A tu per tu con Ferdinando “Fefè” De Giorgi, il timoniere dell’ItalVolley Campione d’Europa
Rivivendo il film di questa lunga ed incredibile estate sportiva sono tanti i fotogrammi che scorrono indelebili in un album di ricordi e di gioie uniche ed irripetibili, una magia che è iniziata l’11 luglio Wembley e che continua impetuosa giorno dopo giorno ad alimentarsi di continui e innumerevoli trionfi. Avevamo lasciato il Volley nostrano, dopo le brutte performances di Tokyo, con un retrogusto amaro in bocca, tra le note stonate di una spedizione vincente e memorabile e alle prese con la fine di un ciclo ed un fisiologico rinnovamento che avrebbe richiesto ovviamente i suoi tempi. Discorso valido sia a livello maschile che femminile, pur con dinamiche ed effetti diversi, che dopo l’inevitabile j’accuse mediatico si è dovuto immediatamente ricompattare per i provvidenziali Campionati Europei, occasione ghiotta per cercare il perentorio riscatto. Il volley maschile ha inoltre vissuto un cambio della guardia al timone col passaggio di consegne tra Chicco Blengini, a cui vanno riconosciuti innegabili meriti, e Ferdinando, detto Fefè, De Giorgi che dall’alto della sua esperienza ha preso per mano le redini di una nazionale ad alto potenziale iniziando di fatto una nuova era. Tra la delusione di Tokyo e il trionfo continentale in Polonia, Fefè ha applicato gli opportuni correttivi tra l’addio di Juantorena, l’infortunio di Zaytsev e la non convocazione di Matteo Piano e l’innesto di giovani di sicuro talento quali Giulio Pinali e Yuri Romanò, una mini rivoluzione osmotica che contro ogni previsione ha bruciato le tappe riportando il nostro volley sul gradino più alto d’Europa.
Il sessantenne ex-palleggiatore di Scansano, nonostante la statura non rilevante si affaccia da subito nel mondo della pallavolo: dopo la gavetta giovanile nel suo paese natìo avviene il passaggio nella Pallavolo Falchi Ugento da cui prenderà il via la sua carriera professionistica. Esordisce nella massima serie nel 1983, per poi essere prelevato da Modena come vice di un certo Fabio Vullo. Primo anno nella Panini e subito scudetto, l’unico della sua carriera da giocatore, un’esperienza fondamentale per la sua formazione che lo vedrà da titolare per i tre anni successivi alla Gabeca Volley guadagnandosi la fiducia e la convocazione in nazionale di un certo Julio Velasco. Nonostante la presenza di alzatori di altissimo livello, da Tofoli a Meoni, Fefè entrerà in pianta stabile nelle spedizioni azzurre internazionali, conquistando i tre ori mondiali consecutivi – dal 1990 al 1998 –quattro World League, un oro e un argento europeo con un bottino personale di 330 presenze in azzurro, settimo di tutti i tempi. La sua carriera da atleta proseguirà dal 1990 con due anni a Padova, due a Falconara, tre a Cuneo, due ancora alla Gabeca per poi chiudere di nuovo a Cuneo, nel doppio ruolo di allenatore-giocatore con tanto di conquista della Coppa Italia nel 2002, il suo ultimo biennio agonistico, con all’attivo vent’anni abbondanti di altissimo livello e di successi che oltre al tricolore lo vedranno alzare due Coppe Italia, due Coppe Cev, una Supercoppa Italiana ed una Europea e una Coppa delle Coppe.
Dopo il ritiro, la carriera da allenatore è di fatto già iniziata a Cuneo, dopo il terzo anno in Piemonte sarà ingaggiato dall’Umbria Volley di Perugia con la quale nel 2004-2005 raggiungerà la prima finale scudetto della storia perugina persa contro la corazzata Treviso. L’anno successivo passa ad allenare a Macerata, piazza storica targata Lube Cucine, con la quale in cinque anni riuscirà a conquistare un tricolore, due Supercoppe italiane, due Coppe Italia e una Coppa Cev, aprendo un ciclo irripetibile che lo consacrerà tra i migliori allenatori sul mercato. Dopo una sfortunata annata di nuovo all’Umbria Volley culminata con un esonero a metà stagione decide di emigrare in Russia accordandosi per due stagioni con il Fakel di Novy Urengoj, rientra in Italia per un breve periodo in Lega Due allenando per pochi mesi la Callipo Vivo Valentia per poi spiccare il volo di nuovo all’estero verso la Polonia. Due stagioni allo Zaksa, dal 2015 al 2017, formazione di livello che Fefè riporta sull’Olimpo regalandole due scudetti, che mancavano da tredici anni, e una coppa nazionale, vittorie prestigiose che gli valgono la chiamata di Commissario Tecnico della Nazionale, incarico che durerà solo pochi mesi dopo le cocenti delusioni in World League e all’Europeo. Dopo un’ultima breve parentesi polacca allo Jasterbski Wegiel il nostro approda di nuovo alla Lube a dicembre 2018, pronto a ricominciare da dove aveva interrotto per riscrivere un altro pezzo di storia del volley nostrano. Scudetto, Champions League e Mondiale per Club tutti conquistati in quel magico 2019 a cui faranno seguito altre due Coppe Italia nel 2020 e 2021. Il resto è storia con la chiamata in corsa come C.T. della Nazionale e relativo esordio col botto. Abbiamo avuto l’onore e il piacere di incontrarlo per rivivere questi quarant’anni di prestigiosa militanza di una delle figure più rappresentative e carismatiche di quel meraviglioso universo targato volley.
