Tributo a Francesco Rocca, il Kawasaki giallorosso
Per ricordarsi di Francesco Rocca, escludendo gli appassionati incalliti e gli addetti ai lavori, bisogna avere qualche capello bianco. Si, perché “Kawasaki” (questo il soprannome che si conquistò sul campo per le doti di velocità che seppe esprimere negli anni in cui si impose all’attenzione del pubblico) compie oggi sessantotto anni.
Il suo racconto calcistico comincia a prendere forma nel 1970 quando entra nelle giovanili della Roma, che lo strappa sul filo di lana alle allettanti lusinghe della Juventus. Nella Primavera lo cresce Giorgio Bravi, all’epoca tra i migliori allenatori dei vivai italiani. E’ veloce Francesco, corre su e giù per la fascia (destra o sinistra poco importa: è un destro naturale che si trova meglio sulla corsia mancina), è serio. Lo nota Helenio Herrera, arrivato sulle rive del Tevere dopo i successi conquistati con l’Inter negli anni Sessanta, e se ne invaghisce, arrivando a parlare di lui come del giocatore più rivoluzionario che sia nato in Italia. Sul finire del campionato, il 25 aprile 1973, il Mago lo fa esordire a San Siro contro il Milan, impegnato nella lotta scudetto che per i rossoneri avrà l’amaro epilogo consumatosi nella “fatal” Verona. L’anno successivo è quello della svolta: la Roma parte male e dopo sole sette giornate esonera Manlio Scopigno. Sulla panchina della squadra capitolina va a sedersi Nils Liedholm, che prende Rocca per mano trasformandolo in un giocatore vero.
Due i punti su cui lavorare: il potenziamento muscolare e la tecnica. Negli allenamenti settimanali Rocca conosce il lavoro coi pesi, i palleggi senza fine, i cross e i tiri in porta a ripetizione. Il Barone gli assegna definitivamente anche il ruolo di terzino di spinta, a lui che fino a quel momento pensava di essere un mediano. Rocca è una delle rivelazioni della stagione e, nel processo di rinnovamento della nazionale reduce dallo sciagurato mondiale del 1974, diventa uno dei punti fermi degli azzurri. In due anni colleziona diciotto presenze. L’ultima, quella del 16 ottobre 1976 in Lussemburgo, la gioca in condizioni precarie: in settimana non si è potuto allenare per una brutta botta presa nell’ultima giornata di campionato disputata dalla Roma a Cesena. I medici, però, dicono che non c’è nulla di grave e, stringendo un po’ i denti, non ci sono controindicazioni a giocare. Rocca è generoso, ama la nazionale e non si fa pregare. Il dolore, però, c’è e ne condiziona in negativo una prestazione molto criticata. Tornato a Roma, riprende ad allenarsi e il ginocchio fa crack: è la prima stazione di un calvario che dura cinque anni nei quali si alternano speranze e delusioni, aspettative e frustrazione, fiducia e sconforto. Sono cinque gli interventi a cui Rocca sottopone il ginocchio nel tentativo, alfine vano, di poter tornare in piena efficienza. Francesco alza definitivamente le braccia in un’amichevole precampionato della stagione 1981-82 che la sua Roma gioca contro l’International di Porto Alegre, compagine di provenienza del divo Falcao, arrivato nella capitale a miracol mostrare. Braccia levate al cielo a mò di resa e di saluto a un pubblico che non ha mai smesso di cullare quella speranza che era sua. Dopo i mondiali d’Argentina, nei quali sarebbe stato molto probabilmente un titolare vista la stima che aveva Bearzot nei suoi confronti, perde i più alti successi delle squadre a cui ha legato la sua breve esperienza sul campo: il mondiale di Spagna e lo storico scudetto del 1983.
La collaborazione cominciata con la Roma dopo il ritiro (il 15 maggio c’è anche lui sotto la Curva Sud a festeggiare la vittoria del campionato con i tifosi) si interrompe: è un altro momento difficile (“Non mi sono mai sentito perduto, ma quella volta sì. Fu terribile” confesserà qualche anno più tardi in un’intervista) dal quale riesce a uscire grazie alla Federcalcio, che dapprima gli assegna la panchina della nazionale olimpica nel 1988 e successivamente gli fa guidare tutte le rappresentative Under dai quindici ai vent’anni. Non è un caso: Rocca, infatti, è il tecnico ideale per forgiare abitudini e carattere di giovani da preparare al grande salto nel mondo dei professionisti. Indomito, amante del rigore che impone la disciplina, appassionato dell’allenamento, ai suoi ragazzi ha sempre richiesto abnegazione e sacrificio quali strumenti indispensabili per riuscire a trovare una via nel difficile ambiente del calcio. Una panchina coi “grandi”, probabilmente, non si abbinava al meglio alla sua trasparenza, alle sue richieste intransigenti, alla sua passione rimasta intatta dopo tanti anni.
Rocca è quel vice che, ai tempi in cui allenava l’Italia, Dino Zoff cercava di placare quando si alzava dalla panchina, emotivamente troppo preso dalle vicende della partita. Un uomo pulito, che nel corso degli anni ha cercato di essere il miglior esempio per ragazzi che desideravano una carriera più fortunata della sua. Nessun compromesso, al punto da auspicare squadre di calcio “senza dirigenti con la pancia”. Niente contro le persone sovrappeso, ovviamente. Solo l’imprescindibile necessità di essere d’esempio: uno stimolo, una vocazione, un’esigenza di nitidezza che si sono tradotte nell’esercizio di ruoli sempre lontani dai quei riflettori che aumentano la luce per nascondere le ombre che Francesco Rocca non ha mai avuto. Per questo, oggi, è giusto fargli i migliori auguri.