’Adda è terra di confine. Un paesone adagiato sul fiume Adda e incastrato tra le province di Milano, Bergamo e Cremona.
A metà della via Veneto un campetto di terra e una tribuna in legno fanno da casa all’Unione Sportiva Pierino Ghezzi.
“Io alla Ghezzi ci sono cresciuto e ho capito cosa significa il calcio. Segnavo il campo, pulivo gli spogliatoi, a volte non avevamo nemmeno i palloni per allenarci, ma è il posto che più porto nel cuore”.
La storia di Cesare Albé è un viaggio nel cuore del pallone di provincia. Un filo diretto che collega la Terza Categoria alla Lega Pro e che comincia proprio su un campo sgangherato di Cassano d’Adda.
“Mi ricordo di tutti i miei ragazzi”.
E via di nomi, ricordi, storie che nessuno racconterà mai.
“C’era Pirovano, un portiere classe ’61, che non è stato preso all’Inter perché era troppo basso. Gli hanno preferito Zenga”.
L’impressione è che non sia cambiato nulla, che tutta la polvere masticata sui campetti sia rimasta negli occhi, anche adesso che ci sono stadi rumorosi e campi curati.
“Io non ho mai cambiato il mio approccio al calcio. Al centro di tutto ci sono sempre le persone, da questa cosa non puoi scappare. Quando in sogno immagino di allenare il Milan non mi vedo diverso da quello che sono oggi. Mi comporterei allo stesso modo”.
La sua Giana è uscita sconfitta 3-1 a Pordenone ma si è guadagnata sul campo la seconda salvezza consecutiva ed un altro anno tra i professionisti.
“Il secondo anno è sempre il più complicato ma questa è stata in assoluto la stagione più pesante per me. Forse è colpa dell’età”.
Sessantasei anni, trentasei passati su una panchina, ventidue con la stessa squadra.
“Il rischio è quello di abituarsi a tutto, anche a qualcosa di eccezionale come quello che stiamo facendo noi a Gorgonzola. Il calcio professionistico ha una serie di sovrastrutture che tendono ad allontanare le persone. Steward, barriere, controlli”.
Un impatto con il calcio dei grandi difficile ma appagante.
“Temevo Coverciano. Alla mia età non è facile mettersi in gioco ma vengo da una famiglia che mi ha sempre insegnato l’importanza di fermarsi a riflettere. Il corso è stato per me la conferma che l’Italia è davvero l’Università del calcio e che un allenatore per completare la sua formazione tecnica dovrebbe passare qui da noi”.
Lo sguardo però non si allontana dalle radici.
“Ho apprezzato soprattutto Sarri e Longo però la cosa che mi è piaciuta di più è stata la parte successiva alle lezioni. Sarei rimasto ore a parlare di calcio con gli altri allenatori. L’unico metodo che conosco per crescere è quello del confronto”.
Il segreto della Giana emerge pian piano dalle parole di mister Albé. Il confronto continuo con il presidente Oreste Bamonte ed il factotum Angelo Colombo. La crescita lenta senza snaturare meccanismi solidi e ben oliati.
“La provincia aiuta molto, per quello che ti insegna. La tattica non conta nulla se non c’è l’empatia e quella non si può insegnare. 4-3-3, 3-5-2, movimenti vari, a qualcuno nemmeno le devi dire queste cose”.
La normalità come costante, l’umiltà come forza.
“Devo dire grazie a mia moglie per avermi sopportato. Ho iniziato a trent’anni con l’idea di dare una mano e sono trentasei anni che passo le giornate sui campi. Ancora oggi capita di arrivare tardi perché sono con i miei nipoti. Non è questione di essere professionisti o dilettanti, è questioni di essere persone, con la consapevolezza di non aver inventato nulla”.
È strana la calma con cui Albé legge il calcio, la pazienza con cui lo racconta. Abituati ad isterismi e voci alzate si resta quasi sorpresi.
“Chi fa l’allenatore è già gratificato. Siamo come la maestra delle scuole Elementari. Io ancora mi ricordo la mia e mi ricordo il rispetto che continuavo a portarle una volta cresciuto. Io non voglio pensare che un allenatore serva solo per insegnare calcio e quando vedo che qualcosa torna indietro mi sento fortunato. Il calcio deve essere uno strumento, un ponte per unire le persone”.
Una sorta di vocazione.
“Qualche giorno fa mi hanno raccontato che già da bambino, nel cortile della cascina dove sono nato, dicevo agli altri come e dove giocare, ero già un allenatore. Dev’essere qualcosa che mi porto dentro”.
Non serve andare oltre anche se si potrebbe continuare all’infinito.
È sempre una boccata d’aria toccare lo sport così nel vivo.
“Sono stato fortunatissimo, ho ricevuto molto di più di quello che ho dato. I sogni servono sempre ma non posso immaginare più di questo. Io sarei stato contento anche se avessi allenato tutta la vita la Pierino Ghezzi”.