Ferdinando buongiorno, partiamo da quest’ultima incredibile impresa Europea. Che gruppo hai trovato dopo il flop di Tokyo e su quali aspetti hai lavorato in così poco tempo?
Ho preso le redini di questa nazionale dopo Tokyo ponendomi come obiettivo Parigi 2024 con l’intenzione di creare un fisiologico e progressivo ricambio generazionale che mi ha portato ad allargare il gruppo scegliendo da un lato sette otto atleti che avrei già inserito agli Europei e mantenendo dall’altro i ragazzi più giovani che avevano già disputato le olimpiadi. Abbiamo iniziato un nuovo percorso senza guardarci dietro a leccarci le ferite, e posso dirti che per tutti questi ragazzi l’aspetto motivazionale e l’orgoglio di rappresentare l’Italia in una manifestazione così importante è stata la molla che, unita alla voglia di riscatto dei delusi di Tokyo, ha fatto scattare quella scintilla che si è concretizzata in questa bellissima vittoria.
Le prospettive dopo questa vittoria? Grandi aspettative e grandi responsabilità? Un ringraziamento a Chicco Blengini e a tutto lo staff che ti ha preceduto credo sia doveroso…
Innanzitutto la gestione di questa vittoria va canalizzata nel modo corretto perché non cambia assolutamente in nulla il nostro planning di lavoro. Non siamo i più forti del mondo, ma dobbiamo usare questo entusiasmo per lavorare, migliorare e arrivare ai mondiali dell’anno prossimo ancora più consapevoli dei nostri mezzi, perché a mio avviso abbiamo del grande potenziale per progredire. E’ chiaro che quando si ottengono dei risultati del genere il merito va condiviso con tutte quelle figure che hanno creato delle fondamenta solide e da questo punto di vista i tecnici italiani sono molto, molto bravi. Non posso che ringraziare chi mi ha preceduto per avermi fornito dell’ottimo materiale sia umano che professionale.
Torniamo un po’ indietro nel tempo. Gli esordi nella tua Puglia, ricordi e sensazioni? Credevi di poter arrivare pur non essendo un gigante?
Ricordo quegli anni come le basi formative del mio essere persona e atleta, sicuramente l’altezza non eccessiva è stato uno stimolo in più per lavorare su alcuni aspetti che ho sviluppato per essere competitivo. Sia Squinzano che Ugento, dove ho militato per cinque anni, sono state tappe cruciali che mi hanno permesso di raggiungere nel 1986 Modena, allenata in quegli anni da Julio Velasco, e da lì è iniziata la mia carriera ad alto livello. Senza il lavoro di quegli anni giovanili di sicuro non avrei avuto quella consapevolezza e quella voglia di arrivare che mi hanno permesso di rimanere al top per così lungo tempo.
A proposito di Velasco, tu fai parte di quella generazione di fenomeni che ha infiammato il nostro volley tra fine anni ottanta e inizio novanta. Che cosa avevate in più rispetto agli altri?
Credo che quel gruppo avesse tanta qualità, di sicuro qualche fuoriclasse ed un allenatore arrivato al momento giusto con le idee corrette per valorizzare il collettivo. Fenomeni a parte posso dire che c’è stato tanto lavoro dietro, una grande capacità di focalizzare gli obiettivi e di mettersi in gioco per provare a competere per primeggiare. Vincere e ripetersi non è facile e in questo Julio ha lavorato tanto sull’aspetto mentale, senza il lavoro in palestra, il giusto atteggiamento e la necessaria autostima non si ottengono grandi risultati e come ti ho detto prima non credo tanto ai fenomeni in quanto tali, un termine più giornalistico che reale.
Il volley di oggi per te che ci sei dentro da quarant’anni. In quali aspetti è cambiato? Il nostro movimento è sempre rimasto competitivo nel tempo ad altissimi livelli, perché?
