Se fino a oggi pensavate che arco e frecce non potessero avere nulla a che fare con l’arte della meditazione e dell’esercizio cerebrale, è venuto il momento di ricredervi. Stiamo parlando del Kyudo, (letteralmente “la via dell’arco”): questa disciplina non ha quasi nulla in comune con il tiro con l’arco occidentale. Se nella nostra tradizione questo esercizio rientra negli sport competitivi che ci piace praticare – spesso a livello agonistico -, il Kyudo è a metà strada fra disciplina sportiva e conoscenza psicologica di sé, che avviene proprio attraverso il costante esercizio con l’arco. Nella tradizione giapponese, fin dal XV secolo a.C., i guerrieri con l’arco si sottoponevano ad addestramenti rigorosi seguendo l’arte del Kyudo. L’allenamento si svolgeva a piedi o a cavallo. Quest’ultimo richiedeva grande coordinazione di movimenti: controllare l’animale e, contemporaneamente, scagliare una freccia dopo l’altra contro il nemico non era cosa facile. Ma soprattutto il guerriero doveva essere in grado di percepire le ombre dei nemici in movimento, anticipare gli agguati e vedere con chiarezza i punti deboli della corazza degli avversari. Gli arcieri del Sol levante riuscivano così a creare in loro stessi uno stato mentale di completa indifferenza e calma che permetteva loro di scagliare con la massima precisione le frecce anche nel caos di una battaglia.
Oggi la pratica del Kyudo continua a seguire la tradizione giapponese. II complesso ma elegante cerimoniale che culmina con il sibilo della freccia che fende l’aria, serve per raggiungere uno scopo preciso: l’anima dell’arciere si fonde con lo spirito dell’arco e diventa un tutt’uno con l’anima mundi, che per i platonici rappresentava lo spirito vitale della natura, intesa come vero e proprio organismo vivente.
Filosofia e tecnica
L’Arte Marziale del Kyudo permette di raggiungere un particolare stato d’animo, caratterizzato dal dominio del corpo, diventando così una disciplina del comportamento che ha effetti benefici nella vita quotidiana. L’irrobustimento dello spirito ottenuto con la pratica, porta a sviluppare concentrazione e forza interiore, raggiungendo lo stato di “massimo livello di comprensione dell’essenza delle cose” e liberando la mente. La prima fase del Kyudo è quella del monomi, l’atto di osservare il bersaglio con occhi semichiusi senza spostare lo sguardo da esso. Non ha nulla a che vedere con una tecnica di mira: si potrebbe definire come l’atto di creare un rapporto con il soggetto (in questo caso il bersaglio) per meglio interagire con esso. Successivamente c’è il nobiai: in questa fase la mano sinistra spinge e torce l’arco. Questo è l’istante in cui l’arciere percepisce di essere una sola unità con il suo strumento, la freccia e il bersaglio. La particolarità di questa disciplina è che l’arciere si fida del proprio inconscio: è lui che mira, lui a decidere quando le dita si allenteranno permettendo alla corda di scagliare la freccia. Per una mente occidentale abituata alla competitività e al dominio dell’ego, il Kyudo può sembrare privo di senso. Si ha paura di “perdere il controllo”, di abbandonarsi al flusso di energie che scorrono in armonia dentro il nostro corpo e che, ognuno di noi, è abituato a reprimere.
Il Kyudo in Europa e Italia
Nel nostro continente le arti marziali (e i benefici che derivano dal praticarle) sono sempre più diffuse soprattutto in Francia e in Svizzera, dove negli ultimi due anni i centri sportivi dedicati a queste discipline orientali sono aumentati esponenzialmente. Questo perché, oggi, vi è la tendenza a praticare uno sport che perfezioni non solo la forma fisica ma anche quella mentale. La società moderna troppo veloce e immediata, ci impone di mettere da parte la cura del nostro spirito, ci obbliga a trascurare noi stessi, perché il tempo è poco e deve essere impiegato in modo produttivo. Il Kyudo è quasi una filosofia di vita, un ponte che aiuta le persone ad attraversare letteralmente la propria interiorità, a fermarsi un attimo, a respirare. Partendo dallo sport e arrivando alla propria mente, questa disciplina orientale insegna a mettere da parte la continua frenesia della vita quotidiana, almeno per un po’. Anche nel nostro paese quest’arte marziale è molto diffusa: l’AIK – Associazione Italiana per il Kyudo raccoglie ed uniforma, secondo i principi proposti dalla All Nippon Kyudo Federation (Federazione Giapponese di Kyudo), la pratica dell’antica arte dell’arcieria giapponese. Proprio l’ANKF ha riconosciuto due stili per il Kyudo, lo Shomen e lo Shamen. Il primo ha un carattere più “cerimoniale” basato su eleganza, calma profonda, sobrietà e purezza. Nello stile Shomen l’arco è alzato davanti all’arciere con la freccia mantenuta parallela al pavimento. Le azioni per l’esecuzione del tiro si sviluppano secondo una precisa sequenza: all’inizio l’arciere è davanti al bersaglio ed effettua la presa dell’arco e della corda; l’arco viene sollevato sopra la testa e aperto con un gesto calmo e sicuro. Giunti alla massima apertura si aspetta che lo sgancio della freccia avvenga in modo naturale, quasi a sorprendere il tiratore. Nello stile Shamen invece, l’arco viene sollevato e aperto sul lato sinistro del corpo.
Quando la freccia scocca e la corda risuona, la mente di colpo può sperimentare una condizione di illuminazione e consapevolezza. Insomma, come diceva Confucio “il vero signore è simile ad un arciere: se manca il bersaglio, ne cerca la causa in sé stesso”. Un tiro sbagliato quindi non è sinonimo di fallimento ma un’esperienza da cui poter apprendere, arricchirsi, perfezionarsi. L’obiettivo del Kyudo non è vincere colpendo il bersaglio o facendo centro, ma crescere interiormente, proprio attraverso l’allenamento con arco e frecce. Solo raggiungendo la quiete interiore la vittoria è assicurata.