A tu per tu con Charlie Recalcati, la leggenda del basket italiano
La riapertura parziale al pubblico degli eventi sportivi, che procede di pari passo con l’avanzamento incessante delle campagne vaccinali, è un segnale importante per il mondo dello sport che riprende pian pianino inesorabilmente la sua normalità. I tifosi stanno riprendendo il loro posto a sedere nei vari stadi e palazzetti dopo mesi di tristissimi spalti vuoti pronti a testimoniare con la loro presenza una parvenza di ritrovata partecipazione sotto il segno del contingentamento e della sicurezza. Conclusa la fase decisiva per la corsa a titolo col meritatissimo scudetto della Virtus Bologna il Basket si prepara al rush finale di questa anomala stagione con gli azzurri di coach Meo Sacchetti alle prese con un quasi impossibile torneo pre-olimpico a Belgrado per giocarsi un pass che manca purtroppo dal lontano 2004 di Atene. Un’olimpiade storica, quella greca, di cui tutti gli appassionati della palla a cesto hanno un ricordo vivo e indelebile con tanto di medaglia d’argento attaccata al collo, un’impresa titanica di un collettivo solido al cui timone sedeva un certo Sig. Charlie Recalcati. Uno splendido signore di settantacinque anni che ha rappresentato sia in veste di giocatore che di allenatore uno dei massimi esempi di leadership e professionalità in oltre cinquant’anni di carriera vissuti in lungo e in largo nello stivale. Esordisce da allievo, ma a quindici anni viene assunto da RadioMarelli e interrompe la trafila giovanile, Corsolini e Taurisano riescono a portarselo a Cantù dove riuscirà a diplomarsi da ragioniere continuando a giocare a basket.
L’esordio in prima squadra non tarderà e dal 1962 al 1979 con le sue quattrocentotrentaquattro presenze sarà, insieme all’ingegner Pierluigi Marzorati, una delle bandiere viventi della gloriosa formazione brianzola con la quale vincerà tre scudetti, tre Coppe Korac, tre Coppe delle Coppe e una Coppa Intercontinentale. In azzurro raggiungerà centosessantasei presenze e due bronzi europei nel 1971 e 1975 partecipando anche ai mondiali in Jugoslavia del 1970. Chiuderà la sua brillante carriera in serie B1 a Parma, due stagioni da allenatore in campo per poi appendere le scarpette al chiodo nel 1981, con le idee molto chiare sul suo futuro. Dall’anno successivo Recalcati è già in sella sulla panchina di Bergamo, tre stagioni trionfali culminate con due promozioni dalla B1 alla massima serie, un grande biglietto da visita per un giovane allenatore che ha nell’esperienza di atleta e nella gestione del gruppo i valori fondanti del suo credo cestistico. Il salto di qualità non può che avvenire nella sua Cantù sei stagioni ad alto livello, 1984 – 1990, a cui è mancato solo l’acuto tra semifinali scudetto e una finale di Coppa Korac persa nel 1989 contro la corazzata Partizan Belgrado targata Djordevic, Danilovic e Divac, e un bagaglio di esperienza fondamentale per tentare nuove sfide, la prima delle quali avrà il nome della Viola Reggio Calabria. La società reggina è in ascesa grazie all’arrivo dell’imprenditore Mimmo Barbaro che con quel pizzico di sana follia convincerà Charlie ad accettare l’incarico di capo allenatore, cinque anni incredibili in questa Viola dei miracoli con una semifinale play-off mancata per un soffio e ricordi indelebili per Charlie, vera e propria icona dello stretto.
