A tu per tu Roberto Cammarelle, il signore del ring
Partita con l’accensione del simbolico braciere a Fukushima l’edizione numero trentadue dei Giochi Olimpici di Tokyo, quella di sicuro più sentita e più attesa da tutto il mondo che dopo un anno di buio intravede uno spiraglio di luce in fondo al tunnel che si allarga di pari passo con l’incedere dei vaccini. Una rassegna a Cinque Cerchi di sicuro diversa, anomala, ma non per questo meno affascinante nonostante le necessarie limitazioni che ne limiteranno il bacino di utenza. In tutti gli sport da medaglia si stanno svolgendo le qualifiche per la conquista di un agognato pass per il quale centinaia di atleti stanno lottando in questa convulsa ed incerta parte centrale della stagione, occasione da non perdere per i nostri pugili alle prese con selettive ed estenuanti maratone sul ring alla ricerca di un posto al sole per inseguire un sogno, dopo attese, rinunce e sacrifici dovuti a questa maledetta pandemia.
Chi se ne intende di riprese, guantoni ed Olimpiadi è di sicuro Roberto Cammarelle , punta di diamante tra i più vincenti della nostra Boxe e figura di riferimento per l’intero movimento grazie al suo esempio e alla sua dedizione. Il quarantenne supermassimo, figlio di lucani e milanese di nascita, comincia ad appassionarsi al pugilato ad undici anni e, grazie ai fondamentali buoni maestri, trova nell’ex peso piuma Biagio Pierri la figura ideale per muovere i primi passi con l’approccio giusto e determinato di chi vuole fare sul serio e in men che non si dica è già campione italiano under 16 dei pesi massimi. Il successivo passaggio a diciannove anni alla categoria senior ed il contestuale ingresso nelle Fiamme Oro gli spalancano le porte di una rapida e costante ascesa che si tramuterà in un palmarès di quelli che faranno la storia, degni di una standing ovation come quella tributatagli il 29 aprile 2016 a Milano, giorno del suo ritiro agonistico. Il gigante buono ottiene i suo primi risultati agli europei di Perm 2002 e Pola 2004, due argenti importanti per affrontare da protagonista la sua prima Olimpiade, quella di Atene 2004, con uno storico bronzo che riporta l’Italia ai piani alti dello scacchiere pugilistico internazionale, e degno antipasto per Roberto ormai proiettato verso i successivi trionfi. Si comincia nel 2005 col primo oro che conta ai Giochi del Mediterraneo di Almeria a cui fa seguito nello stesso anno il primo bronzo nel mondiale cinese di Mianyang, appuntamento con l’oro rimandato solo di due anni. A Chicago 2007 il nostro sconfiggendo in finale l’ucraino Hlazov si laureerà campione del mondo davanti a sua maestà Muhammad Ali, gioia incredibile e prologo per lo strepitoso bis olimpico che si consumerà l’anno successivo a Pechino.
Venti anni dopo la vittoria di Parisi a Seoul un azzurro riesce a conquistare un oro olimpico, grazie ad una netta vittoria per k.o. tecnico contro l’idolo di casa Zhang Zhilei, un traguardo straordinario che lo consacra tra i più grandi supermassimi di tutti i tempi: ora tutti sanno chi è Roberto Cammarelle, un pugile vincente e rispettato in tutto il mondo e a caccia di nuovi obiettivi. L’anno seguente trionferà per ben due volte in Italia, ripetendosi ai Giochi del Mediterraneo di Pescara e ai mondiali casalinghi disputati davanti a migliaia di fan nella sua Milano, rivestendo contemporaneamente l‘oro olimpico ed iridato, un atleta giunto alla piena maturità e pronto per pianificare la scalata all’europeo e la riconferma a Londra 2012. Ad Ankara 2011 gli sfuggirà di un soffio il gradino continentale più alto, un ennesimo argento che si ripeterà a Londra 2012 dopo un verdetto a dir poco scandaloso e discutibile che premierà l’atleta indigeno Anthony Joshua negandogli il meritatissimo secondo oro olimpico consecutivo. L’anno successivo concluderà la sua straordinaria carriera ai vertici con il terzo oro ai Giochi del Mediterraneo a Mersin, in Turchia, e con un bronzo, alla tenera età di trentatré anni, nei mondiali kazaki di Almaty. Scontate e doverose le onorificenze a lui attribuite, Commendatore e Cavaliere al merito della Repubblica e Collare d’oro al merito sportivo a cui si è aggiunta nel 2019 la prestigiosa Walk of Fame dello sport azzurro al Parco Olimpico del Foro Italico. Dopo l’addio alle competizioni rivestirà il ruolo di direttore tecnico delle fiamme oro e per un quadriennio, conclusosi l’anno scorso, quello di team manager della nazionali azzurre di pugilato, incarico lasciato a scadenza di mandato. Abbiamo avuto il piacere di incontrarlo per analizzare la sua longeva e vincente carriera e per proiettarci sullo stato dell’arte attuale della Boxe italiana, alle prese con questa delicatissima fase pre-olimpica.
