A tu per tu con Samuele Papi, “O Fenomeno” del Volley italiano
In questo momento di incertezza assoluta in cui anche la politica fa fatica a trovare risposte adeguate ai nodi cruciali che attanagliano il Belpaese, il mondo dello sport va avanti a zig-zag tra calendari stilati per essere rettificati e contraddetti in corsa, recuperi all’ordine del giorno e la cosiddetta bolla di isolamento che costringe gli atleti a rigide misure di sicurezza e ad un avvilente performance a porte chiuse. Tra le discipline che con fatica sta portando avanti la stagione c’è di sicuro il volley che, insieme al calcio e al basket, sta svolgendo regolarmente le sue competizioni nazionali ed europee garantendosi quella, a tratti surreale, normalità pur con le ovvie difficoltà economiche causate dalla mancata biglietteria. Anno intenso questo 2021 per gli azzurri che dovrebbero partecipare da qui a sette mesi alla Nations League, alle Olimpiadi di Tokyo e agli immediatamente successivi Europei, traguardi importanti per i quali bisognerà lavorare in uno scenario rischioso e logisticamente complesso. Problematiche delle quali è ben consapevole Samuele Papi, nominato dalla Federvolley Dirigente accompagnatore della Nazionale maschile e pienamente inserito nelle attuali dinamiche dopo oltre ventisette anni di attività e 339 presenze in azzurro. Un atleta che ha contribuito col suo esempio e la sua continuità all’incredibile ciclo partito nel 1994 con Velasco e protrattosi negli anni grazie a figure granitiche come quelle di Samuele, leader silenzioso di un Dream Team unico ed irripetibile. Un palmarès incredibile forte di successi ottenuti sia a livello di club che ovviamente in nazionale che lo collocano tra i più grandi di tutti i tempi in termini di vittorie e longevità, frutto di un talento smisurato accompagnato da una dedizione e costanza fuori dall’ordinario. Sei scudetti, sei coppe Italia, quattro Champions League, tre Supercoppe Europee e due Coppe delle Coppe ottenute con Cuneo, Treviso e Piacenza, le tre squadre in cui ha militato ai quali vanno aggiunti un numero impressionante di vittorie e medaglie con la casacca azzurra. Il quarantasettenne marchigiano esordisce nel 1993 alla corte di Julio Velasco conquistando nel 1994 il suo primo mondiale e la prima World League, l’inizio di una cavalcata trionfale conclusasi col bronzo olimpico di Londra 2012. Anni di successi con all’attivo due titoli mondiali e tre europei, cinque World League e una Coppa del Mondo a cui vanno aggiunti un argento ed un bronzo europeo, tre secondi e un terzo posto in World League, mentre le maledette Olimpiadi meritano un discorso a parte.
Il suo esordio è ad Atlanta 1996, l’Italia è stra-favorita, ma il diavolo ci mette la coda e l’Olanda ci beffa in finale, ci riprova nel 2000 a Sidney, ma il cammino azzurro si interrompe nettamente in semifinale contro la fortissima Jugoslavia. Sarà bronzo contro l’Argentina e l’appuntamento è rimandato ad Atene 2004, sua terza Olimpiadi ed ennesima caccia all’oro. Gli azzurri di Montali si arrenderanno nella finalissima contro un fortissimo Brasile, e dopo due argenti e un bronzo Samuele decide di lasciare la nazionale dopo il mondiale di Tokyo 2006 rinunciando a Pechino 2008. Continua e mietere successi con la Sisley dell’era Bagnoli e nel 2012 ritrova gli stimoli e le motivazioni giuste per Londra 2012 in cui si aggregherà da chioccia di lusso alla corte di Mauro Berruto. Quarta Olimpiade e quarta medaglia, un altro storico bronzo con il quale si chiude la carriera azzurra del fenomeno alla quale è solo mancata la ciliegina sulla torta che sfugge da sempre al volley nostrano. La sua parabola sportiva si chiuderà cinque anni dopo a Piacenza, oltre un quarto di secolo esemplare in cui il martello schiacciatore di Ancona ha dimostrato dentro e fuori dal campo il valore assoluto sia dell’atleta che della persona come testimoniano i riconoscimenti che gli sono stati conferiti. Il Cavalierato e l’Ordine al Merito della Repubblica rendono merito e giustizia ad un campione e ad una faccia pulita dello sport che da due anni è al servizio della nazionale ed alla quale potrà sicuramente trasmettere la sue esperienza e le sue doti di gestione dello spogliatoio. Lo abbiamo incontrato in questo complicato e decisivo momento per affrontare gli attuali scenari del volley azzurro con un occhio puntato ai momenti chiave della sua stratosferica carriera.
Samuele buongiorno, partiamo dall’attualità, un 2021 ricco di appuntamenti per l’Italvolley in un clima per niente facile. Il campionato per fortuna si sta svolgendo regolarmente, ma i rischi sono tanti e il pericolo è sempre dietro l’angolo?
