A tu per tu con Kristian Ghedina, la Leggenda dell’Italjet
In pieno svolgimento le Olimpiadi di Pechino tra protocolli di sicurezza che tengono in perenne stato di allerta gli atleti costretti a dei veri tour de force tra controlli e ripetuti tamponi. Situazione complessa per i professionisti della neve che vivono in perenne isolamento col rischio concreto di essere mandati a casa in caso di positività, situazione che stride con i valori etici dello sport e dalla sana competizione. Situazioni che per fortuna non è stato costretto a vivere Kristian Ghedina, uno dei massimi esponenti dell’Italjet azzurro che a suon di vittorie è stato tra i dominatori della discesa libera negli anni novanta con trentatré podi, tra discesa e super G, e tredici successi in Coppa del Mondo, ai quali vanno aggiunte tre medaglie mondiali, due argenti e un bronzo.
Il cinquantaduenne cortinese figlio d’arte subisce a quindici anni la grave perdita della madre Adriana Dipol, maestra di sci morta in un incidente sulle piste nel 1985, che lo costringe a maturare in fretta e a cercare da subito di concentrarsi sul suo obiettivo genetico, fare velocità. Il tempo di vincere la Coppa Europa di discesa nel 1989 e Kristian è già pronto per quella assoluta, lo stesso anno coglie i primi podi con un terzo posto in Gardena e un secondo a Schladming, mentre la prima incredibile vittoria arriverà il mese successivo nella sua Cortina alla quale fare seguito un fantastico bis nelle finali di marzo ad Are. Siamo nel 1990 ed è nato un giovane campione, talento istintivo e spericolato e quel fare guascone che conquistano immediatamente la platea del circo bianco, una ventata di freschezza che si aggiunge alle scorribande dell’Albertone nazionale, vero dominatore dei pali stretti. L’anno successivo arriverà la prima medaglia iridata a Saalbach, un argento in combinata, ma il diavolo ci metterà la coda: un brutto incidente stradale sull’autostrada Torino Milano lo costringerà a nove giorni di coma, una carriera seriamente compromessa che solo una grande forza di volontà riusciranno ad evitare. Finita la riabilitazione Kristian rientra nel 1992, anni difficili ed avari di risultati con in mezzo due giochi Olimpici di Albertville e Lillehameer e i mondiali di Morioka conclusi con piazzamenti lontani dal podio, ma fondamentali per ripartire e tornare a credere in sé stresso. La svolta avverrà nella stagione 1994/95 in cui oltre alle due vittorie di Wengen e Whistler arriveranno altri tre podi che lo avvicineranno alla Coppa di specialità persa per un soffio alle spalle di Luc Alpand, risultati confortanti in vista dei mondiali di Sierra Nevada del 1996, dove il finanziere di Cortina raccoglierà uno splendido argento e un posto nella storia della discesa libera mondiale. Altra stagione memorabile quella del 96/97 in cui arriveranno tre successi in meno di un mese tra fine dicembre e metà gennaio, Gardena, Chamonix e il bis di Wengen in cui stabilirà il record assoluto sulla Lauberhorn in 2’24’’37, ai quali faranno il quarto posto assoluto in Coppa del Mondo e il secondo in quella di discesa e, come ciliegina sulla torta, il bronzo ai mondiali di Sestriere nella stessa edizione in cui Tomba chiuderà i battenti con un analogo bronzo in slalom. Solo sesto in discesa l’anno successivo alle Olimpiadi di Nagano, delusione ampiamente compensata dal successo del nostro sulla mitica Streif, primo azzurro a imporsi nel tempio dello sci di Kitzbuhel davanti agli increduli Didier Cuche e Josef Strobl, e dalla seconda vittoria in Gardena che lo porterà in doppia cifra tra i migliori discesisti di tutti i tempi.
Niente medaglie ai mondiali 1999 di Beaver Creek, un nono in discesa e un decimo posto in Super G gli negano per l’ennesima volta l’oro iridato, bisognerà attendere dicembre per vederlo di nuovo sul gradino più alto del podio con il terzo successo in Gardena raggiunto a trent’anni appena compiuti. Gli ultimi due acuti in carriera gli regaleranno la prima ed unica vittoria in Super G nel 2000 a Kvitfjell in Norvegia e il quarto successo, detenuto in condominio con Klammer e Walchhofer, in Gardena nel 2001, luogo ideale per chiudere una strepitosa carriera da vincente che ha saputo unire genio e sregolatezza, passione e controllo e quel sano pizzico di follia che solo chi viaggia su un paio di sci a più di cento all’ora possiede nel suo patrimonio genetico. Kristian non molla e affronta le stagioni successive consapevole di aver già dimostrato, reagendo da vero campione alle non poche traversie che la vita gli ha costretto a subire, tutto quello che era nelle sue corde, chiuderà in bellezza partecipando, alla tenera età di trentasette anni, alle Olimpiadi di Torino per dedicarsi anima e corpo alla carriera parallela di pilota che lo porterà dal 2006 al 2011 a partecipare a diverse edizioni dei Campionati Superturismo, alla Porsche Supercup e alle Superstars Series dove saprà destreggiarsi egregiamente ottenendo diversi podi e discreti piazzamenti. Nel 2012 allenerà per un anno il croato Ivica Kostelic nelle discipline veloci e nel 2014 fonderà una scuola sci nella sua Cortina mettendo a disposizione la sua esperienza per i giovani sciatori del futuro.
