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A tu per tu con Paolo Bettini, il Grillo più veloce del mondo

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A tu per tu con Paolo Bettini, il Grillo più veloce del mondo

In questa pazza stagione agonistica, che si sta svolgendo rigidamente a porte chiuse per garantire la sicurezza degli atleti evitando assembramenti e rischi di contagio, se c’è uno sport che sta pagando un prezzo più alto degli altri, questo è senza dubbio il ciclismo. Uno sport popolare che passa a trovarti per le strade senza chiederti niente in cambio, che ti avvolge in un grande abbraccio e aspetta che tu sia lì pronto ad accenderti al suo passaggio. Con la Milano Sanremo il grande circo professionistico a due ruote ha aperto le sue danze, tra le inevitabili bolle di sicurezza atte a proteggere i protagonisti da contatti e la voglia di andare avanti, con tutte le difficoltà del caso, fino al traguardo per eccellenza, quello di Tokyo 2021.

Parlare di grandi Classiche, Mondiali o di Olimpiadi nel mondo della bicicletta non può prescindere dalla figura di Paolo Bettini che con le sue imprese di un giorno ha regalato all’Italia le ultime vere grandi gioie con una impressionante sequenza e una notevole regolarità, frutto di un talento estroso sempre pronto ad esplodere in corsa. Esile e magrolino, il Grillo di Cecina approccia sin da piccolo la bici grazie alla passione paterna che condivide col compianto fratello Sauro, e sin da dilettante comincia e mettersi in mostra con quei sui scatti da folletto e l’argento vivo addosso che fa presagire un destino da predestinato. Da juniores non sfavilla, ma nel 1996 a soli ventidue anni un certo Giancarlo Ferretti si accorge del potenziale del ragazzo ed in men che non si dica Bettini si ritrova professionista alla corte della MG Technogym e convocato per il mondiale juniores under 23. Breve la sua avventura con la neonata corazzata, ma fondamentale per la sua formazione iniziale, a cominciare dalla conoscenza di Michele Bartoli, suo amico poi rivale e capitano, per il quale il nostro svolgerà inizialmente uno pseudo-gregariato attivo, con tanto di settimi posto al Giro nel 1998, in vista di una futura leadership. Sciolta la Mg sarà proprio Bartoli a volere Bettini in Mapei e sarà proprio un infortunio del suo capitano a convincere patron Lefevere a puntare sul cavallo di razza di Cecina. Siamo nel 2000 ed è qui che si comincia a fare sul serio, Paolo si aggiudica la sua prima Baston Liegi, ribadendo al mondo e a sè stesso la vocazione per le kermesse giornaliere più che sulla distanza delle tre settimane, e una volta rotto il ghiaccio imprimerà il suo marchio di fabbrica nei successivi otto anni. Nel 2001 si aggiudica la Coppa Placci e il Campionato di Zurigo, e in quello successivo fa il bis tra le Ardenne di Liegi aggiudicandosi inoltre il Giro del Lazio e la Coppa Sabatini.

Nel 2003 mette il suo sigillo nella Regina della Classiche, sua la Sanremo e la prima delle sue tre coppe del mondo raggiunta grazie alla vittoria nella Classica di San Sebastian. II grillo è ormai il più grande finisseur mondiale contemporaneo pronto a dire la sua sia a livello mondiale che olimpico, ma l’oro iridato sfuma un paio di volte sia a Lisbona  2001 dove giunge secondo che ad Hamilton nel 2003 dove deve accontentarsi della medaglia di legno, ma l’appuntamento da non fallire con la storia è quello di Atene 2004: Paolo dopo un assolo nella salita finale fa il vuoto, si trascina con sé solo il portoghese Paulinho che non potrà nulla contro lo scatto feroce del grillo: oro all’Italia dodici anni dopo Fabio Casartelli e Bettini lanciato nell’Olimpo degli Dei delle due ruote. L’anno olimpico si chiude col tris consecutivo in Coppa del Mondo e, dopo un 2005 interlocutorio, con l’ennesima delusione mondiale abbondantemente ripagata dal bis a Zurigo e dal primo Lombardia, l’anno dopo Paolo è la nostra punta di diamante per la caccia all’iride di Salisburgo. In un percorso non durissimo e adatto agli sprinter viene ribaltato ogni pronostico nell’ultimo chilometro, Bettini riesce ad entrare nel quartetto giusto e a mettere la sua ruota davanti a gente come Zabel e Valverde consacrandosi a trentadue anni tra i più grandi azzurri di tutti i tempi, quelli che hanno saputo vincere quando contava davvero gestendo sapientemente il talento di madre natura e la tattica di gara grazie ad una consolidata maturità fisica e mentale. La sua leggenda sportiva frutto di un temperamento e una determinazione di ferro a cui si aggiungono le sue istrioniche doti di simpatia toscana si diffonde lungo lo stivale.