Esatto è proprio così, ormai è quasi un anno che viviamo in questa bolla perenne e la via di uscita non è ancora a portata di mano. Anche il mondo dello sport è costretto a convivere con questa situazione e bisogna andare avanti giorno per giorno nella speranza che gli eventi che ci attendono si svolgano regolarmente e senza che alcuno dei nostri atleti contragga il virus. Il campionato sta per fortuna andando avanti, ma a porte chiuse manca quello spettacolo che gli atleti condividono con la passione e il tifo del pubblico, sono stato recentemente ad assistere alle gare di Coppa Italia e l’assenza di spettatori rende l’atmosfera alquanto surreale. Gli atleti si stanno purtroppo abituando, sono professionisti ed è comunque importante per loro potersi esprimere e competere.
Le Olimpiadi. Obiettivo possibile ad oggi? Quanto contano nel mondo del volley rispetto ad un mondiale o una Nations League?
Credo fermamente che le Olimpiadi siano un evento unico e speciale perché l’atmosfera che si respira la rende diversa da ogni altra rassegna. Questo si riflette nel coinvolgimento degli atleti a partire dalla sfilata iniziale davanti a stadi strapieni che dà delle emozioni e un’adrenalina incredibile, e poi la bellezza della vita nel villaggio in cui sei a contatto con i migliori atleti del mondo di tutte le discipline. Da un punto di vista tecnico non cambia più di tanto, quando sei in campo giochi sempre per vincere in qualunque competizione, ma il contorno e i ricordi che ti porti dentro dopo un’Olimpiade non hanno eguali e avendo partecipato a quattro edizioni mi sento di sicuro un privilegiato.
I tuoi inizi. Come hai approcciato il volley? Credevi di poter arrivare così in alto?
Come tutti i bambini ho iniziato a giocare a calcio e fino ai tredici anni non avevo la più pallida idee di cosa fosse la pallavolo, ma approcciandola ho capito da subito che avevo bisogno di uno sport di squadra in cui emergesse il gruppo e la condivisione della vita di spogliatoio. Questa mia esigenza prettamente sociale ha fatto si che iniziassi a giocare a Falconara nelle giovanili e lì mi sono reso conto che certi movimenti mi venivano più facili rispetto ai miei pari età. A diciassette anni mi sono trovato ad esordire in serie A e lì ho realizzato realmente di avere le capacità di reggere quei ritmi ad un livello così alto ed è scattata la molla. Ho cominciato a lavorare sul mio fisico e sulla mia testa, mi son detto che se Dio mi aveva dato questo talento avrei dovuto fare di tutto per non disperdere questa grande occasione consacrando la mia vita a questo sport.
La tua competitività, una carriera lunghissima sempre ai massimi livelli. Qual è stata la tua ricetta? Non hai mai corso il rischio di sentirti appagato?
No assolutamente no, perché vincere è sempre bello ed è il carburante necessario che ripaga di tutti i sacrifici che si fanno in allenamento. Nel volley vincere vuol dire anche condividere con i tuoi compagni questi successi, una fame di vittoria che si auto alimenta ancor di più quando hai la fortuna di giocare in top team e che ti spinge sempre a migliorare. Poi nel mondo dello sport l’infortunio è dietro l’angolo e non puoi mai sapere quanto durerà la tua carriera per cui è giusto ottimizzare ogni singolo momento per raggiungere degli obiettivi. Personalmente ho sempre pensato a gestirmi soprattutto nella parte finale del mio percorso agonistico, sapevo che sarebbero arrivati giovani atleti con i quali avrei dovuto confrontarmi dimostrando a me stesso di essere ancora in grado di competere con loro.
Il tuo rapporto con la Nazionale. Sei partito con Velasco, ti sei preso una pausa, per poi rientrare e chiudere la tua carriera azzurra a Londra 2012 con Mauro Berruto. A quali di questi allenatori sei stato più legato o riconoscente?
Mi sento innanzitutto di ringraziarli tutti per l’occasione che mi hanno dato, dandomi fiducia. E’ chiaro che per me la figura di Velasco è stata importantissima perché è legata alla mia giovane età, avevo ventun’anni e nei due anni passati con lui sono maturato tanto. La nazionale era fortissima ed io mi sono trovato in quegli anni a condividere e imparare tantissimo da un gruppo formidabile di cui Julio era il fulcro. Credo che in tutti i settori della vita sia fondamentale avere le figure di riferimento giuste al momento giusto che sanno darti quello di cui hai bisogno in quel momento. In questo penso di essere stato molto fortunato sia a livello di club che in azzurro.
Il livello del nostro Volley è sempre quantitativamente e qualitativamente soddisfacente? Un trend che va avanti negli anni che ci permette di stare tranquilli? O stiamo vivendo un momento di flessione?