Abbiamo avuto il piacere di incontrarlo durante lo svolgimento delle Olimpiadi per discutere ed analizzare con lui l’attuale situazione della velocità azzurra alle prese con dei seri problemi legati al ricambio generazionale.
Kristian buongiorno, partiamo dalle Olimpiadi in pieno svolgimento. Misure di sicurezza rigide e assenza di pubblico di certo non giovano allo spettacolo. Quanto è difficile per un atleta convivere con questa spada di Damocle chiamata Covid?
Gareggiare senza pubblico toglie di sicuro qualcosa allo spettacolo, ma nelle nostre discipline il pubblico lo vedi solo all’arrivo mentre per tutta la discesa sei da solo per cui non è questo a mio avviso il problema. La vera difficoltà è convivere con questo maledetto virus perché anche se segui tutte le regole potresti risultare positivo ad un tampone senza avere alcun sintomo ed essere costretto a tornare a casa. Poi non sottovaluterei anche l’utilizzo della mascherina che devi indossare in ogni spazio condiviso con tutti i relativi fastidi alla respirazione e alla mancanza di libertà che ne derivano.
Le tue esperienze olimpiche. I gradini sul podio sono tre e dal quarto in poi i piazzamenti contano ben poco, non è certo facile vincere una medaglia visto l’altissimo livello di competitività? Male gli uomini in discesa e super g, confidiamo nelle donne?
Purtroppo questa è la dura legge del podio, nel maschile non è andata bene anche se qualche speranza di medaglia l’avevamo. Paris e Inner non hanno trovato il feeling giusto con la neve e poi livello è di sicuro altissimo per cui è sempre difficile entrare nei tre. Il discorso femminile è tutta un’altra storia , la Brignone ha già un argento al collo e può far bene sia in combinata, discesa e super g mentre la Goggia, che giustamente ha rinunciato al super g, come sappiamo è un bel punto interrogativo perché dopo la caduta di Cortina ha di sicuro voglia di riscatto anche se le sue condizioni sono non ottimali.
I tuoi inizi di sicuro sono stati segnati dalla scomparsa improvvisa di tua madre. Una tragedia che ti ha fatto maturare in fretta e ti ha dato la forza di reagire? Che ricordi hai di quei primi anni?
Fin da piccolo ho sempre avuto un’attrazione genetica per tutto ciò che era adrenalina e pericolo estremo, di sicuro ho preso da mia madre che mi ha trasmesso questa esuberanza che purtroppo ha pagato con la vita in un eccesso di confidenza con un fuori pista. Questo mi ha profondamente segnato, ma mi ha anche trasmesso la forza per reagire e per non mollare perché lo sci era la sua passione ed è diventata per un motivo in più anche la mia. Tutto quello che ho fatto sicuramente è il frutto di tutte queste complesse situazioni emotive che mi hanno spinto a dare sempre il massimo e a crederci sempre.
Esordi vincenti, nel 1990 a soli ventun anni già due vittorie. Poi quel maledetto incidente che ha messo a repentaglio la tua carriera. Dove hai trovato la forza di reagire? Hai mi pensato di non potercela fare?
Ho sempre pensato di potercela fare anche se i dottori mi avevano lasciato ben poche speranze di poter tornare in pista. Li ringrazio ancora per tutto quello che hanno fatto, ma io ho ascoltato il mio corpo e la mia testa e ho trovato la forza e le motivazioni per tornare non solo a vivere, ma anche a sciare. Pian pianino ho visto che le cose miglioravano e appena fisicamente ho cominciato a sentirmi meglio ho cercato di recuperare il tempo perduto, e ricordo che appena cercai di fare un giro in bici capii perché i medici mi avevano, dopo nove giorni di coma, proibito di guidare qualunque mezzo meccanico. Non riuscivo a stare in equilibrio e li mi è caduto il mondo addosso, ho avuto paura di non farcela. Poi mi sono messo come un bambino a riprovare un po’ per volta e ho rimesso in moto la mia macchina che di fatto si era completamente resettata.
Olimpiadi e Mondiali sono sempre gare di un giorno. Per un discesista è molto più importante una Coppa di specialità che simboleggia la continuità di rendimento nel corso di un’intera stagione?
Avendo partecipato a cinque edizioni dei Giochi Olimpici senza uno straccio di medaglia posso dirti che la cosa un po’ mi brucia ed è il mio più grande rammarico in carriera. Poi è chiaro che vincere come primo azzurro sulla Streif è stata un’emozione incredibile ed è un peccato che alla fine non sia riuscito a vincere nemmeno la Coppa di specialità che ho sfiorato per tre volte. Un atleta vincente può dirsi completo se ha vinto sia le gare simbolo dello sci che medaglie mondiali o olimpiche per cui una vittoria in discesa la baratterei con un bell’oro olimpico al collo.
