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Stephen Hendry, il ritorno del Golden Bairn (prima parte)

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Stephen Hendry, il ritorno del Golden Bairn (prima parte)

Uno degli argomenti più dibattuti sui social media, in questo inizio di 2021, è il ritorno alle competizioni del grande Stephen Hendry, il 7 volte campione del mondo scozzese che, trascorse ben 9 primavere dal ritiro del 2012, ha chiesto ed ottenuto dal BOSS Barry Hearn una wild card internazionale di due anni, per tornare alle competizioni ufficiali del MAIN TOUR. A convincerlo a fare questa mossa ardita, a 52 anni, è stato il fraterno amico Mark Williams che lo ha voluto con sé nel team della SIGHTRIGHT del guru Stephen Feeney, per iniziare gli allenamenti in vista di un rientro destinato a fare scalpore. In realtà l’operazione è andata alquanto per le lunghe, colpa anche della pandemia, ma alla fine tutto si è risolto per il meglio quando, dopo vari TIRA E MOLLA, il campionissimo scozzese si è presentato ai nastri di partenza del Gibraltar Open, ultimo appuntamento utile per provare a rodarsi in vista delle qualifiche del Campionato del Mondo, previste a Sheffield, in Inghilterra, dal 5 al 14 aprile. Come si poteva immaginare non è stato un rientro facile, ma nonostante la sconfitta patita al primo turno con l’amico, nonché compagno di squadra, Matt Selt, si è trattato comunque di un match in cui Hendry ha messo in mostra una buona condizione, lasciando intendere che, in prospettiva, un suo ritorno ad alto  livello, diciamo da TOP 16 al mondo, non è una possibilità da scartare completamente. Le motivazioni non mancano, tanto più adesso che è arrivata la notizia bomba di un sorteggio che lo vedrà di fronte, neanche a  farlo apposta, al suo più tradizionale avversario, al Mondiale. Si tratta, ovviamente, di Jimmy White con il quale ha disputato ben quattro finali mentre adesso, ironia del destino, ad oltre un quarto di secolo da quelle leggendarie sfide, si trova a dover sostenere un match di primo turno e per di più in qualifica. “Sic transit gloria mundi”, così dicevano i latini alludendo a quanto possano essere effimere le fortune umane, ma si può scommettere che non sarà uno scontro in tono minore questa ottava sfida tra i due (bilancio 5-2 per lo scozzese) sul più grande palcoscenico dello snooker professionistico. E’ ovvio che con due OVER 50 in campo è difficile aspettarsi ancora fuochi d’artificio come negli ANNI D’ORO, però è credibile che possa esserci  ancora battaglia vera, con  tensione a mille e tanto di DRAMA finale, a rinnovare una rivalità tra le più sentite di sempre sul panno verde. Come nei racconti fantasy-horror di Stephen King, certe storie A VOLTE RITORNANO, sperando che non si tratti ancora del solito incubo terrificante per il buon Jimmy, di fronte all’arrivo dello spietato nemico di sempre.

