A tu per tu con Sara Simeoni, la donna volante
Ci sono dei momenti e delle sensazioni legati con un filo invisibile e impressi nella nostra memoria che ogni tanto tornano in mente, e ai quali associamo dei sapori e delle emozioni che sappiamo riconoscere ogni qual volta si ripresentano. Il mondo dello sport non fa eccezioni e se per un attimo provassimo a chiudere gli occhi e a ricordare gli eventi che hanno segnato il nostro immaginario non possiamo non riavvolgere il nastro e ritornare alla magia che ha contraddistinto la fine dei settanta e l’inizio degli ottanta, perché è lì che molti tra i ricordi più belli si sono formati e progressivamente consolidati. La vittoria del Mundial spagnolo o l’oro di Nantes per citarne alcuni, ma uscendo dagli sport di squadra la nostra mente vola alla sfida tra gli eterni rivali Moser e Saronni e alle gesta degli atleti Olimpici tra Mosca 1980 e Los Angeles 1984, con Pietro Mennea che il 12 settembre 1979 stabilì il nuovo primato del mondo nei 200, e Sara Simeoni che faceva altrettanto nel 1978 alzando per la prima volta l’asticella del salto in alto un centimetro sopra i due metri.
Personaggi, icone, miti, supereroi, chiamateli come vi pare, ma raccontare oggi, dopo quarant’anni, il percorso e la vita agonistica di questi atleti può assumere i connotati di una favola, perché quei ragazzi col loro impegno e la loro incoscienza stavano scrivendo inconsapevolmente la storia che li avrebbe portati all’immortalità sportiva. Una parabola straordinaria quella della nostra Sara, cominciata per gioco nella sua Verona agli albori degli anni settanta, tramutatasi poi in leggenda per la rapida evoluzione che la saltatrice azzurra è riuscita ad imprimere al suo talento, al quale ha aggiunto tecnica, lavoro, passione e determinazione. L’adesione allo stile fosbury e l’incontro col suo allenatore, e poi futuro marito, Emilio Azzaro imprimeranno una netta ascesa alla sua carriera che la vedrà rapidamente campionessa juniores e già competitiva a livello più alto, come testimoniano, dopo una prima Olimpiade conclusa a Monaco al sesto posto, i bronzi alle Universiadi del 1973 di Mosca e all’Europeo di Roma del 1974, ottenuti tra i venti e i ventun’anni. L’appuntamento con l’oro è solo rimandato ai Giochi del Mediterraneo di Algeri del 1975 in cui eguaglierà il metro e ottantanove europeo di Roma, in cui giungerà seconda alle Universiadi dello stesso anno, pronta a dire la sua alla prima Olimpiade da protagonista, quella di Montreal 1976. Uno storico argento col suo primo salto sopra i centonovanta centimetri, che aprirà le danze ad un dominio assoluto che si concretizzerà di li a poco con un’interminabile sfilza di ori, tre agli europei indoor, uno agli Europei, ai Giochi del Mediterraneo e all’Universiadi prima delle controverse e quasi boicottate Olimpiadi di Mosca, alle quali arriverà da primatista del mondo col suo due metri e uno ottenuto nel 1978 a Brescia durante un allenamento senza telecamere ufficiali. La prima donna ad andare oltre i due metri, record italiano durato quasi trent’anni battuto dai due metri e due ottenuti dalla Di Martino nel 2007, trionferà in terra Russa ottenendo il primo oro olimpico azzurro nel salto in alto entrando nella storia di questa disciplina, per poi ripetersi l’anno successivo agli Europei indoor di Grenoble e alle Universiadi di Bucarest. Un bronzo agli Europei di Atene nel 1982 e la terza medaglia olimpica, argento a Los Angeles 1984 in cui fu doverosamente alfiere azzurro, suggellano un palmares mostruoso farcito da dieci ori, quattro argenti e quattro bronzi ottenuti nelle più importanti rassegne internazionali a cui vanno aggiunte le quattordici affermazioni nazionali assolute e le dieci indoor. Commendatore, Grande Ufficiale e Collare al d’oro per meriti sportivi le saranno ovviamente conferiti, ma il riconoscimento che la colloca tra le più grandi di tutti i tempi e senza dubbio quello di atleta del centenario, assegnatole insieme ad Alberto Tomba, dal Coni nel 2014 in occasione dei festeggiamenti in onore dei cent’anni del Comitato Olimpico.