Hai vinto tutte le discese che contano, ce n’è una in particolare che ti è rimasta dentro più delle altre? Una delusione che non sei riuscito a mandar giù?
Sicuramente la mia prima vittoria in Coppa a Cortina! Avevo venti anni e correvo a casa mia, c’era tutto il paese venuto in massa a guardarmi e lì è stato come vivere un sogno. Una grande emozione che ho rivisto in questi giorni qui a Cortina con la medaglia della Costantini nel curling, è bello vedere questo fermento e questa condivisione quando qualcuno di noi riesce ad ottenere un risultato di prestigio. Sulle delusioni vale il discorso fatto prima, l’assenza di medaglie olimpiche e la Coppa di specialità che francamente avrei meritato.
Tecniche e modalità di allenamento. Quanto sono cambiati i materiali e il relativo approccio in questi ultimi anni? Hai tuoi tempi avevate una figura che lavorava sul’aspetto mentale?
Io ho gareggiato a cavallo di questa svolta epocale tra i vecchi e i nuovi sci che negli anni duemila ha rivoluzionato completamente la modalità di sciare. Una svolta mondiale con sci più corti, facili e permessivi che di sicuro hanno aumentato le prestazioni degli atleti. Sull’aspetto mentale anche qui mi sono trovato in mezzo ad un vero e proprio ricambio generazionale, si è passati ad una cura quasi maniacale di ogni singolo aspetto sia fisico grazie all’avvento della tecnologia che mentale con raduni e figure specifiche che lavorano sullo stress e sulle tensioni in uno sport in cui i distacchi sono minimi e basta anche un solo piccolo errore per compromettere una gara. A questo aggiungerei anche il discorso nutrizionale perché alimentarsi bene vuol dire anche avere la benzina necessaria per fare andare il motore a pieno regime di giri.
Settori giovanili e ricambio generazionale. Oggi Paris, Innerhofer e Marsaglia sono al termine della loro carriera. Perché si fa fatica a trovare nuovi giovani competitivi nelle discipline veloci?
Credo sia un problema globale non solo legato allo sci alpino, penso che oggi i giovani che vivono perennemente sui social vedano solo l’aspetto ludico e vincente dello sport senza rendersi conto dei sacrifici che ci sono a monte. La propensione mentale alla fatica e le motivazioni per raggiungere un obiettivo non fanno parte del loro dna, noi italiani siamo bravi a lamentarci e poco avvezzi a rimboccarci le maniche e le generazioni attuali hanno perso a mio avviso quella voglia di credere in qualcosa e di sognare in grande. Ci si accontenta di questa agiatezza diffusa che le famiglie avallano e l’attitudine alle rinunce e al sacrificio sono concetti alieni, poi c’è un discorso ciclico legato agli alti e bassi che ogni disciplina porta con sè ed in questo momento sicuramente il circo bianco azzurro è un po’ carente di giovani talenti.
La tua carriera parallela di pilota. Dove hai gareggiato e con quali risultati? Che differenza c’è tra guidare a tutto gas una macchina da corsa o andare a oltre cento all’ora su un paio di sci?
Certamente il mondo dei motori è molto oneroso, poi ci sono tante variabili legate a quanto tempo ti alleni e investi per migliorare. Sono molto soddisfatto, pur non avendo né tanti soli né tanta esperienza, dei risultati ottenuti anche a livello europeo, dove correvano anche piloti ex formula uno, con otto podi è una vittoria al Mugello col budget che avevo a disposizione vanno più che bene. Sia il volante che gli sci hanno una tensione ed un’adrenalina molto simili, serve la massima concentrazione e la capacità di disegnare le traiettorie andando oltre i propri limiti, mentre per la sicurezza credo che sciare sia molto più pericoloso, le macchine lo sono senz’altro meno.
Chiudiamo con una domanda generazionale. Prima o poi usciremo da questa maledetta pandemia, un motivo in più per esortare i nostri giovani a fare sport all’aperto? E a tuo avviso come andrebbero spese le risorse del PNNR per rilanciare gli sport di base del circo bianco?
Sarà fondamentale coinvolgere i giovani e invogliarli a fare sport, convincerli che fa bene sia per la loro salute che per i valori che porta con sè e poi fargli capire che le soddisfazioni che può darti l’agonismo ad alto livello ripaga ampiamente i sacrifici che ci sono dietro. Investire nella cultura sportiva a cominciare dalle scuole, motivarli nella giusta maniera, servono tecnici e personale all’altezza perché i ragazzi di oggi credono che sia tutto facile e raramente sono propensi a rimboccarsi le maniche. Lo vedo anche nella mia scuola sci a Cortina è di sicuro un problema generazionale che va affrontato con risorse adeguate e una programmazione a medio lungo termine, altrimenti si rischia di rimanere indietro e di perdere parecchio terreno.