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Sport Senza Frontiere: quando lo sport gioca pulito

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Sport Senza Frontiere: quando lo sport gioca pulito

Sport Senza Frontiere è una delle onlus più attive nel campo dello sport, utilizzandolo esplicitamente come strumento di inclusione e coesione sociale, educazione e benessere. Valori determinanti per la pratica sportiva, spesso dimenticati per via del bagliore accecante che inducono i lustrini dello sport professionistico. Sono quei valori, però, a mantenere solida e sana la base della piramide che sostiene il professionismo con realtà come il dilettantismo amatoriale e il semplice gioco. Lo sa bene Alessandro Tappa, presidente di Sport Senza Frontiere, che abbiamo avuto il piacere di intervistare per comprendere meglio come lo sport possa sostenere l’integrazione sociale dei ragazzi più disagiati.     

Ciao Alessandro, come parleresti di Sport Senza Frontiere a chi non vi conosce?

Sport Senza Frontiere nasce con lo scopo di utilizzare lo sport come strumento di inclusione sociale, benessere ed educazione a favore di bambini e ragazzi che vivono una situazione di grave disagio economico e di esclusione sociale.

Come svolgete la vostra attività?

Lavoriamo con una modalità a rete di enti segnalatori, ossia tutte le organizzazioni che ci indicano i bambini e le famiglie da seguire, che ritengo molto efficace. Una prima rete è costituita da servizi sociali, scuole, la Comunita di Sant’egidio, case famiglia, parrocchie e centri d’accoglienza. La seconda rete è quella delle associazioni sportive che credono nel nostro progetto, che inseriscono nei loro corsi i bambini che noi seguiamo. Ad oggi sono circa 160. La terza rete è quella sanitaria: dal 2015 ci occupiamo in maniera strutturale di fare uno screening sanitario a tutti i bambini e i ragazzi che prendiamo in carico che include anche la visita medico-sportiva. A fine anno, poi, facciamo un follow up. A tutto questo si uniscono incontri con bambini e genitori su stili di vita e nutrizione che abbiamo elaborato insieme all’università di Tor Vergata. E’ un approccio dove lo sport è centrale ma come vedi è integrato da altri elementi che fanno sì che il percorso del bambino possa essere vincente. Il nostro obiettivo è quello di tenere per tre anni i bambini inseriti in un contesto sportivo sostenuti da noi. Abbiamo la speranza, non la certezza, di esercitare un cambiamento nella loro vita e dargli strumenti che potranno essergli utili per diventare cittadini e persone migliori. 

Quando e come è nata questa onlus?

E’ nata tra il 2009 e il 2011 come progetto pilota di una società di pentathlon moderno nella quale io ero allenatore. Lì iniziammo ad ospitare dei bambini che ci indicò la Comunità di Sant’Egidio. Dopo due anni, vedendo come loro e le rispettive famiglie traevano beneficio da quell’attività, decidemmo di creare un’organizzazione che si concentrasse esclusivamente ad utilizzare tutto il potenziale dello sport, mettendo in campo un modello integrato che allo sport unisce anche la parte pedagogica e sanitaria proprio per facilitare il processo di inclusione del bambino. 

Dove sviluppate i vostri progetti?

Le nostre attività sono nate a Roma nelle associazioni sportive di diversi quartieri. Dal 2015 siamo operativi anche a Napoli, Torino, Milano, Bergamo e Trento. In ogni città c’è uno staff di progetto: un coordinatore, uno psicologo e poi i tutor e gli educatori che seguono i bambini, vanno a parlare con gli allenatori e ne seguono il percorso. E’ sorprendente che un’iniziativa nata tra amici una decina d’anni fa abbia oggi una dimensione nazionale importante, con oltre trenta persone che lavorano con noi.

Le istituzioni vi danno supporto?

Molto poco. Finora abbiamo raramente sviluppato progetti finanziati dalle istituzioni. Solo di recente abbiamo lavorato insieme alla Regione Lazio. Forse è un po’ anche colpa nostra, che in mezzo a molte realtà non siamo riusciti a emergere. Ma è anche vero che solo di recente lo sport inizia a essere finalmente concepito come strumento di welfare con pari dignità rispetto agli altri. Probabilmente scontiamo un ritardo culturale in questo senso.

Quali sono gli sport che fate praticare ai ragazzi?