Dopo la celebrazione del mito e il successivo ritiro nel 1986 Sara ha iniziato a collaborare con la Fidal diretta dal grandissimo Primo Nebbiolo, con l’intento di portare e decentrare l’atletica lungo tutto lo stivale coinvolgendo e formando tecnici del mondo della scuola, ma con l’arrivo del nuovo presidente Gianni Gola, la spinta del progetto Club Italia si è inesorabilmente spenta. Negli anni novanta sarà utilizzata come testimonial federale per promuovere, sempre in ambiente scolastico, e sostenere l’attività motoria contro l’ipocinesi, ma lentamente la sua figura sarà accantonata non certamente per demeriti o volontà sua. Un’Italia cialtrona e poco riconoscente la destinerà ad un immeritato oblìo sprecando irragionevolmente una preziosissima risorsa portatrice di valori alti che tanto avrebbe potuto dare al movimento sportivo in assoluto. Sarà insegnante di scienze motorie in seguito, collaborando con l’ateneo di Chieti e chiudendo in una scuola media del veronese la sua vita attiva sul campo, ma il ricordo e le emozioni che ne hanno segnato il cammino sono vivi ed indelebili scolpito tra i ricordi più belli che hanno segnato un’epoca. Sorridente, gentile, affabile e aperta Sara ti conquista con la sua serenità e con quella semplicità con cui solo i grandi di spirito riescono a convivere, abbiamo avuto il privilegio di incontrare questa giovane sessantasettenne per rivivere e condividere i suoi anni d’oro proiettandoci sul futuro prossimo tra le sue mille variabili e incertezze.
Sara buongiorno. Partiamo dall’attuale difficile situazione in continua evoluzione, gare rinviate o annullate o rinviate e calendari sempre in bilico. Oggettivamente difficile fare sport in queste condizioni?
E’ di sicuro un problema sociale che impatta tutte le categorie, sport compreso, e del quale non si riesce a vedere una fine che ad oggi appare ancora più lontana. Per fortuna gli atleti di livello riescono comunque ad allenarsi senza problemi pur con tutte le problematiche di sicurezza, ma tolto lo sport di vertice il problema reale riguarda il movimento di base che è la linfa vitale di ogni disciplina. Qui siamo fermi con tutte le conseguenze agonistiche e sociali del caso, se non ripartiamo dal basso e dai territori avremo di sicuro conseguenze nel medio lungo periodo. C’è ben poco da fare, bisogna attendere con pazienza l’intensificarsi della campagna vaccinale, altre soluzioni non ne vedo all’orizzonte.
Le Olimpiadi di Tokyo sembrano ormai confermate. Un segnale importante che lo sport deve dare per ripartire? E’ giusto farle a porte chiuse o ristrette?
Ormai è un anno che si gareggia senza pubblico, e vedo che il mondo della atletica sta reagendo bene. Ovviamente non è lo stesso, ma tenere questi atleti sei anni fermi ad aspettare un’olimpiade non è assolutamente salutare perché la competizione è il sale di ogni sport che dà stimoli e motivazioni per migliorarsi, se fosse successo a me non so come avrei reagito ma di sicuro avrebbe prevalso un senso dannoso di impotenza e di frustrazione.
Torniamo a qualche annetto fa. Una ragazzina di nome Sara Simeoni comincia per caso a praticare l’atletica leggera…
Bisogna ritornare indietro nel tempo a tanti anni fa, era ovviamente un altro mondo e lo sport si faceva per il piacere di stare insieme, un dilettantismo che niente a che vedere con l’oggi. Ero venuta a conoscenza dell’esistenza dell’atletica alle Olimpiadi di Roma, avevo sette anni e fui colpita da tutto quel clamore che l’evento suscitò. Sapevo disegnare benino e feci il liceo artistico per cui avevo tutte altre aspettative, ma oltre alla scuola eravamo alla ricerca di qualcosa da fare all’aperto tra amiche, ed ecco che è spuntata fuori l’atletica. Volevamo un po’ più di libertà e questa era una scusa ottimale per potersi trovare al di fuori senza eccessivi controlli, si stava insieme facendo qualcosa che di sicuro non ti faceva male, ma senza alcuna velleità agonistica.
