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Tolto De Rossi ci resta solo il veleno (e i fake men)

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Tolto De Rossi ci resta solo il veleno (e i fake men)

di Antonio Padellaro da Il Fatto Quotidiano del 15 Maggio 2019

Cosa ha detto Daniele? Da quando il calciatore è meno presente sul campo la sua voce, la vera voce della Roma, si è fatta più limpida, più autentica, più indispensabile. Ascoltarlo a fine partita mi ha sempre aiutato a stemperare la rabbia, a ragionare quando sragiono, a sorridere con lui quando il sorriso gli spunta sotto la barba, e andiamo a letto contenti. In un mondo di fake man, di patentati avvelenatori di pozzi, di cosiddetti comunicatori che passano il tempo a comunicare i loro cattivi umori e personali fallimenti, ascoltare De Rossi significa sapere che lui c’è. Che c’è la persona di cui ti fidi, capace di esprimere concetti semplici, argomentati, in un italiano corretto perché chi parla bene pensa bene. Bello immaginarlo nello spogliatoio mentre incoraggia i più anziani e cazzia i più giovani, con le parole giuste di un capitano che non si fa chiamare capitano perché capitano lui lo è e basta. Puro godimento guardarlo allo stadio mentre prevede lo sviluppo del gioco, e se le gambe non sono più le stesse eccolo mentre entra col tempo giusto sull’avversario, magari con una stecca sulla caviglia tanto per capirsi. E fa niente se nello slancio esagera e si becca un bel rosso e la vena pulsa. Ddr c’è.

Cosa ha detto Daniele? Che il presidente non lo ha chiamato, che il consigliere del presidente non lo ha chiamato, che dopo tanti anni ha capito che era finita perché nessuno glielo ha detto. Fino all’altro ieri, quando il chi glielo dice è toccato al manager Guido Fienga, triste e solitario: brutto mestiere congedare un sentimento e farsi odiare da una città. Daniele ha detto che non sarà mai un dirigente se dirigente significa strappare quella maglia e cacciare un capitano che, chissenefrega degli acciacchi, sa ancora lanciarsi da un’area all’altra per spingere il pallone dentro la rete, come a Genova con la Sampdoria, e gridare al cielo con i pugni chiusi e restituire speranza. Cos’altro ha detto, e non ha detto, Daniele? Che nello spogliatoio non ci sarà più nessuno a spronare i vecchi e a cazziare i giovani, con uno sguardo. Che non sarà più lui a darci equilibrio, a tenerci calmi, con la lingua italiana e la trasparenza dei pensieri. Voce la sua, spenta la quale ci sarà tempo e spazio solo per gli avvelenatori di pozzi, per massacrare la Roma e spargere sale sulle ferite. Che se per gli americani nella Roma business is business, questa volta James Pallotta ha sbagliato i conti di brutto perché con De Rossi viene cancellata una voce essenziale per un marchio che vende emozioni. Hai ceduto i pezzi più pregiati, hai sbagliato allenatore e direttore sportivo, solo un miracolo ti può mandare in Champions, ti fai snobbare dallo juventino Antonio Conte, la tifoseria cade in depressione, ti era rimasta una grande bandiera e tu cosa fai, l’ammaini (questo Daniele non lo ha detto ma forse lo ha pensato). Cos’altro resta? Che il 26 maggio, due anni dopo Francesco Totti, all’Olimpico ci sarà un altro addio, e saremo di nuovo lì a mangiarci il cuore. Che forse si tratta solo di aspettare che Daniele, un giorno, ritorni tra noi come allenatore. Il problema è che lui di anni ne ha 36 anni. Io 73.

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Giornalista professionista dal 1968, sono stato responsabile della redazione romana del Corriere della sera, vicedirettore de L’Espresso, direttore de L’Unità e, nel 2009 fondatore e direttore de Il Fatto Quotidiano e dal 2015 presidente di Editoriale Il Fatto spa. Ho scritto libri (Non aprite agli assassini, Senza cuore e, di recente, Io gioco pulito), ho sempre tifato Roma, mi sono sempre battuto per la libertà di stampa. E continuerò a farlo.

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