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Tommaso Maestrelli, l’allenatore che parlava agli uomini

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Tommaso Maestrelli, l’allenatore che parlava agli uomini

Il 7 ottobre 1922 nasceva a Pisa Tommaso Maestrelli, l’allenatore il cui valore andava ben oltre il rettangolo di gioco. Il nostro tributo al Maestro.

“Si può scoprire di più su una persona in un’ora di gioco che in un anno di conversazione” scrisse Platone. Ed è quello che pensarono i calciatori della Lazio quando all’alba degli anni Settanta incontrarono un uomo che non avrebbero più dimenticato: Tommaso Maestrelli.

Pisano di nascita (7 ottobre 1922) e barese d’adozione (in Puglia giocò a lungo e vi conobbe la moglie Lina), l’allenatore del primo scudetto biancoceleste è un simbolo dello sport italiano per la sua straordinaria umanità. «Un personaggio squisito, con il quale si poteva dialogare. Già la prima sera a cena mi mise a proprio agio, non era mai successo che un allenatore ascoltasse le mie ragioni» raccontò al telefono nel dicembre 2011 Renzo Garlaschelli, eterna anima burlona di quella Lazio difesa dalle mani di Felice Pulici. «“Tom” portava su di sé le problematiche della persona che chiedeva la sua protezione, il suo aiuto, la sua disponibilità. Per noi non era un punto di riferimento come squadra, ma come referente dei nostri problemi» ebbe a dire dal vivo, sempre otto anni fa, il portiere brianzolo, scomparso il 16 dicembre 2018. «Aveva capito singolarmente le nostre personalità: per alcuni si prestava in modo totale, per altri meno perché non c’era questa necessità». Emblematico in tal senso il legame con Chinaglia. «Se con me bastava uno sguardo per capire cosa volesse e cosa gli stavo dando, con Giorgio era diverso: lo invitava a mangiare a casa, lo ospitava a dormire, lo svegliava la mattina della partita, aveva un atteggiamento totale di presenza e protezione».

Eppure tanta premura a senso unico non scatenò gelosie o rancori. La capacità di relazionarsi in base alle necessità dell’interlocutore permise a Maestrelli di conquistare la stima e la fiducia di tutto il gruppo. «Rispettava tutti e rendeva tutti utili, anche quelli che non giocavano. Anzi, forse addirittura li teneva più in considerazione, perché sapeva che potevano essere la carta vincente nel momento del bisogno» fu la testimonianza, raccolta nello stesso periodo delle precedenti a Roma, su una tribunetta scoperta degli impianti sportivi di via del Baiardo, di Franco Nanni, anche lui pisano d’origine e maratoneta con Re Cecconi di una Lazio figlia del suo tempo – gli “anni di piombo” – e attraversata da inquietudine e ribellione. Nei ritiri si giocava con le pistole e la partita vera era il venerdì pomeriggio sul campo d’allenamento di Tor di Quinto, davanti a più di mille spettatori, tra le due fazioni della squadra che rischiavano l’incolumità nel nome di una supremazia interna figlia di una rivalità scaturita dal caso. «Ci cambiavamo in due spogliatoi differenti, perché erano piccoli e non entravamo tutti in uno solo. Così nacquero i due gruppi che si sfidavano nelle partitine a fine allenamento» rivelò Pulici, che indossava i guanti soltanto d’inverno.

Alla domenica, come per magia, ognuno si sacrificava per l’altro. Anche se in settimana aveva detto che doveva star fuori. Ogni tanto Chinaglia sbottava che Martini e Re Cecconi non dovessero giocare, Maestrelli l’assecondava – “Hai ragione, Giorgio. Domenica li tengo fuori” – e poi li schierava. Infuriato col mondo, “Long John” traduceva la rabbia in gol dopodiché correva ad abbracciare il suo allenatore. Al pari dei compagni, conquistati dalla sua bontà. «Con lui ascoltavi qualsiasi suggerimento, ordine o rimprovero, perché te lo diceva in un modo educato che te lo faceva capire e te lo faceva accettare» precisò Nanni. Intensità comunicativa. Come in Lazio-Verona, 14 aprile 1974, 1-2 all’intervallo. Pulici con la fascia per un giorno brontolava – “Io il capitano non lo faccio più” – il nervosismo che saliva come l’alta marea finché, appena entrati nello spogliatoio, Maestrelli esclamò: “Fuori tutti!”. Di nuovo in campo, a sbollire le tensioni aspettando l’avversario. Finì 4-2, tre gol in meno di trenta minuti come affresco per la forza di una squadra votata all’attacco, che giocava un calcio straordinario.