Dopo il ritiro avvenuto al Mondiale 2012, a conclusione di una carriera strepitosa che lo aveva consacrato come il più grande di sempre nella specialità più difficile del biliardo, Hendry ha potuto finalmente allentare la presa per dedicarsi al suo sport preferito, il golf, visto che lo snooker è stato per lui, di certo, più un lavoro che una passione. Poi, naturalmente, si è preso cura del ricco patrimonio accumulato in un quarto di secolo di carriera, anche se corre voce che qualche scricchiolio ci sia stato, da qualche parte. Pure in famiglia non sono mancate le contrarietà, tanto che a conclusione di un rapporto diventato sempre più difficile con la moglie, Mandy Tart, ha deciso di lasciare la famiglia e la terra natia per andare a vivere a Sunningdale, nel sud dell’Inghilterra, con la nuova fiamma, una giovane attrice di teatro che potrà avere la metà dei suoi anni. Come dire che le spese non mancano mai… E allora ben venga di mettersi in gioco come opinionista televisivo, accettando le offerte della BBC, la rete di stato, come pure quelle della ITV, la grande rete commerciale d’oltremanica. Nel calderone dello snooker moderno, inteso ormai come sport globale, per un personaggio della sua caratura non poteva mancare, ovviamente, qualche aggancio con la Cina. E’ stato così che Hendry è diventato il TESTIMONIAL del PALLA 8 CINESE nella terra del dragone, anche se è probabile che lo scoppio della pandemia abbia bruciato parecchie risorse in quella direzione. Nello snooker c’è stata, di tanto in tanto, la possibilità di esibirsi nel SENIOR TOUR ed è lì che ,un po’ alla volta, è maturata l’idea di un rientro alle gare. Lo scozzese fa sul serio e vuole  tornare a sentire il brivido della competizione vera, quella che può dirsi tale, per uno come lui, solo quando c’è da misurarsi con i più forti, o con i più celebrati rivali di un tempo. Certo sarebbe fantastico ridare fiato ai suoi ammiratori e, contemporaneamente, tappare la bocca a tutti i saccenti che lo vedono ormai superato dall’evoluzione del gioco, oltre che dai limiti dovuti all’età e alla ruggine fatalmente accumulata in quasi un decennio di assenza dalle competizioni. Quelle CASSANDRE da zittire che lo VOGLIONO destinato, come Borg a suo tempo nel tennis, a un fallimento certo, che ne renderebbe ancora più triste l’uscita definitiva di scena. Hendry, ovviamente, smorza i toni e dice di non sapere cosa aspettarsi da questo rientro, ma è troppo desideroso di rimettersi in gioco e sogna di tornare al Crucible. Umanamente ne ha tutto il diritto, ma merita ancor di più questa chance in quanto protagonista di una carriera inimitabile, che lo ha portato ad essere considerato fino a pochi anni fa il GOAT indiscusso dell’era televisiva dello snooker. Poi la fenomenale progressione inanellata da O’Sullivan proprio a partire dal ritiro di Hendry, nel 2012, sembra  aver ormai convinto I PIU’che spetti a THE ROCKET il titolo di più grande di sempre. Una valutazione che può starci, eccome, anche per la straordinaria caratura a livello mediatico di un personaggio come Ronnie che, nel bene o nel male, è destinato a finire sempre sulla bocca di tutti. Comprensibile, alla fine, che sia lui a ricevere i maggiori suffragi per il titolo di GOAT, anche se non va dimenticato che è tipico della natura umana valorizzare maggiormente il presente rispetto al passato. Sembra giusto, dunque, dopo aver sentito suonare in continuazione le campane a favore dell’inglese, dare fiato anche alle trombe che annunciano il ritorno del Sovrano di Scozia. Una bella storia da raccontare, al  termine della quale  più  di qualcuno potrebbe anche rivedersi un po’ e cominciare a pensare che tra Ronnie e Hendry, forse, la questione non sia ancora definitivamente chiusa. “Remenber my name” (Ricordatevi il mio nome ), questo il titolo della prima autobiografia di Hendry, apparsa agli inizi degli anni 90. Forse è ancora il  messaggio che il “Golden Bairn” – il RAGAZZO D’ORO – vuole mandare al mondo dello snooker nella stagione del suo rientro ufficiale alle competizioni.