Il modello organizzativo che abbiamo ci consente di proporre tanti sport differenti. Nell’indirizzare i bambini noi consigliamo in base a due parametri: le loro attitudini e la logistica. Ovviamente cerchiamo di fargli fare sport vicino a dove abitano e a dove vanno a scuola. Dal compromesso tra questi due elementi emerge lo sport che vanno a praticare. Ad oggi offriamo 29 discipline sportive differenti: calcio, nuoto e pallavolo sono quelle che numericamente assorbono più ragazzi. Ma ne seguiamo anche tanti che fanno rugby, badminton, golf, pugilato, danza, triathlon, arti marziali… insomma, un po’ di tutto. E’ normale che il 90% chieda di giocare a calcio. Poi, però, sulla base di quello che ti ho detto, molti scoprono di essere portati anche per altre discipline che magari nemmeno sapevano che esistessero.

La diffusione del Covid ha cambiato anche le vostre attività e le vostre prospettive?

Totalmente. Non tanto le prospettive, che forse ha addirittura rafforzato, quanto piuttosto le iniziative di questo periodo. Quando hanno chiuso le scuole e le attività sportive abbiamo vacillato. Però ci abbiamo messo poco a dire che non potevamo lasciare soli i bambini e le loro famiglie. Così ci siamo riconvertiti in attività di sostegno gestite da remoto cercando di fare il massimo. Abbiamo chiamato tutte le famiglie per capire quale fosse la loro situazione e per spiegargli cosa stesse succedendo e dargli un orientamento. Abbiamo svolto la nostra attività di sostegno con pillole di allenamento da fare in casa, coi nostri tutor che aiutavano i bambini a fare i compiti e a dare ai genitori consigli sull’alimentazione in un periodo di sedentarietà eccessiva. E poi abbiamo garantito counseling psicologico, soprattutto per alcune madri che avevano bisogno e non potevano essere abbandonate. In certi frangenti siamo riusciti a organizzare incontri via Instagram in diretta con alcuni campioni sportivi. Da un mese a questa parte, poi, ci siamo organizzati per consegnare un nostro kit di emergenza. Siamo andati direttamente con i nostri pulmini a portare al domicilio delle famiglie più bisognose cibo, farmaci, giochi, libri. E poi, grazie a Fondazione Vodafone, siamo riusciti a dare anche trenta tablet e altrettante connessioni gratuite. Tutto questo sforzo supplementare, purtroppo, è stato necessario in un momento in cui la raccolta fondi, che noi siamo bravi a fare tramite gli eventi, ha subito un rallentamento, visto che siamo partner di diverse maratone e gare podistiche che sono state cancellate. In ogni caso andiamo avanti, stringiamo i denti e raddoppiamo gli sforzi. Alcuni ragazzi, pur essendo in cassa integrazione, a livello volontario non mollano comunque: un bellissimo segnale. 

Quali sono i vostri prossimi obiettivi?

Come detto, nell’immediato stiamo gestendo l’emergenza. Nel breve termine, invece, ci focalizzeremo sui centri estivi che mai come quest’anno saranno fondamentali, anche per consentire ai bambini di tornare a socializzare dopo le privazioni che hanno dovuto sopportare nelle settimane passate. Sono attività che nascono dall’esperienza fatta tre anni fa coi Joy Summer Camp, campi estivi a vocazione sportiva creati al Terminillo per le comunità colpite dal terremoto del centro Italia. Dopo il 2017 quell’esperienza è diventata strutturale ma quest’anno, viste le limitazioni dettate dalla situazione, non siamo sicuri di poterla replicare con le modalità precedenti. Essendo, però, un patrimonio da non disperdere, abbiamo deciso, nelle città dove siamo presenti, di attivare delle strutture chiamate Punti Joy, d’intesa con le associazioni sportive. Sono attività che, per garantire il rispetto della normativa dettata dal Covid-19, risulteranno estremamente antieconomiche. Ma vanno assolutamente fatte, per cui ci stiamo organizzando interloquendo con le istituzione e gettando, come sempre, il cuore oltre l’ostacolo.

Insomma, anche a voi piace giocare pulito!

Direi proprio di sì. Sport Senza Frontiere nasce proprio perché ci piace giocare pulito, perché lo sport è una cosa molto pura nella sua accezione più alta. Peraltro il gioco presuppone sempre la presenza di qualcuno e giocare insieme è quello che noi facciamo, cercando di non lasciare soli quelli che sono un po’ più indietro.

Giornalista e scrittore, coltiva da sempre due grandi passioni: la letteratura e lo sport, che pratica a livello amatoriale applicandosi a diverse discipline. Collabora con case editrici e redazioni giornalistiche ed è opinionista sportivo nell’ambito dell’emittenza televisiva romana.
Nel 2018 ha pubblicato il romanzo "Ci vorrebbe un mondiale" – Ultra edizioni. Nel 2021, sempre con Ultra, ha pubblicato "Da Parigi a Londra. Storia e storie degli Europei di calcio".

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