Abbiamo intervistato Marco Perisse, giornalista e autore, che ha lavorato con Rai-Sat e NewCo Rai International e collaborato con “Il Messaggero”, “La Gazzetta dello Sport”, “Il Manifesto”, autore del libro “Sport dell’altro mondo“, una raccolta di racconti “dal vero”. Ecco cosa ci ha detto.
Buongiorno Marco, di cosa parla il tuo ultimo libro?
Si tratta di racconti brevi – dalle due alle sei pagine di lunghezza – su storie e personaggi reali dello sport. L’idea è nel sottotitolo “Dietro le quinte dei campioni”. Si fa luce sul cono d’ombra, sulle vicende sottaciute dei campioni, come pure su eroi sconosciuti, perché lo sport non è un Empireo, ma un riflesso della società. I protagonisti, anche quelli delle maggiori ribalte sportive come le Olimpiadi, sono figure umane alle prese con le contraddizioni proprie e delle società in cui vivono. Qui non ci sono agiografie: ci sono i retroscena, i drammi e i valori degli atleti, il riscatto, l’amicizia. Ci sono uomini e donne narrati lungo percorsi dove sport e vita si intrecciano e il contesto sociale e la congiuntura storica ne condizionano il cammino, come accade a tutti noi.
Vuoi farci qualche esempio?
E’ emozionante la storia del pugile Henry Durand Tillman di Los Angeles che da dilettante aveva battuto Mike Tyson e vinto l’oro olimpico. E’ nato a South Central, un ghetto dove impazzavano le gang di strada, non c’erano per i giovani opportunità di lavoro e la droga era ovunque, una zona che fu teatro di una delle maggiori sommosse della storia degli Usa. Sembrava che Tillman ce l’avesse fatta. Passato professionista, la sua carriera durò poco. Finì in carcere, passò dalle pagine dello sport a quelle della cronaca nera. Il suo matrimonio con la nipote del grande Jesse Owens andò in frantumi. Dovette percorrere un tribolato cammino di redenzione per risalire la china, ma lo fece in modo esemplare tanto che gli affidarono un incarico di formatore nelle scuole di Los Angeles. E’ diventato un educatore. Uno che è stato agli inferi ed è salito in cattedra. Ho titolato questo racconto Il maestro Tillman, il quale spiega: «Alcuni sbocciano presto come uomini. Altri devono lottare. E io ho sempre lottato. Non mi sono mai arreso. Sono uno del quale non si può dire: si è ritirato».
Nel tuo libro c’è tanta boxe, compresa la memoria di uno dei più grandi pugili italiani di sempre, Duilio Loi. Perché accendi i riflettori sul pugilato?
Nella boxe si fondono sport, società e vita. E spettacolo. Il solo sport che preveda la demolizione fisica dell’avversario – non molto diverso da quello che Platone praticava 2500 anni fa – è un archetipo carico di simboli: la lotta per la vita, il coraggio, l’uno contro uno. L’eroe solitario che per salire sul ring deve vincere le proprie paure e misurarsi faccia a faccia con l’avversario – il quale incarna tutte le contrarietà del vivere – ha affascinato anche il cinema. Come ricordo nel libro, insigni maestri hanno filmato il pugilato: John Ford, Chaplin e Hitchcock, Kubrick, Robert Wise e John Huston, Scorsese e Clint Eastwood. In Italia, fra gli altri, Francesco Maselli e Valerio Zurlini agli esordi. In un capitolo prendo lo spunto da un’antologia americana di scritti sulla boxe per uno spaccato degli Stati Uniti più immediato e “sanguigno” di un trattato di sociologia. E ti accorgi che i pugni scorticano la vernice di tante narrative per denudare l’osso nascosto della contraddizione di classe che nessuno ha detto meglio dell’afroamericano Larry Holmes, ex-campione del mondo dei pesi massimi: «E’ dura essere neri. Siete mai stati neri? Io sì, un tempo: quando ero povero». Ma se vogliamo rimanere sulle storie individuali, leggiamo L’imperatore del ring, in tre pagine la traiettoria esistenziale di Hopkins dalla prigione alle corone mondiali. Mentre Addio al Bronx sottende il fenomeno della gentrification dei quartieri popolari.
Questo è un aspetto originale e accattivante del libro, ovvero come parlare fra le righe della società e delle sue criticità attraverso lo sport. Anche grazie al fatto che le tue storie abbracciano tanti Paesi ed epoche.
Sì, “l’altro mondo” dello sport è sia il lato non illuminato che i vari contesti geografici e lo sfondo, e allora lo sciabolatore Pawlowski ci immerge con una avvincente “spy-story” nella Guerra fredda. E’ difficile oggi prendere un libro e studiare la geopolitica di quegli anni, ma si può rendere l’atmosfera attraverso la storia di quel campione, accendere curiosità. Cosa fu la segregazione razziale negli Stati Uniti? Possiamo farcene un’idea con Quando il baseball nero uscì dall’oblio. O ancora, il separatismo catalano e gli eventi legati ai partiti indipendentisti: possiamo leggerne la genesi “dietro le quinte” dell’esperienza in Spagna di uno dei più grandi calciatori di tutti i tempi, Cruyff, e insieme ricordare che il “guardiolismo” nasce da una costola dell’olandese. Lo sport è un veicolo che ci trasporta pure dentro altri scenari – politici, sociali, storici. Questo genere di veloce narrazione “non fiction” può essere uno stimolo per approfondimenti o dibattiti “fuori del campo”, specie nei giovani che sono abituati a una comunicazione di messaggi stringati nonché appassionati di sport. Il conflitto israelo-palestinese per esempio è lo sfondo di un pezzo sul calcio che è una parabola di convivenza pacifica, come pure l’abbraccio ai Giochi di Tokyo tra la judoka israeliana e la concorrente saudita è un significante universale. Se vogliamo dire di esclusione sociale, chi più dei nativi americani? Ci sono tre capitoli sullo sport degli indigeni nordamericani, ricchi di dati, che sono frutto di ricerca su un tema che in Italia è ignorato.
In sintesi, perché leggere Sport dell’altro mondo?
Perché sono storie avvincenti, la lettura è scorrevole e se non vi piace un tema potete passare al successivo, perché è pieno di curiosità e notizie che non vengono alla luce nell’informazione corrente costretta a occuparsi di cronache, risultati, mercato. Perché è attuale, vista pure la recente modifica dell’art.33 della Costituzione italiana che «riconosce il valore educativo, sociale e di promozione del benessere psicofisico» dello sport. Perché si viaggia dal calcio al ciclismo, dalle leghe pro’ statunitensi al nuoto, dal Brasile al Giappone e alla rievocazione delle Olimpiadi di Roma ‘60 – alla vigilia dei Giochi 2024 ai quali pure era candidata la Capitale – da Franziska Van Almsick alla Nba e al rugby di vertice e di base: in proposito ho inserito nel libro il mio reportage All Reds, l’utopia ovale nel circo dei levrieri sulla straordinaria esperienza sociale-sportiva quasi ventennale di sport autogestito nata e cresciuta nell’ex-cinodromo di Ponte Marconi a Roma.