E poi, pian pianino…
Poi mi son messa lì e ho cominciato ad allenarmi, ma non avevamo super-tecnici preparati e non c’era di fatto una programmazione dell’allenamento. Eravamo abbastanza impreparati, passavamo gli inverni in palestra e poi quando si andava a gareggiare andava tutto bene, il risultato non era così importante. Ho incominciato progressivamente a crederci e alle prime Olimpiadi son riuscita addirittura ad arrivare sesta, da lì ho capito che se mi fossi allenata seriamente avrei potuto competere. Ho fatto la valigia e sono andata in un centro sportivo, più mi allenavo e più le cose ingranavano e ho capito che stavo facendo la scelta giusta. E’ stato un salto nel buio perché all’epoca non c’erano i corpi militari a darti la sicurezza economica, ma quella sana incoscienza unita al tanto lavoro hanno fatto il resto. Credo che anche grazie ai nostri risultati si sia aperta una finestra sull’atletica che da lì in poi ha incominciato a dotarsi e strutturarsi meglio raggiungendo livelli anche di studio e preparazione adeguati per gli standard dell’epoca.
Sei l’unica medagliata azzurra nella storia del salto in alto, tutto questo stride con quello che ci siamo detti finora. Migliorano le tecniche e le metodologie di allenamento, ma mancano i risultati? Eri veramente un fenomeno e una predestinata?
Diciamo che negli anni ho capito quanto ero brava, perché quando ero in attività non c’era mica tanto tempo riflettere e analizzare i dati! Quando ho fatto il record del mondo ero più preoccupata a mantenere quei livelli piuttosto che a vivere sugli allori, nel tempo abbiamo avuto atlete di livello in grado di dire la loro, ma è sempre mancato qualcosa sia dal punto di vista tecnico che fisico. Ci si è focalizzati più sul personaggio che sulla sostanza disperdendo energie e concentrazione, perché nel frattempo è aumentato il confronto e la relativa competitività. Se non riesci a dare il meglio nel momento che conta difficilmente riuscirai ad ottenere dei risultati, è un discorso complesso che investe diversi aspetti della gestione di un atleta professionista.
Ricordi, sensazioni, flashback che ogni tanto ti ritornano in mente?
Ce ne son tanti, tantissimi, ma una cosa che ricordo sempre soprattutto quando incontro i giovani riguarda una tournèe che siamo andati a fare a fine stagione, l’anno in cui avevo ottenuto il record del mondo, in Giappone e Cina. Parliamo di oltre quaranta anni fa, mi sono ritrovata in una Pechino che non è quella di oggi, mi sembrava di essere un po’ come Marco Polo entrando in uno stadio pieno di gente con l’emozione che saliva alle stelle. Ovviamente non c’era competizione con le loro saltatrici, la loro più brava era arrivata ad 1,85, per cui più che gareggiare ho tenuto una lezione di tecnica con loro che prendevano nota di tutto quello che io dicessi, a cui si univano domande di ogni tipo anche a livello personale. Loro erano curiosi di conoscermi indipendentemente dai miei risultati, un ricordo unico e piacevole che ancora oggi mi è rimasto addosso, frutto di un’altra concezione e di un altro modo di intendere lo sport.
Pietro Mennea. In questi giorni si commemora l’ottavo anniversario della sua scomparsa, eravate grandi amici e dei simboli viventi e vincenti dell’epoca. Un tuo ricordo?
Son passati già otto anni, come corre il tempo! Abbiamo condiviso con tutti i dubbi e le incertezze dell’epoca, le piste e i campi di atletica. Lo ricordo al mio arrivo a Formia al centro sportivo, lui era già li ed insieme trascorrevamo ore per migliorarci e raggiungere i nostri obiettivi. Era un ragazzo generoso che dava l’anima per l’atletica che si è sudato e meritato tutto quello che ha fatto, mi ricordo che quando si viaggiava all’estero per delle competizioni la gente ci guardava con ammirazione e questo ci inorgogliva in quanto italiani. Noi abbiamo dimostrato che non ci fosse solo il calcio a tener banco, molti fans ancora oggi si commuovono e mi commuovono quando ricordano le nostre imprese per cui io e Pietro siamo e saremo legati a doppio filo da un percorso comune, anni stupendi e indimenticabili.