Stephen Hendry nasce a South Queensferry, in Scozia, alla periferia della capitale, Edimburgo. Un’annata  DOC, la sua, quella del 1969, di cui fanno parte altri giocatori di valore come Doherty e Swail. Ma basta allargarsi un po’ e nello spazio di un paio di stagioni ecco che nel drappello entrano pure Ebdon, Wattana e McManus. Un gruppo di giocatori di talento in un mondo, quello dello snooker, in cui LE GENERAZIONI tendano a seguirsi ad intervalli  di un LUSTRO, o poco più, e così dal 74 al 76 ecco arrivare l’ondata dei vari Perry,Lee, i TRE GEMELLI e Bingham. A seguire c’è il cluster dei  Selby, Robertson, Maguire,Murphy di inizi anni ottanta. Quindi Ding, Liang, Allen e Trump. Nello specifico, per quanto riguarda Hendry la vera minaccia verrà dalla coalizione dei TRE GEMELLI del 75, impegnati a far fronte comune contro il dilagare del suo dominio. Al grande scozzese era andata bene con White e Parrott (62-64) e pure con il grande Davis (57).  Al suo arrivo sulle scene, a fine anni ottanta, aveva spazzato via la generazione dei quarantenni, quella dei Griffiths, Thornburn, Taylor e Alex Higgins (47-49). Però, alla fine, anche le armi della più formidabile macchina da guerra che si sia mai vista su un tavolo da snooker, verranno a spuntarsi progressivamente contro il muro dei SUPERTALENTI – i vari O’Sullivan, Williams e John Higgins – a partire  dalla metà degli anni novanta. Viene  quasi da pensare che Hendry abbia alzato a tal punto l’asticella da obbligare, in qualche modo, la natura a trovare contromisure adeguate, mettendo in campo il più formidabile trio che si sia mai visto su un biliardo da 12 piedi per 6. Tutti ragazzi  cresciuti ammirando l’arte del biliardo sul piccolo schermo nei favolosi anni ottanta, il periodo di maggior splendore dello snooker nel Regno Unito. Era l’epoca in cui i genitori si chiedevano se fosse preferibile indirizzare i figli a fare sport sul manto erboso di un campo di calcio, oppure sul panno verde di un tavolo da biliardo. Era una scelta praticamente da 50 e 50, con lo snooker che poteva sembrava più TRENDY e forse ancor più remunerativo del pallone. Così non è da considerarsi una sorpresa che la classe meno abbiente, la cosiddetta WORKING CLASS, abbia indirizzato con fiducia i ragazzi in sala biliardo a divertirsi e, se possibile, ad imparare un’arte che un giorno potesse dare loro anche da vivere. Questo non solo come giocatori da vertice della piramide, ma anche come istruttori nei circoli, oppure come baristi e gestori di sala, nonché come operatori commerciali di un settore in cui L’INDOTTO andava a mille con il prosperare della vendita di tavoli, stecche, bilie, panni, libri, riviste ed accessori vari. Si può dire davvero che col biliardo la WORKING CLASS ( la CLASSE OPERAIA) sia andata in PARADISO, almeno fino all’inizio del nuovo millennio. Nessuna sorpresa, dunque, che i più grandi TENORI della stecca abbiano TUTTI uno stesso denominatore comune: le UMILI  ORIGINI. Credo possa bastare qualche esempio. Davis era figlio di un conducente d’autobus, proprio come il RE MIDA dello sport in tv, Barry Hearn, recentemente insignito di un OBE per meriti in campo sportivo. Williams veniva da una famiglia di minatori, proprio come il connazionale Reardon, 6 volte campione del mondo, considerato il padre del biliardo gallese. Ronnie Sr., il papà di O’Sullivan, aveva cominciato come lustramacchine, mentre la mamma, Maria Catalano, sicula di origine, gli dava una mano la mattina, per poi finire la giornata andando a lavorare come cameriera in un ristorante. Menzione d’onore anche per papà Higgins, che si dannava l’anima come operaio stagionale in una piattaforma petrolifera nell’inferno del Mare del Nord, uno dei posti più inospitali del globo terraqueo, dove si scatenano tempeste capaci di sollevare ondate alte fino a trenta metri. Non saranno state le condizioni migliori per garantire un’adeguata regolarità di gioco, eppure nei favolosi anni ottanta i tavoli da snooker potevano arrivare anche lì, nei modi più impensati. Per quanto riguarda poi la messa a livello del piano di gioco, è chiaro che a questo punto bisognava arrangiarsi un po’.

Altra caratteristica dei papà dei campioni della stecca è spesso di essere loro stessi, per primi, dei grandi appassionati di biliardo. Sicuramente è così per Gordon Hendry, titolare di un piccolo negozio di frutta e verdura a Queensferry, grazioso centro di una decina di migliaia di abitanti nella zona nord di Edinburgo.  Lui sa bene di essere una MEZZA SCHIAPPA al biliardo, ma non dispera di  trasmettere ai figli, Stephen e Keith, il più piccolo, quel DNA prezioso che sa di portarsi dentro quale figlio di un ottimo giocatore. Il papà era una bella stecca abituato a bazzicare con un certo Bert Demarco, personaggio di primo piano nel panorama del biliardo scozzese. Un giocatore che è stato più volte campione nazionale negli anni sessanta, nonché il primo rappresentante del suo paese in un Mondiale dilettanti di snooker, nel 1966. Un bel modo di dare continuità ad una tradizione che si rifaceva al grande Walter Donaldson, due volte campione del mondo tra i professionisti, nel 47 e nel 50, conosciuto anche come il grande avversario di Fred Davis in ben 8 finali consecutive per il titolo. Storie che, ovviamente, erano di casa in famiglia Hendry, ma il nostro fruttivendolo, ben consapevole delle sue carenze in campo balistico, si vede costretto a puntare tutto sui figli. Così,a sorpresa, nel giorno di Natale del 1981, ecco che il più grande, Stephen, ormai prossimo a compiere i 13 anni, ma fisicamente ancora un simpatico “ranocchietto”, si ritrova la cameretta occupata da un tavolo da snooker di 6 piedi per 3. “Cos’è ‘sta roba?” si chiede il futuro campione del mondo, che non ha mai visto un biliardo neppure in cartolina. Lui ha un po’di tutto nel suo piccolo regno, a partire dal pallone da calcio, quello di cuoio, assieme alle scarpe con i tacchetti. Non mancano le racchette per il tennis e per il gioco del volano, però questa “portaerei” che è venuta improvvisamente ad invadere la sua privacy, lo lascia alquanto sorpreso. Non gli ci vorrà molto, comunque, a prendere dimestichezza con stecca e bilie, per la gioia di papà e mamma Irene – una donna vivace e molto sensibile – che adesso sono sicuri di aver fatto la scelta giusta con il piccolo Stephen. Per ovvie ragioni di spazio il tavolo viene messo a ridosso di una parete, costringendo il futuro campione a fare autentiche acrobazie con la stecca per colpire validamente le bilie. Le difficoltà non lo scoraggiano, anzi sembra che gli siano di stimolo a far sempre meglio per guadagnarsi l’approvazione dei genitori. Il papà sarà anche una schiappa, per carità, ma ha l’occhio lungo e capisce che è già ora di portarlo al circolo a far pratica su un tavolo da competizione. Stephen ne resta affascinato e da quel momento pensa solo al biliardo. Della scuola non gli importa più niente ed ecco che, senza accorgersene, scivola nella “bolla” e lo snooker diventa tutto il suo mondo. I genitori non se ne preoccupano, anzi decidono di assecondarlo in un percorso che, dal punto di vista psicologico, potrebbe aiutarlo a prendere fiducia nelle sue capacità, consentendogli di uscire dal  bozzolo di bambino poco sviluppato fisicamente e, forse anche per questo, molto timido e chiuso a riccio in se stesso. Gli insuccessi scolastici a catena non lo aiutano certo e allora ben venga la valvola di sfogo del biliardo, visto che il ragazzino si rivela un autentico “enfant prodige”, dimostrando una precocità davvero fuori dal comune.