Un uomo semplice e schietto, portatore sano dei valori positivi del ciclismo, che in quegli anni era in piena bufera doping, ci regala gioie e soddisfazioni a ripetizione scaldandoci con quel suo sorriso sincero e un po’ furbetto di chi la sa molto lunga. Dopo il fantastico bis al Lombardia del 2006, l’anno dopo è di quelli da incorniciare perché se vincere è un segno tangibile della propria forza, ripetersi è la dimostrazione palese di una convinzione dei propri mezzi che va al di la della norma. Siamo ai mondiali di Stoccarda e Paolo ci arriva con la maglia di campione olimpico e mondiale in carica, la stampa tedesca ci mette del suo pubblicando articoli vergognosi in cui viene associato il suo nome a questioni di doping, pura benzina sul fuoco che il grillo spegne con uno splendido e sontuoso bis, un gioco di squadra perfetto concluso dal più forte dei cinque in volata che al traguardo zittisce tutti col gesto del fucile. Siamo all’apice dei successi e dei trionfi, difficile far meglio di così e Paolo nel 2008 capisce dopo la delusione di Pechino e la Vuelta che è il momento giusto per smettere e ricominciare una nuova vita. Nel 2010 dopo la tragica morte di Franco Ballerini verrà nominato C.T. della nazionale azzurra, incarico che ricoprirà per tra stagioni, e tenterà in vano in seguito di dar vita ad un progetto ambizioso con Fernando Alonso per tirar su una squadra nuova di zecca. Lo abbiamo incontrato per riavvolgere un po’ il nastro della sua storia, e per ragionare su questo momento difficile che lo sport, ciclismo compreso, sta vivendo in questa delicatissima fase.

Paolo buongiorno. Partiamo dalla stretta attualità, momento difficile in generale e per lo sport in particolare. Un anno perso che avrà conseguenze nel futuro?

Sì purtroppo è proprio così se parliamo del mondo dilettantistico, quello degli junior e i primi anni di under,  tutto il movimento di base si trova con la doppia difficoltà di dover fare didattica a distanza rinunciando alle ambizioni sportive e lo vedo con mia figlia che va in quarta liceo, vive sia una mancanza perenne di socialità scolastica che un’astinenza forzata dal fare movimento. Se poi a questo aggiungiamo che le categorie più giovani che aspirano al grande passo verso il professionismo, si trovano oggi senza obiettivi e competizioni il danno è enorme e francamente irreparabile, perché per tanti di questi ragazzi andare in bici rappresenta la vita come lo è stato per me che gareggiavo per amore e per passione. Un anno perso e speriamo nel futuro breve di poter limitare i danni.

Le Olimpiadi di Tokyo saranno di sicuro l’evento clou di quest’anno. Un segnale importante per tutto il mondo dello sport? E’ giusto che si facciano comunque nonostante le inevitabili limitazioni?

Facciamo un passo indietro e torniamo alle origini delle Olimpiadi nell’Antica Grecia, si facevano per riposarsi e deporre l’ascia di guerra. Lo sport serviva proprio a questo e, fatte le dovute proporzioni, è sacrosanto che quest’anno si celebri la festa per eccellenza dello sport anche senza pubblico. Non saranno giochi facili per niente, difficile gestire la sicurezza ed in caso di positività di alcuni atleti li verrà messa in discussione la regolarità delle gare, senza tener conto del dramma individuale che l’atleta sarà costretto a vivere. Sono i rischi da correre in questo momento così difficile, ma bisogna andare avanti perché un’alternativa non c’è.