«Certe volte bastava mezz’ora e la partita era già vinta» rammentò Garlaschelli, numero sette di quella Lazio nata per caso e per necessità, che proprio la riflessività di Maestrelli rese inarrestabile. «Io giocavo ala tattica, spalle alla porta, marcato da un difensore e sempre fuori dal gioco. Martini invece mediano, ma finiva sempre addosso a Re Cecconispiegò Nanni, raggiunto dopo 10 km a piedi – Amichevole con la Sampdoria, c’erano vari indisponibili, mi spostò mediano, arretrò Martini a sinistra e inserì Manservisi all’ala. Giocammo benissimo, vincendo 1-0, la settimana dopo iniziò il campionato e lui, forse perché convinto da quello che aveva visto, confermò la formazione. Da quel momento, iniziò la cavalcata meravigliosa». Terzo posto nel ’73 da neopromossa, scudetto l’anno successivo. 12 maggio 1974, Lazio-Foggia 1-0, rigore di Chinaglia, oltre ottantamila tifosi in delirio sul prato dell’Olimpico e Maestrelli che in panchina crollò di gioia, nascondendosi il volto fra le mani mentre era sommerso dall’abbraccio dei collaboratori (il dottor Renato Ziaco, l’accompagnatore Gigi Bezzi), quasi a volersi scusare per quella grande emozione. Poco dopo, nello spogliatoio festante, scravattato e con gli occhi sbarrati, si girò verso Garlaschelli, espulso a mezz’ora dalla fine: “Garla, oggi t’è andata veramente di lusso!”.

Tra lui e i suoi ragazzi fu una grande storia d’amore. Al punto da rifiutare l’Italia dopo il Mondiale del 1974. “Senza di lei, mister, siamo allo sbando” fu il messaggio di una delegazione capitanata da Wilson prima che il dolore prendesse il sopravvento. 30 marzo 1975, spogliatoi di Bologna-Lazio, Maestrelli smarrito e appoggiato al termosifone come già in altre circostanze. I controlli, la diagnosi (tumore al fegato), l’intervento, la convalescenza, gli allenamenti osservati col binocolo dal terrazzo della clinica, la Lazio che con Corsini alla guida sprofondava verso la Serie-B, “Tom” che improvvisamente guarì e ritornò. Per la gioia dei giocatori, che però dovettero fare i conti con un uomo minato dalla malattia, che allenava anche con la febbre e tornava a casa senza forza nelle gambe. La salvezza giunse in rimonta (reti di Giordano e Badiani) a Como, all’ultima giornata, dopo la fuga improvvisa di Chinaglia ai Cosmos negli Stati Uniti. Maestrelli ci rimase malissimo, ma quel 16 maggio 1976 dichiarò che per lui quel giorno era più bello anche di quello dello scudetto.

Per lui la Lazio fu secondaria soltanto alla famiglia, le figlie Patrizia e Tiziana e in particolare gli amati gemelli Massimo e Maurizio, onnipresenti mascotte alle partite e in allenamento. Garlaschelli li scherzava: «Giocavo a farli i tunnel, erano sempre allegri, correvano in continuazione dietro al pallone con le loro magliettine della Germania…». «Erano due rompiballe incredibili, sempre in mezzo ai piedi, con loro la domenica facevo il riscaldamento, anche se a giocare a calcio erano due pippe clamorose» fu l’affettuoso omaggio di Pulici, che il 28 novembre 1976, dopo aver parato l’impossibile in un derby vinto 1-0, alla radio dedicò la vittoria al suo allenatore. «Ho avuto questo slancio per la prima e unica volta in carriera, ma non ho mai capito il motivo. Venne spontaneo» raccontò. Dopo quelle parole, Maestrelli si chiuse in bagno e pianse. La sera entrò in coma per morire quattro giorni dopo. Chinaglia arrivò in tempo dall’America per salutarlo da vivo, poi portò in spalla il feretro, mentre diecimila persone si riversarono fra Piazza dei Giuochi Delfici e il cimitero di Prima Porta. “È morto un uomo coraggioso” titolò il “Corriere dello Sport” l’indomani.

Un altro come lui nei decenni successivi non si è quasi più visto. Così Pulici: «In Delio Rossi ho ritrovato qualcosa della sua umanità». Quella latitante nel pallone odierno, dominato da troppi interessi economici. Quella che lo stesso numero uno ha divulgato negli ultimi anni di vita nelle scuole elementari di Roma, in un progetto coordinato dal CONI sull’importanza dell’etica nello sport, dove apriva ogni suo intervento con la visione di un filmato dedicato a quell’allenatore che ebbe il pregio di saper parlare agli uomini. Perché il tempo passa, ma le cose belle restano. Per sempre.

Classe 1982, una laurea in "Giornalismo" all'università "La Sapienza" di Roma e un libro-inchiesta, "Atto di Dolore", sulla scomparsa di Emanuela Orlandi, scritto grazie a più di una copertura, fra le quali quella di appassionato di sport: prima arbitro di calcio a undici, poi allenatore di calcio a cinque e podista amatoriale, infine giornalista. Identità che, insieme a quella di "curioso" di storie italiane avvolte dal mistero, quando è davanti allo specchio lo portano a chiedere al suo interlocutore: ma tu, chi sei?

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