Ungheria ’86: “IL” Sorpasso
Come quando correva Nelson Piquet, che solo a pronunciarne il nome sentivi che nessun’altra parola potesse avere una sequenza di accenti più perfetta, più melodica di così. Che mentre gli altri, prima del semaforo che allora diventava verde, fissavano un punto lontano da sotto la visiera e la maschera bianca, per trovare la concertazione e isolarsi dal carosello che prevedeva il via, lui si godeva gli ultimi passi ancheggianti delle ragazze con gli ombrellini. Poi era l’unico che faceva l’occhiolino alla telecamera, come se fosse lì soprattutto per divertirsi, ancora prima che per vincere. E dire che vinceva spesso, contando alla fine tre titoli mondiali e una marea di gran premi vinti, dominati, a volte reinventati a colpi di frizione e pennellati pesantemente con tratti generosi di pneumatici, come inchiostro gommato che scriveva con una calligrafia differente dalle altre; con qualche arabesco in più, come se ogni giro dovesse avere un segno inequivocabile del suo passaggio. Forse perché alla storia delle corse si è consegnato con il cognome della madre e non con quello dell’anagrafe, dove un padre intransigente lo avrebbe estratto a forza da quegli abitacoli in cui all’inizio si infilava di nascosto, bello come mamma lo aveva fatto e grazie a lei ribattezzato pilota; campione subito e non ancora conosciuto; artigiano geniale della traiettoria e dello spunto impossibile.
Come quel giorno all’ Hungaroring, Gran Premio d’Ungheria del 1986, la prima volta della Formula Uno oltrecortina, in un paese del blocco comunista. Tracciato ostico, dove i punti per sorpassare vanno inventati, più che individuati. Due caschi dalle strisce inconfondibili, verdi su fondo giallo e rosse su fondo bianco; una nazione divisa tra un giovane figlio già prediletto e un affermato campione forse un po’ troppo zingaro per incarnare appieno l’amore di patria.
Ayrton Senna non è già più una promessa, e non è mai stato una meteora. Per di più ha azzeccato l’assetto della sua Lotus -Renault, scommettendo sui minori carichi aerodinamici e soprattutto sulla sua capacità di far seguire alla monoposto nera e oro il filo invisibile della traiettoria, giro dopo giro, a cominciare da quello di qualifica, che gli vale la pole position.
La gara conferma che tutto ciò che poteva indovinare, il brasiliano di San Paolo lo ha indovinato, a dispetto della potenza e dell’efficienza delle FW11, le Williams – Honda di Mansell e di Nelson Piquet, brasiliano di Rio De Janeiro, uno che nel suono del nome ha lo stesso andamento perfetto di quando i pistoni eseguono a menadito il suo spartito di direttore d’orchestra che nelle giornate di grazia indossa lo smoking sotto la tuta.
Solo che oggi, Gran Premio d’Ungheria 1986, la giornata di grazia sembra quella di una Lotus nera col puntino giallo fluorescente al centro, che va come le macchinine delle piste elettriche, sulla loro corsia di stagno.
Decide, Nelson Piquet, di piazzarsi dietro agli scarichi della signora vestita di scuro, perché se un brasiliano di San Paolo è stato così efficiente nella messa a punto, uno di Rio non può che approfittare della sua scia, fino agli ultimi giri: breve trenino, velocissimo; nero-oro-bianco-giallo, col vuoto dietro e l’incertezza davanti.
Poi succede; a pochi giri dalla fine succede: che Senna non sbaglia nulla ma il guanto del dio delle corse accarezza il volante di Nelson Piquet, figlio prediletto, più scanzonato degli altri: cerca l’esterno con una fumata più densa delle altre, sul rettilineo dove inizia il giro; come se tra due pesi massimi uno dei due trovasse all’improvviso il varco per il gancio decisivo; gli si mette davanti con quasi tutta la Williams, mentre Senna cerca lo spunto all’interno, apparentemente avvantaggiato dalla traiettoria, mentre s’è già aperto a entrambi il palcoscenico del curvone.
È lì che Nelson, che ha sedotto le donne più belle, convince la macchina a gioco da kamasutra sull’asfalto dell’est: chiude a Senna lo spazio, lo costringe ad alzare il piede, punta l‘interno della curva e avvia un controsterzo che forse anche Dio, in quel momento, si mette la mano sugli occhi. Parte il retrotreno della Williams, con la macchina in preda all’orgasmo e le mani dell’uomo che le tengono i fianchi; il motore Honda a quel punto gode di un urlo prolungato; poi l’uomo, con l’orizzonte sgombro davanti è una sagoma nera e oro negli specchietti, prende per mano la sua Williams perfetta, fino a ricoprirla, amorevole, col lenzuolo di una bandiera a scacchi.
Come se il sospiro di certi orgasmi profumasse di benzina.
Come se il dio delle corse a volte lasciasse fare i suoi figli prediletti.
Come quando correva Nelson Piquet.