Il nostro, che lascerà un pezzo del suo cuore a Reggio, dopo tante annata di qualità è pronto ormai a raccogliere i frutti di quindici anni di onorata panchina e, dopo due annate interlocutorie tra Arese e il ritorno a Bergamo, Varese non tarda a farsi avanti. Siamo nel 1997 e la storica Ignis è a secco da quasi vent’anni e alla ricerca dello scudetto della stella, pane per i denti di un Recalcati che troverà dei bad boys assetati di vittoria e al culmine della loro maturità agonistica. La favola si avvererà nel 1999, la sua terza ed ultima stagione si chiuderà in gloria con la conquista del suo primo storico scudetto, i quattro moschettieri Pozzecco, De Pol, Galanda e Meneghin, affiancati dal solido duo Mrsic e Santiago e dall’esperienza del sempreverde Vescovi e di Zanus Fortes scriveranno una delle pagine indelebili del basket nostrano, ma per Charlie è già ora di cambiare, la Fortitudo Bologna lo cerca e lo ingaggia lo volo per provare finalmente a vincere. Secondo scudetto consecutivo nel 2000 dopo una stagione trionfale e a senso unico, Myers, Fucka e Basile, capitan Pilutti e il transitato Jack Galanda si sbarazzano di Treviso in finale consacrando Charlie tra i grandi vincenti del suo tempo. Un’altra stagione a Bologna con una finale scudetto persa contro i cugini della Virtus e nel 2001 arriva la chiamata per allenare la nazionale, si apre un nuovo capitolo di successi ed imprese storiche che durerà otto stagioni, tra Europei, Olimpiadi e Giochi del Mediterraneo. Il gruppo a disposizione è folto e talentuoso, Charlie ci metterà del suo dando un’anima e un’unità di squadra che si trasformerà nel valore aggiunto in grado di esaltarne le peculiarità. Il primo test è l’Europeo svedese del 2003, concluso con una splendida medaglia di bronzo, dopo una serie di partite tiratissime, e la qualificazione diretta ad Atene 2004 in cui emergerà palesemente il suo grande lavoro svolto sul collettivo viste le assenze di pedine chiave come Myers, Fucka e Meneghin. Nel frattempo il suo contratto in azzurro viene trasformato in part-time dal 2003, Recalcati si siede sulla panchina della Montepaschi Siena e regala nel 2004 alla Mens Sana il primo dei sei scudetti che apriranno l’inarrestabile ciclo di successi del decennio successivo, ma dopo il terzo scudetto su tre panchine diverse è tempo di Olimpiadi alle quali arriviamo pronti a dire la nostra. Dopo la fase a gironi chiusa al secondo posto l’Italia si sbarazza di PortoRico ai quarti, ma in semifinale ad aspettarci c’è l’imbattuta corazzata Lituania contro la quale la strada sembra di fatto sbarrata. Una partita incredibile in cui gli azzurri riuscirono ad esaltarsi compiendo l’impresa della vita, un incredibile 100-91 che ci apre le porte ad una sicura medaglia e ad una finale tutta da vivere contro l’Argentina, di un certo Emanuel Ginobili, che nell’altra semifinale ha sconfitto le stelle di sua maestà U.S.A. Le tossine si faranno sentire e l’oro sfumerà, ma l’argento ottenuto con un gruppo solido e disposto al sacrificio, che sotto la sapiente guida di un motivatore gentiluomo è riuscito ad andare oltre i propri limiti, profuma di irripetibile leggenda.
Dopo questo quinquennio strepitoso, con tanto di conferimento dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana, Charlie rimarrà a Siena fino al 2006 e in azzurro fino al 2009, chiudendo il suo rapporto dopo la mancata qualificazione a Pechino 2008 che segnerà l’inizio di un’epoca buia dalla quale il nostro basket non è riuscito ancora a riprendersi, ma la voglia di allenare scorre ancora nelle vene e Varese dopo oltre dieci anni lo ingaggia per un biennio in cui non riuscirà ad andare oltre i quarti di finale scudetto. Una parentesi infausta a Montegranaro culminata con la retrocessione e il successivo fallimento nel 2014 chiude questo ulteriore biennio, l’ennesima sfida però è alle porte e Charlie non si lascerà sfuggire l’offerta di Venezia che sogna in grande, due anni di contratto con una semifinale scudetto e un esonero l’anno successivo. Il suo vice Walter De Raffaele raccoglierà il suo testimone portando la Reyer ai massimi livelli grazie anche all’apprendistato svolto cementando un gruppo di buoni giocatori che di lì a poco si trasformeranno in un team vincente. A settant’anni compiuti e oltre cinquant’anni di vita vissuta sul campo Charlie chiuderà la sua epopea lasciando come eredità il suo esempio, la sua caparbietà, il suo talento e i suoi valori, quelli di un uomo di sport che ha dedicato la sua vita al basket rendendolo oggettivamente uno sport migliore e Il Coni non tarderà a conferirgli nel 2019 la Palma d’Oro al Merito Tecnico per tutto il lavoro svolto e i risultati ottenuti nella sua enorme carriera di allenatore. Abbiamo avuto il piacere e l’onore di contattarlo per rivivere le pagine più belle della sua vita agonistica, e per discutere l’attuale complesso momento del mondo dello sport condizionato fortemente dall’attuale emergenza pandemica.