Quando si parla di precocità nel biliardo è impossibile non pensare a Ronnie e allora viene spontaneo fare un confronto tra i due più grandi giocatori di sempre, partendo già da come hanno mosso i primi passi in carriera verso le più alte vette del gioco. Partiamo da O’Sullivan che è  personaggio meglio conosciuto dal grande pubblico televisivo, anche per il fatto di essere ancora in attività. E’ noto che ha preso in mano la stecca a 7 anni, per poi arrivare a siglare il primo centone a 10 e completare la SERIE PERFETTA, in competizione ufficiale a livello dilettantistico, all’età di 15 anni. Tra i PRO ha bruciato letteralmente le tappe andando a vincere il primo full ranking (al tempo stesso anche un TRIPLE CROWN) pochi giorni prima di compiere i 18 anni, battendo in finale al UK 93 proprio Hendry, considerato all’epoca praticamente imbattibile. E’ stato anche il più giovane a vincere il London Masters, a 19 anni, nel 95. Tra l’altro entrambi questi record rimangono ancora di sua proprietà a distanza di tanti anni e ciò depone per la qualità assoluta di questi risultati. Il vero CRUCCIO, se così si può dire, è di aver vinto relativamente tardi il Mondiale, facendo centro “solo” all’età di 25 anni e pochi mesi, nel 2001. All’epoca deteneva complessivamente 4 triple crown e 9 titoli full ranking, che rappresentano certo un bel bottino, ma  sono  relativamente poca cosa rispetto ai 4 mondiali, 11 triple crown e ben 19 full ranking che il GOLDEN BAIRN aveva messo in bacheca alla stessa età. Siamo sulla fascia attorno ai 25 anni che rappresenta lo SPARTIACQUE tra giovinezza e maturità, in questa disciplina. Ronnie poteva consolarsi in qualche modo con un vantaggio di 4-1 nelle serie perfette, che vogliono dire comunque molto per il PRIDE e l’autostima di un giocatore. Non avrebbe potuto essere più orgoglioso dell’equilibrio mantenuto nei testa a testa col grande rivale, fissato in un salomonico 15-15 alla fine del 2000 (!) Un bilancio di cui andar fiero, anche perché lascia intendere che Ronnie fosse effettivamente all’altezza dell’avversario come forza di gioco, ma non ancora così completo nella gestione della partita e dei momenti cruciali nel corso di un intero torneo, da poter aspirare a diventare anche lui un vincitore seriale come Hendry e, prima di lui, Davis. Quei due erano veramente delle macchine perfette e sembravano avere una conoscenza innata del gioco, anche se sappiamo che non poteva essere vero, alla fine. Però era quello che comunicavano al pubblico e al malcapitato avversario di turno, che ne restava fatalmente condizionato. Ronnie era invece più umano, magari più talentuoso ma sempre potenzialmente soggetto a concedere una chance. Il classico giocatore tutto genio e sregolatezza che piace tanto al pubblico ma anche agli avversari, che sono sicuri che con lui può sempre succedere di tutto. Basta saperlo attendere al varco. Anche per questo O’Sullivan è arrivato tardi alla quadratura del cerchio, con un percorso molto tortuoso e solo dopo una lunga ricerca di se stesso nei labirinti della mente e nelle profondità dell’anima.  Ma l’arrivo del  nuovo millennio avrebbe cominciato a dargli presto ragione.

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