Roberto buongiorno partiamo da questa fase che di sicuro ha messo in seria difficoltà tutto il mondo della boxe. Come l’hai vissuta e quanto è difficile in uno sport di contatto mandare avanti le normali attività agonistiche?
E’ stato difficile, molto difficile perché quando è scoppiato il caos a marzo scorso eravamo appena arrivati a Londra per disputare le qualificazioni olimpiche, ci siamo trovati costretti a scappare dopo una decina di giorni di allenamento. Siam tornati in Italia per fortuna e abbiamo iniziato il lockdown a casa, ma ragionando da ex atleta posso immaginare il trauma di chi si trova di punto in bianco ad interrompere il proprio lavoro dopo mesi di sacrifici e preparazione. Noi abbiamo bisogno del contatto per cui è stata dura tenere i ragazzi concentrati negli allenamenti in questa prima fase, poi pian pianino i protocolli del C.O.N.I. ci hanno aiutato con le varie bolle e da li siam ripartiti col training di gruppo ed è tornata la normalità, facendo regolarmente e periodicamente i tamponi. Ci sono stati in autunno diverse situazioni di contagio e abbiamo dovuto fermarci per un po’, e da gennaio siamo a pieno regime pronti per Tokyo.
Tokyo si svolgerà senza pubblico straniero. Ha senso fare comunque le Olimpiadi a porte quasi chiuse? Mancherà quella condivisione che era il suo punto di forza?
Io credo che lo sport abbia la priorità, per cui meglio un’Olimpiade ovattata rispetto a non averla proprio. Certo il pubblico è parte integrante della rassegna, sia economicamente che mediaticamente e mancherà di sicuro quello spirito unico che da sempre la contraddistingue. Poi posso dirti che il pugile è un uomo solo che sale sul ring, abituato spesso ad avere il tifo contrario, che deve andare dritto per la sua strada per raggiungere un obiettivo, per cui credo che dal suo punto di vista quello che conta di più è il potersi esprimere confrontandosi con i suoi avversari.
Torniamo indietro di una trentina di anni e raccontami di quel ragazzi di undici anni che muove i primi passi sul ring a Cinisello Balsamo…
Ho cominciato ad andare in palestra per dimagrire, lungi da me pensare al pugilato, ma guardando gli altri ragazzi che lo praticavano ne rimasi da subito incuriosito. Quando ho capito che era nelle mie corde il sapersi muovere nello spazio provando a sferrare i colpi e a difendersi ho desiderato mettermi subito all’opera per tentare di emulare le gesta del grande Mike Tyson. Era un mito da raggiungere e da lì ho cominciato ad undici anni ad allenarmi facendo tante sedute tecniche mentre aspettavo l’esordio a quattordici anni, cosa che è avvenuta subito con una vittoria under nel campionato italiano. Poi è successo tutto in fretta, ho incominciato a guadagnare i primi premi in denaro, poi vincere aiuta a vincere e ci ho messo tutto me stesso.
Pugili si nasce o si diventa? O tutt’è due?
C’è molto probabilmente una predisposizione genetica, poi le doti fisiche tecniche si possono implementare lavorandoci su, ma a mio avviso l’aspetto più importante è quello mentale. Il nostro è uno scontro tra due menti prima che tra due corpi, spesso vince quello più bravo che con intelligenza riesce a sfruttare le sue caratteristiche in maniera superiore. Devo molto al mio primo maestro che mi ha formato dandomi la mentalità agonistica giusta, io volevo vincere e lavoravo per vincere arrivando per primo in palestra ed uscendo per ultimo. Poi a cominciare da Atene 2004 si sono affacciati i primi mental coach, degli psicologi dello sport che mi hanno aiutato a gestire la pressione e a ottimizzare i miei punti di forza, il resto è storia, quella di un ragazzo che ci ha creduto e si è sacrificato duramente.
Nel 2000 sei entrato a far parte delle Fiamme Oro. L’importanza di questi corpi militari per le vostre carriere sportive?
I gruppi sportivi sono fondamentali per il 90% degli atleti olimpici, perché tutti noi veniamo aiutati da loro a svolgere da professionisti a tempo pieno le nostre discipline. La polizia è il gruppo militare storicamente più importante, senza di loro non avrei potuto esprimermi con la concentrazione necessaria e se a questo aggiungiamo la certezza di avere un lavoro alle spalle che ti accompagnerà anche dopo la tua carriera sportiva direi che il loro ruolo è a dir poco cruciale e alla base dei nostri risultati.
Qualche vittoria l’hai ottenuta qua e la per il mondo. Ricordi particolari che ogni tanto ti tornano in mente? La delusione più grande è quella di Londra 2012?