Parliamo di quello che hai fatto dopo. Diversi anni e vicissitudini varie con la Fidal e dopo ti sei messa ad insegnare Scienze motorie sia all’università che a scuola. Che esperienze sono state e che contesti giovanili hai trovato?
Sì ho avuto la cattedra di Scienze motorie a Chieti per dieci anni, è stata una bellissima esperienza in un contesto giovanile numeroso in cui ho cercato di abbinare lo studio all’attività all’aria aperta. Finchè si rimaneva sulla teoria che era obbligatoria è stato un lavoro di routine, ma io mi son sempre rifiutata di stare solo seduta ed ho spinto per abbinare l’aspetto pratico avendo ottimi riscontri. Il contesto che ho vissuto in questa fase non vede i giovani molto coinvolti nell’attività fisica, ho cercato di spronarli a muoversi in un certo modo perché ne giova innanzitutto la tua salute e perché a vent’anni non si può andar dall’ortopedico per posture sbagliate o per una vita sedentaria. Alle scuole medie era esattamente l’opposto, avevo ragazzi di dodici tredici anni molto motivati che si sono buttati in pista con entusiasmo indipendentemente dalle loro capacità, poi con la fidal veneta abbiamo preso parte ad un progetto sul fairplay voluto dal Miur, oltre duemila bambini straordinari di elementari e medie con cui mi sono confrontata, è stata una bellissima esperienza, molto emozionante. Fare sport fa bene per tantissimi motivi e a tutti livelli, è una questione culturale ed educativa e su questo non bisogna mai abbassare la guardia.
La cultura sportiva odierna. Segui il mondo dell’atletica? Si è perso quello spirito che vi ha guidato a scapito della performance a tutti i costi? E’ anche per questo che molti ragazzi non si divertono oggi facendo sport?
Guarda posso dirti che in questi ultimi anni ho collaborato con la Fidal Veneto ad un progetto incentrato sui giovani con i quali ho condiviso dei bei momenti anche nelle trasferte, ho trovato dei ragazzi educati ed entusiasti, e credo che non sia solo una questione di fortuna. Si tende a generalizzare e spesso si perde di mira l’obiettivo che non è quello di fare sport per vincere o diventare a tutti i costi un professionista. Bisogna farlo per motivi che prescindono il risultato e la performance, ed essendo presidente della Libertas qui nel veronese alleno e mi confronto con degli splendidi ragazzini che hanno voglia solo di fare sport e divertirsi. Peccato che questa fase storica ci stia penalizzando, ma presto ne usciremo e voglio essere fiduciosa.
Atleta del centenario. Una grande soddisfazione, che ripaga qualche amarezza di troppo? Pensi di aver dato al mondo dello sport più di quanto hai ricevuto?
Se devo essere sincera il mondo dello sport spesso e volentieri se la cava con la medaglia e una stretta di mano, avrebbero potuto di sicuro sforzarsi di più nei miei confronti però il mondo cambia e bisogna essere sul pezzo anche se le cose a volte prendono una piega non sempre logica. Mi fa ovviamente piacere aver avuto questo riconoscimento da persone qualificate che mi hanno reputata un simbolo, ma il problema è che ci gestisce ed ha le mani in pasta nel potere ha spesso visioni differenti e non sempre due più due fa quattro, peccato.
Chiudiamo con un messaggio di speranza rivolto soprattutto ai tuoi amati giovani. Quando questo brutto incubo finirà avremo un motivo in più per fare sport e stare all’aria aperta?
Indubbiamente bisognerà farlo, da mamma ho sempre spinto mio figlio a non sedersi in poltrona e non mi lamento, ho avuto buoni risultati. L’importante è dotare tutte le comunità territoriali di strutture che ti permettano di poter fare attività fisica senza costringere le famiglie a sacrifici logistici troppo complessi perché oggi il vero problema è la cronica mancanza di tempo con la quale siamo costretti a combattere. Io non avendo il supporto e le conoscenze di oggi mi sono adattata per poter fare sport, e l’unico modo era finire i compiti e non essere rimandata a settembre, oggi le giornate sono strapiene di impegni e non si riesce a star dietro a tutto. Quest’occasione tragica potrebbe insegnarci ed educarci a investire su delle strutture proporzionate alle esigenze dei giovani dove poter fare attività sportiva vicino alla propria scuola o a livello di quartiere, ne gioverebbero sia la salute che la socializzazione.