Charlie buongiorno. Partiamo dall’attuale difficile momento che stiamo vivendo. Un anno di stop forzato per tutto il movimento di base, mentre il professionismo è riuscito ad andare avanti in sicurezza. Danni a breve-medio termine?
Di sicuro ci portiamo dietro un anno e più di formazione saltata per i nostri giovani, ma non è solo il discorso tecnico a preoccupare. L’aspetto sociale è altrettanto rilevante perché a parte il discorso fisico è mancata la condivisione della passione di fare sport e di avere una frequentazione sistematica con i propri coetanei indipendentemente dalle qualità di ognuno. Bisogna ripartire subito approfittando di questa ripresa estiva, non c’è tempo da perdere e se i dati si confermeranno così confortanti c’è tutto il tempo per riprendere a fare attività motoria aspettando settembre per ripartire definitivamente.
Quest’estate sarà ovviamente incentrata sulle Olimpiadi di Tokyo, segnale importante di ripresa che vedrà coinvolto tutto il mondo dello sport. E’ importante che ci siano i giochi prescindendo dal fattore pubblico?
Assolutamente sì, le Olimpiadi sono la massima espressione sportiva a livello mondiale che coinvolge tutte le discipline, permetterà a tantissimi atleti meno conosciuti di esprimersi approfittando di questa fantastica vetrina, coinvolgerà tutti gli appassionati a seguire le gare in tv facendogli riscoprire sport diversi. Mai come in questo momento le Olimpiadi di Tokyo daranno un segnale importante di ripresa e voglia di ripartire, saranno di sicuro diverse da tutte le altre per le necessarie limitazioni, ma l’importante è che si facciano e che gli atleti possano gareggiare in totale sicurezza e vaccinati.
Torniamo indietro nel tempo, alla tua fase giovanile all’inizio degli anni sessanta. Che ricordi hai di quell’epoca? Pensavi di arrivare così in alto?
I miei esordi? Molto casuali direi, in quegli anni non esistevano nemmeno i corsi di mini-basket e si andava tutti all’oratorio a giocare a calcio. La mia fortuna è stata che a Milano nel mio quartiere di Via Paolo Sarpi, l’attuale quartiere cinese, è stato installato da un centro giovanile un campo di basket e da lì è iniziato tutto. La fortuna ha voluto che a dirigere questo centro ci fosse un certo Arnaldo Taurisano, ma all’epoca il pensiero era solo rivolto a completare gli studi e a cercarsi un lavoro per dare una mano in famiglia. La domenica andavamo a vedere l’Olimpia al palazzetto e si iniziava a sognare e a fantasticare, mi ispiravo a Sandro Riminucci che all’epoca era il mio idolo, ma non avrei mai pensato un giorno di arrivare in serie A. Grazie ad una selezione lombarda di giovani arriva Gianni Corsolini che all’epoca allenava Cantù ed insieme a Taurisano mi selezionano dandomi questa possibilità, mi trasferisco in Brianza contro il parere della mia famiglia molto scettica al riguardo e da lì il basket diventa la mia vita, diciassette anni indimenticabili, tantissime gioie e ricordi indelebili.
Diciassette anni e Cantù con tanti successi, poi chiudi a Parma la tua carriera in serie B facendo di fatto l’allenatore in campo. Un destino già segnato?