Credo che recentemente abbiamo avuto una leggera flessione a livello maschile, anche nell’attività di base mentre a livello femminile direi che siamo al top. E’ in atto un’inversione di tendenza grazie all’arrivo di nuovi giovani talenti, ma c’è sempre da lavorare sodo perché il livello mondiale del volley oggi è altissimo. Son venuti fuori altri sport di squadra, il Rugby per esempio, che hanno trainato diversi iscritti e il nostro sport né ha risentito in termini numerici e non credo che il discorso degli stranieri possa essere un pretesto valido su cui attaccarci per giustificare l’attuale mancanza di risultati. Com’è successo a me credo che i nostri giovani debbano dimostrare sul campo il loro valore e di sicuro avranno degli spazi se sapranno meritarseli, ma non attacchiamoci agli alibi e pensiamo a reclutare e a lavorare bene in palestra, partendo dalle scuole.
Una squadra vincente, è una pura sommatoria di talenti o serve ben altro per arrivare al top?
Il talento da solo non basta, nella mia vita da sportivo ho incontrato tantissimi giocatori dotati che non hanno espresso i loro mezzi come avrebbero potuto per cui credo che per essere un vincente ci siano altri fattori che fanno la differenza. Il salto di qualità lo fa fare innanzitutto l’alchimia che si crea all’interno di una squadra, ognuno mette a disposizione le proprie capacità al servizio di un risultato, sacrificando anche una parte del proprio ego individuale. I cicli vincenti nascono da questa abnegazione virtuosa che è il vero valore aggiunto di un gruppo che si compatta per raggiungere un obiettivo, talento, umiltà, lavoro, sacrificio e grande intelligenza agonistica al servizio del team. Noi abbiamo vinto tanto perché siamo riusciti a combinare tutti questi fattori nei momenti che contavano.
Le tue Olimpiadi. Quattro partecipazioni, due argenti e due bronzi. Baratteresti qualche scudetto per questo maledetto oro che non è mai arrivato?
Certamente, dove devo firmare? Scherzi a parte quell’oro mi manca e manca a al volley nostrano e i rimpianti ci accompagneranno per tutta la vita perché abbiamo avuto le nostre chancès. Senza troppa filosofia i nostri demeriti sono stati quelli di arrivare alle tappe decisive senza riuscire a dimostrare di essere più bravi dei nostri avversari, a cominciare dal 1996 in cui eravamo strafavoriti contro l’Olanda. Il perché sia mancato quel quid in quel momento non so dirtelo, ma la pallavolo è uno sport tecnico e se non fai le cose giuste ed esegui male i movimenti inevitabilmente perdi, ma ciò non sminuisce i nostri meriti che sono altissimi perché per quattro volte siamo arrivati a medaglia. Bisogna anche rispettare l’avversario perché nelle successive Olimpiadi abbiamo incontrato squadre fortissime come Brasile e Jugoslavia che in quel momento hanno avuto qualcosa in più.
Il valori del movimento Volley in generale. Un ambiente sano in cui vige, pur nell’aspra competizione, il rispetto dell’avversario? E’ cambiata la pallavolo in questi ultimi anni?
Assolutamente sì, è sotto gli occhi di tutti che a veder le partite ci vadano le famiglie e che il tifo sia vissuto con correttezza e compostezza. I valori di questo ambiente sono anche strettamente ancorati alla provincia, ci sono club storici che nascono e continuano ad esistere in realtà lontane dalle grandi città, si vive tutto senza quello stress negativo che circonda per esempio il mondo del calcio. A mio avviso il volley non è cambiato per niente, i fondamentali e la tecnica sono gli stessi, ma tutto si è evoluto ad una velocità e ad un atletismo diverso e più esasperato, ma questo riguarda tutti gli sport in generale.
Chiudiamo con una domanda generazionale. Hai due figlie che fanno sport, quanto è importante per le nuove generazioni approcciare lo sport per combattere la dipendenza da social e smartphone?
Sì, per noi era normale uscire di casa per andare a giocare a calcetto e trascorrere pomeriggi interi all’aperto per fare sport, oggi non è così perché è cambiato a livello generazionale il mondo. Le mie figlie non hanno scelto la pallavolo, ma danza classica e vedo che lo fanno con lo spirito giusto divertendosi senza assolutamente alcuna pressione di un risultato a tutti i costi. Lo sport deve conservare il suo aspetto sociale e formativo a qualunque livello lo si pratichi e anche noi genitori dovremmo darci una regolata educando a questi valori i nostri figli. E’ chiaro che oggi ci sono più distrazioni ed è tutto più difficile, ma generalizzare è sempre un errore, c’è ancor più bisogno a mio avviso, soprattutto quando usciremo dalla pandemia, di tornare all’aperto e divertirsi tutti insieme facendo sport nella maniera più sana e condivisa possibile.