Torniamo indietro con la macchina del tempo. Siamo agli inizi degli ani ottanta e un ragazzino di Cecina comincia a muover i primi passi sui pedali su una vecchia bici di fortuna…

Eh si, parte tutto da lì perché questo amore per la bici mi è stato inculcato da mio papà e da mio fratello Sauro che aveva dieci ani più di me, era lo sport di famiglia e non vedevo l’ora da subito di poter iniziare a gareggiare. All’inizio era tutto un gioco e un divertimento com’è giusto che fosse, ho avuto la fortuna di fare per lavoro quello che amavo di più nella vita un privilegio rarissimo che ho saputo cogliere e portare avanti anche grazie ai risultati. Un momento chiave in cui ho realizzato dove potevo arrivare è stato di sicuro il mio primo successo alla Liegi Baston Liegi nel 2000, una classica che volevo da sempre dopo averla corsa anche da gregario per Bartoli. Da lì mi son sbloccato e mi sono detto che dovevo provare a vincerle tutte perché avevo i mezzi e le qualità per poterlo fare, ho creduto in me stesso e ci ho dato dentro nei successivi otto anni con la consapevolezza e la convinzione di poter arrivare.

Oltre alle numerose classiche, hai vinto tappe in tutti e tre i grandi giri onorandoli pur non avendo ambizioni di vittoria. Un finisseur come te pensi che possa trasformarsi in un corridore da tre settimane o è inutile provarci? Penso per esempio ad un campione come Filippo Ganna…

No francamente no, credo che la natura vada assecondata e l’atleta deve essere bravo a capirlo e a lavorarci sopra senza voler a tutti i costi cercare di essere chi in realtà non è. Nibali pur essendo riuscito a vincere una Sanremo e un Lombardia ha vinto i tre grandi giri perché, oltre ad essere un fenomeno, rimane comunque un corridore che riesce ad esaltarsi in quota e a dare il meglio di se nella terza settimana mentre uno come me, che pure è riuscito ad aggiudicarsi qualche corsa media come la Tirreno o il Giro del Mediterraneo, soffriva tantissimo in montagna ed inevitabilmente capitava la crisi di un giorno e addio. Nel 1998 in cui ho fatto settimo al Giro invece di esaltarmi ho capito che non avrei dovuto più correre per la classifica di un grande giro, scelta che poi si è rivelata vincente.

Il movimento azzurro generale. Non abbiamo squadre World Tour e i nostri migliori atleti emigrano, anche a costo di fare i gregari, negli squadroni attrezzati per vincere e competere. Perché siamo arrivati a questo?

Questa è la dura realtà di oggi, non abbiamo squadre al top e i nostri emigrano a cercar lavoro all’estero dove, a meno che tu non sia un fenomeno, devi accettare i ruoli e se ti dicono di sacrificarti per un capitano lo devi fare seguendo le logiche del team. Crisi a parte credo che ci sarebbero aziende italiane che hanno il potenziale per tirar su una squadra di livello, ma ahimè il ciclismo paga sicuramente la campagna mediatica pessima di questi ultimi vent’anni e allo stesso tempo investire così tanti soldi senza alcuna certezza, copertura mediatica a parte, non facilita e non attira ipotetici imprenditori che non se la sentono di assumersi un rischio così alto. E’ un meccanismo perverso messo su dall’UCI che da una parte chiede un’adeguata solidità economica, ma dall’altra parte non ti garantisce di poter accedere alle corse più importanti dell’anno lasciandoti in uno stato di profonda incertezza, e l’Italia in tal senso sta pagando in questa fase il prezzo più alto. 

 

Tante, tantissime vittorie. Ricordi indelebili? Mondiali e Olimpiadi hanno qualcosa in più? C’è anche qualcosa che non ti è andata giù?

Avendo avuto il privilegio di vincerli entrambi posso dirti con certezza che la vittoria Olimpica non ha eguali al mondo, perché quell’atmosfera la trovi solo nel villaggio dove atleti da ogni parte del mondo condividono i tuoi stessi sogni e le tue stesse speranza. Mi ricordo quando vinsi l’oro arrivai la sera a cena con la medaglia al collo e la prima a congratularsi fu la tennista Mauresmo, si percepiva l’ammirazione, l’invidia e lo stupore per quel traguardo che avevo raggiunto. Solo chi le ha vissute può capire la magia di un evento del genere che non è paragonabile a null’altro, mentre la delusione più grande forse è stata quella di quattro anni dopo a Pechino, perché per scelte tattiche sbagliate di squadra non ho corso come Bettini sapeva fare, mi son sentito un leone in gabbia e non ho onorato la maglia di detentore come avrei voluto.