Sono arrivato a Parma negli ultimi due anni e l’allenatore in carica diede le dimissioni due settimane prima che iniziasse la preparazione, il direttore sportivo che era mio amico mi chiese se volevo allenare giocando. Fu una gran fortuna perché io mi stavo già preparando a fare l’assicuratore chiudendo di fatto col basket ed invece ho scoperto inconsapevolmente questa vocazione che mi ha spinto a provare da subito a tentare la carriera di coach. Avrei ancora continuato a giocare perché mi divertivo anche in serie B, ma dopo Parma il mio destino si sviluppò diversamente e nel 1981 ero già capo allenatore a Bergamo, da li in poi non mi sono più fermato.
Da giocatore sei stato una bandiera a Cantù, mentre da allenatore hai girato in lungo e in largo lo stivale accettando sempre nuove sfide, senza mai tirarti indietro.
Non ho mai cercato nelle scelte che ho fatto la garanzia o la sicurezza a tutti i costi, ho abbracciato di volta in volta il singolo progetto credendoci dall’inizio, a me piaceva allenare indipendentemente dalla categoria e dalla probabilità di vittoria. Dopo lo scudetto di Varese per esempio avevo già deciso di lasciare di comune accordo con la società per accasarmi a Malaga che all’epoca era un team ambizioso ed emergente, ma all’ultimo ho accettato di andare a Bologna, sponda Fortitudo, perché era una società solida e a caccia di un successo importante che non si era mai concretizzato, anche lì ho accettato la sfida e nel 2000 ci siamo regalati un incredibile scudetto. I giusti stimoli e le motivazioni mi hanno sempre spinto ad accettare la panchina sulla quale sedermi, credo che questa coerenza mi abbia sempre ripagato nel tempo altrimenti non sarei durato così tanto.
Nel 2001 arrivi in Nazionale, otto anni intensi e ricchi di risultati. Che gruppo hai trovato e in che modo sei riuscito a plasmarlo?
Quando sono arrivato nel 2001 ho trovato un gruppo ben attrezzato ricco di atleti che avevo già allenato nei club, un’eredità importante lasciatemi da Tanjevic che ho dovuto riamalgamare dopo l’uscita di Myers, Fucka e Meneghin che, per motivi diversi, hanno lasciato la nazionale. Ho dovuto giocoforza rinnovare girando in lungo e in largo lo stivale per innestare forze fresche, ho trovato Soragna, Basile e Galanda come sostituti e loro si son fatti trovare pronti prendendosi da subito le responsabilità da titolari, è stato un processo graduale di maturazione che ci ha permesso di arrivare pronti per le Olimpiadi di Atene dopo un ottimo europeo in Svezia, che di sicuro ci ha dato coraggio e fiducia nei nostri mezzi.
L’argento di Atene è di sicuro l’apice della tua carriera. Un risultato incredibile contro ogni pronostico, pensavi di poter arrivare a medaglia giocandotela alla pari contro le squadre più forti del mondo?
Come ti dicevo l’Europeo precedente ci ha dato una grande iniezione di fiducia, lì il gruppo si è cementato con un mix di talento e di immenso spirito di squadra. Siamo andati ad Atene con la consapevolezza di essere competitivi, nel girone siamo riusciti a battere l’Argentina di un punto garantendoci degli accoppiamenti migliori che ci hanno permesso di arrivare in semifinale, poi con la Lituania abbiamo trovato la giornata di grazia in cui ogni singolo elemento si è esaltato oltre i propri limiti. Credo che la somma di tutti questi fattori, uniti ad un grande entusiasmo e ad una piena maturità di chi era in campo ci abbiano regalato questa immensa, incredibile gioia.
Torniamo alla tua carriera nei club. Tre scudetti in tre club diversi in cinque anni, impresa riuscita a pochissimi allenatori. Che sapori hanno? Differenze sostanziali tra di loro?