In assoluto credo che l’oro di Pechino sia quello che mi ha dato la fama mondiale, facendomi entrare nelle case di tantissima gente, ma anche l’oro iridato di Chicago del 2007 davanti al mito vivente Muhammad Ali è un altro ricordo indelebile. Anche la vittoria mondiale di Milano davanti al tripudio della mia gente non è affatto male, la somma di tutte queste vittorie mi ha dato quel riconoscimento internazionale di cui sono veramente fiero, forse è questa la vittoria più bella. Certo la sconfitta di Londra brucia perché a detta di tutti non era meritata, un rimpianto e una situazione che mi da fastidio anche se guardando la straordinaria carriera che sta facendo Anthony posso dire con franchezza che quel mio argento è sempre più dorato, quando riguardo quella finale sono a posto con la mia coscienza e sempre più contento di me stesso e della mia prestazione.
La boxe in generale. Verdetti discutibili, un gran volume di affari che attira scommesse e investitori. E’ uno sport pulito al cento per cento?
Io farei un distinguo basilare e necessario: a livello dilettantistico la distanza delle tre riprese non da adito a situazioni poco chiare e non si investe sul doping perché non è necessario per la prestazione, discorso completamente diverso a livello professionistico dove girano tanti, troppi soldi. Questo sport è un po’ una metafora del mondo economico contemporaneo in cui pochi atleti guadagnano tanto mentre la maggior parte sopravvive e questo fa si che più il livello si alza e più è oggetto di interessi trasversali. Sugli arbitri in non posso credere alla malafede, ma di sicuro bisogna scegliere i migliori e i più esperti quando il livello della posta è molto alto, cosa che non sempre avviene anche a livello dilettantistico. Non è una questione facile da risolvere, ma l’oggettività dei punteggi di un match che garantiva il contatore meccanico dei colpi è stata soppiantata dalla soggettività dei cartellini ad uso discrezionale e interpretativo dei giudici e questo a mio avviso è un male che di sicuro non aiuta a dare credibilità.
Il movimento pugilistico attuale. Come siamo messi in generale e quante frecce al nostro arco ci sono per Tokyo?
Nonostante non sia più il team manager della nazionale sono stato fino a ieri a contatto con le varie squadre, e per il settore maschile siamo reduci da non buoni risultati a Londra e non abbiamo ancora i ricambi giusti per essere competitivi, si sta lottando per qualificarsi per tentare di dire la nostra a Tokyo, ma non sarà facile. Il discorso femminile è diverso, abbiamo diverse atlete in procinto di qualificarsi e diverse punte di diamante a partire dalla giovane Irma Testa che ha già dimostrato di potersi giocare il podio olimpico, sono molto fiducioso che le nostre ragazze ci daranno qualche soddisfazione nonostante tutte le variabili del caso.
Com’è cambiata se è cambiata la boxe in questi ultimi trent’anni?
In Italia si è evoluta a mio avviso la boxe olimpica e parallelamente involuta quella professionistica. Questo è dovuto in parte ai nostri risultati che hanno spinto molti giovani a provare la strada dilettantistica. I Benvenuti e gli Oliva non sono più i punti di riferimento di oggi, un trend al contrario che può sembrare un paradosso, ma ad oggi è un dato di fatto. Si è abbassata decisamente la qualità, oggi pochi match sono memorabili perché soprattutto a livello professionistico si è puntato in questi ultimi anni molto poco sulla tecnica, quello che conta è vincere per k.o. prima della fine delle riprese. Più potenza e violenza a discapito dello spettacolo e di conseguenza meno interesse da parte del grande pubblico, dobbiamo recuperare quell’appeal che oggi non abbiamo più. Poi bisogna sfatare il falso mito dello sport violento, la boxe non lo è perché, a differenza di altri sport, ha delle regole e dei valori fondanti basati sulla sicurezza e sul rispetto dell’avversario.
Chiudiamo con un invito ai giovani. A fine pandemia andiamo tutti a fare movimento riappropriandoci dei nostri spazi e delle nostre libertà?
Assolutamente sì, lo sport è vita vera non una realtà virtuale e non può e non deve essere sostituito da tablet e play station. Abbiamo i parchi sotto casa andiamoci e riappropriamoci del movimento, perché un male che affligge i nostri ragazzi è quello di non sapersi muover e coordinare adeguatamente visto che non sono abituati a farlo. Manca l’aggregazione, figure chiave come gli oratori sono spariti del tutto e molti giovani decidono di dedicarsi ad un solo sport per poi stancarsene presto mentre un adolescente dovrebbe poter provare e scoprire più discipline come succedeva quando io ero ragazzo. Speriamo di ripartire presto con diversi progetti, a partire dalla scuole, e rimbocchiamoci tutti insieme le maniche per riportare le nuove generazioni nei campi e nelle palestre.