Il volley è cambiato abbastanza in questi ultimi anni, di sicuro la principale variante è stata l’abolizione del cambio palla che ha dato al gioco una maggiore rapidità e un’incidenza più alta all’errore. Quello di oggi è un volley più potente, più fisico e legato al grande atletismo dei suoi interpreti, l’Italia ha il campionato, la Superlega, più bello grazie anche agli sponsor che attirano i migliori atleti a giocare da noi. A questo aggiungiamo l’aspetto formativo che va avanti grazie alla qualità di tecnici preparati a gestire gli atleti sin dalle fasi giovanili, questo ci permette un ricambio continuo e una competitività che negli anni si è dimostrata nei fatti, risultati alla mano.
Allenare e giocare. Stimoli e sensazioni diverse? Differenze tra allenare un club o una nazionale?
Sono concezioni completamente diverse, quando giochi sei talmente focalizzato su te stesso e sull’apporto da dare alla squadra, hai al servizio tutta una serie di strumenti che ti permettono di concentrarti per migliorare e raggiungere i tuoi obiettivi. Quando alleni sei che tu che devi organizzare il gruppo e programmare il lavoro, hai una visione più ampia e a trecentosessanta gradi di tutta una serie di aspetti dei quali senti la responsabilità. Sono entrambe affascinanti e il fatto di aver giocato è sicuro un aiuto in più che mi permette di leggere meglio certe situazioni, poi il discorso si fa ancora più complesso quando alleni una nazionale avendo a disposizione gli atleti solo in alcuni periodi dell’anno. E’ importante avere uno scambio continuo con i club e i relativi tecnici, è di importanza fondamentale nella pianificazione e ottimizzazione del lavoro.
Una gioia che ti porti nel cuore e una grande delusione che non riesci a mandare giù?
Il nostro è un mestiere in cui devi essere pronto alle delusioni e alle ingratitudini, tu dai il massimo e dai il meglio ma non aspettarti nulla in cambio sia in caso di vittoria che di sconfitta. Ho avuto di sicuro tantissime soddisfazioni, ma anche diverse delusioni che mi hanno forgiato ed aiutato ad essere più concreto, le sconfitte in questo senso stimolano a migliorarsi e a dare il meglio di sé. Difficile fare degli elenchi numerici, quello che per me ha sempre contato è stato fare quello in cui che credevo prendendomi nel bene e nel male la responsabilità delle mie azioni.
Torniamo all’attualità. L’importanza dell’aumento della capienza nei palazzetti quanto è importante per il movimento e per i bilanci delle società?
Credo sia fondamentale il ritorno alla normalità tenendo sempre conto delle giuste regole nel rispetto della salute pubblica. Abbiamo bisogno dei tifosi sia per l’aspetto emotivo che solo un palazzetto pieno riesce a darti che per quello economico perchè la biglietteria svolge un ruolo fondamentale nel tenere a galla i conti di molte società. Credo che ci siano ormai i presupposti per tornare ad una capienza totale grazie al green pass che tutela di fatto la nostra sicurezza perché giocare senza pubblico è come ballare senza musica, e dovrà rimanere un ricordo che pian pianino sbiadirà nel tempo.
La Superlega è piena di stranieri di altissimo livello, ma non ha mai inficiato in alcun modo la nostra alta competitività. Non è sempre e solo colpa della Bosman spesso usata come un alibi?
A mio avviso il livello della Superlega va mantenuto così com’è con l’altissima qualità degli stranieri che è senz’altro un valore aggiunto e un gran biglietto da visita. Discorso diverso per le leghe minori, in Serie A2 ci son solo due stranieri ed è una soluzione equilibrata che tutela i minutaggi dei nostri atleti. Poi il discorso della meritocrazia è assolutamente condivisibile, chi ha talento e riesce a dimostrarlo creandosi i suoi spazi avrà sempre un posto in campo per giocarsi le sue carte. L’importante è creare le opportunità ai nostri giovani ed in questo credo fermamente che l’Italia vada nella direzione giusta.
Siamo in una fase storica importante ed economicamente decisiva. Come destineresti le risorse del PNRR nel mondo dello sport? Chi ha pagato il prezzo più alto di questa pandemia?
Inizierei di sicuro dal discorso delle strutture che andrebbero implementate in maniera capillare, perché i nostri politici forse non hanno ben presente la forza straordinaria che lo sport po’ avere sui giovani, dalla trasmissione dei valori alla condivisione sociale. Lo sport emoziona e coinvolge e la nostra nazionale è l’esempio concreto di questa grande forza veicolare, a questo uniamo anche il concetto di tutela salute che il fare attività fisica ha nel suo Dna. Questi elementi sono più che sufficienti a far riflettere chi deve prendere delle decisioni su come spendere le risorse che arriveranno in questi anni. Partire dal movimento di base e supportare le società sportive su tutto il territorio nazionale, i nostri ragazzi devono riprendere a fare sport e lasciarsi alle spalle gli strascichi di questa maledetta pandemia.