Hai ricoperto anche il ruolo di allenatore azzurro. Differenze sostanziali tra correre ed allenare?

La difficoltà principale di un allenatore è quella di costruire ed amalgamare una squadra, non tanto allenarla perché gli atleti sono dei professionisti abituati a fare training nei loro team. Far capire i ruoli e farli accettare a tutti non è affatto facile, anche nel criterio di selezione quando sei costretto a far certe telefonate in cui spieghi i motivi di una determinata scelta o di un’esclusione. Da ex atleta pensi solamente a correre e a dare il massimo, quando sei dall’altra parte devi pensare alla tenuta del gruppo e sei costretto a gestire e ad organizzare tante varianti delle quali sei responsabile in prima persona.

Il Mondo del ciclismo, ha recuperato in questi anni? Il doping ce lo siamo lasciati alle spalle, o va tenuta sempre la guardia alta?

Di sicuro è stato fatto un gran lavoro, il ciclismo è andato avanti con orgoglio facendo tesoro degli anni bui che ha passato perché coi suoi protocolli e i suoi controlli è stato un esempio per molti altri sport. Ha pagato giustamente il suo prezzo, ma il peggio è ormai alle spalle e oggi siamo credibili come movimento nonostante i tanti insulti e le accuse prese mentre correvamo sia da parte del pubblico che da parte di certa stampa che non vedeva l’ora di scavarci la fossa. Ovviamente mai abbassare la guardia e mai credere che certe pratiche o certi sistemi siano latenti, bisogna sempre continuare a controllare i corridori nel loro interesse per tutelare la loro salute e la credibilità di questo sport.

Il ciclismo di oggi, lo segui con interesse? E’ tutto così maniacale e gestito a tavolino a discapito della fantasia? E’ uno sport più noioso?

Hai ragione, soprattutto nelle corse di tre settimane tutta questa tecnologia appiattisce le gare perché i top team, uno stretto oligopolio di squadre, pianificano e costruiscono tutto il loro lavoro per raggiungere questi obiettivi. Sono corazzate piene zeppi di capitani e di vice capitani dove la figura del gregario è pressoché residuale, e questo comporta una grande difficoltà nel fare la differenza e animare la corsa quando le andature in gruppo sono insostenibili e gestite in maniera automatica. Questi grandi investimenti fanno sì che squadre ad altissimo potenziale gestiscano a loro piacimento l’andamento delle tappe blindadole di fatto per evitare qualsiasi soluzione estemporanea. Questo ammazza la fantasia e l’imprevedibilità del ciclismo che ovviamente appassiona meno, per fortuna nelle grandi classiche tutto ciò non avviene e ancora assistiamo ancora ad azioni degne di questo sport.

Chiudiamo con un messaggio di speranza post pandemico. Invitiamo i giovani a riappropriarsi dei propri spazi e magari a salire su una bici per provare a fare sport?

La pandemia ha accentuato uno stato di cose che era già partito prima, difficile dare obiettivi a questi ragazzi e stimoli di un certo tipo e le conseguenze di questa asocialità le vedremo nel prossimo futuro perchè è da marzo scorso che molti adolescenti vivono incollati ad uno schermo. Riscoprire in questa nuova fase la bicicletta è un dovere perché è un mezzo che fa bene alla salute, assicura la distanza e ti rende libero di girare ed esplorare la natura a tuo piacimento. Bisognerà a mio avviso cavalcare l’onda e creare con la Federazione dei sistemi virtuosi per attrarre nuove leve e far scoprire il ciclismo a tanti giovani che stanno subendo in questa fase danni enormi, trasformiamo questo disagio in un’opportunità. Servono idee, se quelle ci sono arrivano anche gli investimenti, ma bisogna far presto perché non c’è assolutamente tempo da perdere.

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