Tre squadre con caratteristiche tecniche completamente diverse, il primo con Varese l’ho etichettato come lo scudetto della fantasia fortemente voluto da una società che ha assemblato a meraviglia i grandi solisti, Pozzecco e Meneghin su tutti, costruendogli intorno un pacchetto solido di ottimi giocatori che in un triennio sono riuscito a portare al massimo rendimento. Quello di Bologna è lo scudetto della legittimazione perché il team era fortissimo, il migliore che abbia mai avuto, ma veniva da diverse finali play-off perse e non riusciva ad esprimere il suo potenziale nel momento decisivo. Ho lavorato sull’aspetto mentale supportandoli nel gestire le difficoltà che quando lotti per il titolo inevitabilmente devi affrontare e sono orgoglioso di aver accettato e vinto questa sfida regalando alla Fortitudo il suo primo storico tricolore. Discorso ancora diverso con Siena dove sono arrivato al momento giusto perché la società aveva programmato alla perfezione la sua ascesa, io mi sono inserito in questo progetto mentre allenavo contemporaneamente la Nazionale avendo uno staff a disposizione di primissimo livello, come aiuto avevo un certo Simone Pianigiani è questo la dice lunga sulle ambizioni che Siena aveva in quel periodo. Tre vittorie diverse, ognuna ha un suo sapore e una sua gratificazione che porto dentro di me nell’album dei miei ricordi.
Il basket di oggi, lo segui con interesse o con distacco? Vedere in Italia cinque stranieri in uno starting five è giusto secondo te?
Non particolarmente, non seguo spasmodicamente la pallacanestro moderna e francamente non mi manca tanto, seguo con più interesse l’Eurolega che è la massima espressione a livello di gioco che oggi si possa vedere al mondo, mi piace meno l’NBA anche se ha più talento perché l’organizzazione di gioco, viste le tante partite, lascia più spazio al singolo e meno al collettivo. In merito al nostro campionato è ovvio che le regole sono cambiate e non è in alcun modo ipotizzabile avere per legge degli italiani a referto, in una relazione che ho inviato alla Federazione avevo proposto di sostituire la parola obbligo con incentivo, permettendo così ai club più virtuosi in tutti i campionati di ogni ordine e grado di essere remunerati stanziando le adeguate le risorse. Bisogna puntare sulla formazione italiana e non sul passaporto italiano anche in chiave azzurra, è un discorso complesso che in questa fase di sicuro non ci sta dando dei grandi risultati, dobbiamo rimboccarci le maniche e lavorare sul reclutamento partendo dal movimento di base, alternative non ce ne sono.
Il tuo bilancio dopo oltre cinquant’anni di vita vissuta nel basket. Attivo, passivo o pareggio?
Di sicuro ho avuto tanto da questo sport, son partito così per caso e sono andato al di là di quello che avrei mai potuto immaginare avendo l’opportunità di vivere tante bellissime esperienze sia umane che professionali. Cosa posso aver dato non lo so e non sta a me giudicarmi, ho cercato di fare il mio lavoro col massimo impegno e la massima trasparenza e sono contento di quello che ho fatto cercando nel mio piccolo di trasmettere i valori in cui credevo che mi sono stati trasmessi dalle figure di riferimento che ho avuto nella fase giovanile, Arnaldo Taurisano e Gianni Corsolini che non smetterò mai di ringraziare.
Chiudiamo con un messaggio positivo legato ad una futura e speriamo imminente ripartenza. L’importanza per i giovani di ritornare a fare sport utilizzando anche le tante risorse che avremo a breve a disposizione?
Spero fortemente che in questa fase ci sia la consapevolezza, una volta messa la pandemia alle spalle, dell’importanza del fare attività motoria a qualunque livello. La vera sfida da affrontare riguarda l’impiantistica sportiva che va assolutamente implementata in tutti i settori per colmare delle carenze strutturali che ci portiamo dietro da anni. Avere più palestre e centri di allenamento a disposizione è l’unico modo per permettere a molto giovani di poter praticare lo sport che già vive un momento di flessione legato in parte all’estensione dell’orario scolastico, col rischio di accavallamento tardivo degli orari di allenamento. Se non ci dotiamo di maggiori strutture rischiamo di perdere una bella platea di ragazzi che rischiano di essere tagliati fuori, le risorse se arriveranno devono essere dirottate in questa direzione.