A poche settimane dall’epica finale degli Australian Open tra Federer e Nadal, è arrivata una clamorosa notizia, che probabilmente si ripercuoterà sul futuro della carriera del tennista spagnolo: dal 2018 Toni Nadal non sarà più il coach di suo nipote Rafa.
A dichiararlo è stato lo stesso Toni qualche giorno fa, in un’intervista nella quale ha spiegato le motivazioni della sua scelta. Da un lato, la volontà di dedicarsi a tempo pieno alla nuovissima Rafa Nadal Academy – inaugurata l’ottobre scorso a Mallorca -con l’intento di far maturare e valorizzare nuovi giovani talenti; dall’altro, la crescente consapevolezza di aver perso il potere decisionale di cui godeva anni fa: “Fino ai 17 anni decidevo tutto io, poi è venuto Carlos Costa come manager, si è avvicinato il padre, ognuno con i loro pareri. E la verità è che ogni anno io decido sempre meno, fino al punto in cui non deciderò più niente!”
Lo zio da sempre è stato un uomo rigido, dall’encomiabile etica del lavoro. E’ stato affianco a Rafa sui campi da tennis da quando aveva 3 anni, spronandolo e ottenendo sempre il massimo da lui. I 69 titoli ATP, tra cui ben 14 Slam, 28 Master 1000 e un oro olimpico ne sono una prova solare. E con il nipote ha sempre avuto un ottimo rapporto, basato sulla fiducia e il rispetto reciproci. Ma evidentemente, soprattutto dopo l’arrivo nel 2014 di Moya nell’entourage di Rafa, zio Toni ha capito che è giunto il momento di farsi da parte.
La loro è stata senza dubbio una delle accoppiate più vincenti della storia del tennis. Il che è ancor più sorprendente se si tiene conto del loro legame: Toni non era soltanto il suo coach, ma anche suo zio. Come gestire un rapporto simile, in cui dover bilanciare l’affetto parentale con l’obiettività propria dell’allenatore? Una situazione molto difficile, ma non così rara nel mondo del tennis. Una situazione che può sì comportare enormi vantaggi, come nel caso di Rafa, ma anche provocare immani catastrofi.
Uno dei primissimi esempi di una situazione simile riguarda Suzanne Lenglen. La tennista francese negli anni ’20 vinse la bellezza di 12 Slam. E gran parte del merito non può che essere del padre Charles, che la allenava quotidianamente ed era solito piazzare sul campo dei pezzetti di carta, che la figlia doveva colpire con la pallina. E se non ci fosse riuscita? Niente pane né acqua a pranzo! Un metodo poco ortodosso, ma sicuramente fruttuoso.
E anche Caroline Wozniacki, ex numero 1 del mondo, deve molto al padre Piotr. E’ lui che la allena fin dall’età di 7 anni, è lui che l’ha plasmata da un punto di vista tennistico, riuscendo a scindere l’amore paterno dal suo ruolo di coach. E se la tennista danese nel 2015 aveva deciso di affidarsi ad Arantxa Sanchez Vicario, ora è tornata nuovamente sotto la guida paterna, convinta più che mai che “la miglior cosa per me è avere mio papà come allenatore”.
Ma non sempre avere un padre o un parente come allenatore risulta essere la scelta più saggia. Caso lampante è il ruolo di padre/coach di Sergio Giorgi con la figlia Camila. Ok, la tennista maceratese è ancora giovane e, talentuosa com’è, potrebbe esplodere da un momento all’altro. Però sono anni che ci si aspetta da lei un definitivo salto di qualità, mentre finora la sua carriera è costellata di poche soddisfazioni e tante, cocenti delusioni. Delusioni che a volte vengono imputate proprio a papà Sergio: personaggio strambo e spesso sopra le righe, il padre da sempre ha trascurato l’aspetto tattico nel gioco di Camila, concentrandosi solo su un tennis potente e aggressivo e sulla ricerca, spasmodica, del colpo vincente. Non importa chi sia l’avversario dall’altra parte della rete, Camila gioca sempre nello stesso identico modo, con forzature e soluzioni sempre più estreme. Una strategia che, almeno finora, non sta pagando.
E in alcuni casi, un padre coach può diventare una vera tragedia. E’ il caso, ad esempio, di Aravane Rezai, allenata per anni dal padre Arsalan. L’uomo stravedeva per la figlia fin da piccola e voleva che diventasse numero 1 al mondo. Ma durante gli anni i suoi sogni sono sfumati. Di pari passo ha iniziato a covare una rabbia crescente, che si è riverberata sulla Rezai, al punto tale che nel 2011, durante gli Australian Open, l’ha minacciata fisicamente negli spogliatoi. Il tutto a causa della necessità di emancipazione da parte della tennista, da tempo alla ricerca di un nuovo coach contro il volere paterno. Una vicenda resa ancor più scabrosa dal fatto che la famiglia Rezai, di origini iraniane, non vedeva di buon occhio l’occidentalizzazione della figlia. Una vicenda che ha visto la Rezai chiudere dolorosamente ogni rapporto con la sua famiglia.
E una sorte non troppo diversa è toccata anche a Bernard Tomic, grande promessa del tennis australiano. Anche in questo caso c’è di mezzo un padre allenatore tutt’altro che tranquillo. John Tomic da sempre è stato al centro di episodi davvero poco piacevoli: nel 2006 venne alle mani con alcuni allenatori, nel 2008 costrinse il figlio al ritiro per protesta, nel 2010 litigò pesantemente col direttore degli Australian Open e l’anno seguente, durante un incontro, il figlio Bernard chiese di farlo allontanare dalle tribune a causa del suo atteggiamento increscioso. E poi, la rissa del maggio 2013: il padre che picchia il figlio, l’intervento dello sparring partner Thomas Drouet, e John Tomic che prende a testate quest’ultimo, per poi essere arrestato dalla polizia. Sembrerebbe un film comico di Boldi e De Sica, ma purtroppo è tutto vero.
E, incredibile ma vero, John Tomic è a tutt’oggi il coach di Bernard, nonostante tutto quello che abbia combinato. Una sorta di sindrome di Stoccolma, che tiene ostaggio il figlio nella morsa del padre. Una situazione davvero spiacevole, che fa capire che, malgrado tutti i suoi difetti, di personaggi come Toni Nadal ce ne siano veramente pochi.