I figli di Benjamn Franklin. Così si fanno chiamare i membri della tifoseria organizzata del Philadelphia Union, gruppo fondato nel gennaio 2007 che in questi giorni festeggia la prima decade di attività. I Sons of Ben anno una particolarità: sono nati due anni prima che la loro squadra facesse il suo debutto ufficiale.
È un caso strano, possibile solo in un paese in cui il pallone non è mai andato di moda e in cui molte città sono abituate a non vedersi rappresentate nel calcio che conta. «Se non fosse stato per i Sons of Ben, il Philadelphia Union non esisterebbe». A dirlo è Tim Sosar, vice-presidente del gruppo ispirato a uno dei padri della patria statunitense, che mi racconta la loro storia: «Siamo nati nel 2007 con lo scopo di dimostrare alla MLS che nell’area metropolitana di Philadelphia c’era voglia di calcio, ma soprattutto il desiderio di una squadra che ci rappresentasse».
Detto fatto: gli iscritti ai Sons of Ben sono divenuti migliaia, facendo drizzare le antenne dei vertici della MLS e degli investitori. Certo, chiedere che venga fondato un club è un qualcosa a cui in Europa non siamo molto abituati. Quando qualcuno ha avvertito la necessità di creare (o ri-creare) una squadra di calcio, si è dato da fare per farlo con le proprie mani. Numerose squadre fondate e gestite dai tifosi, United of Manchester e AFC Wimbledon per citare le più famose, rappresentano ormai un modello per qualsiasi gruppo che lamentasse la mancanza di un club di calcio.
Ma nella terra del dollaro si ragiona diversamente e il primo passo è stato quello di dimostrare che c’era un nutrito gruppo di persone pronte a giurare fedeltà a un nuovo club. Insomma, far vedere che c’era la domanda e mancava totalmente l’offerta, servendo su un piatto d’argento un’importante occasione di business a chi fosse stato pronto ad investirci. E così è stato.
A partire dal nome del gruppo dei suoi proto-tifosi, il Philadelphia Union si è caratterizzato per un’identità che travalica i confini della città in cui furono redatte la Dichiarazione d’Indipendenza e la Costituzione americana. «Come i Philadelphia 76ers – spiega Tim – l’Union ha puntato molto sulla storia della città e sul suo ruolo nel processo di formazione degli Stati Uniti».
Il nome del club, scelto dai tifosi con una votazione, è un esplicito richiamo all’unione delle Tredici Colonie, così come i colori sono quelli dell’Esercito Continentale, che si oppose a quello inglese durante la Rivoluzione americana.
Oltre a tredici stelle, nello stemma appare un serpente. È un riferimento a una delle più celebri caricature politiche di Benjamin Franklin, uscita con un suo editoriale sulla Pennsylvania Gazette nel 1754. Franklin esortava le colonie ad un maggiore spirito di unione: nella caricatura la scritta «JOIN, or DIE» era accompagnata da un serpente morto tagliato in tredici pezzi. La stessa frase è stata poi resa il motto ufficiale del Philadelphia Union: «Jungite aut Perite».
I Sons of Ben occupano un settore dello stadio interamente dedicato a loro, chiamato The River End. Oltre ad aver scelto il nome, hanno contribuito a progettarlo, esortando la dirigenza ad allestire una standing area e postazioni apposite per chi lancia i cori, dove è permesso accendere fumogeni senza incorrere in sanzioni. Chiedo a Tim se la crescita della MLS sta andando di pari passo con l’allontanamento dei tifosi che praticano uno stile ultras di derivazione europea, ad esempio facendo uso di materiale pirotecnico e usando un linguaggio offensivo nei cori: «Ci sono regole come il divieto di usare torce che apparentemente dovrebbero scoraggiare gli “ultras”, il cui comportamento a volte può creare problemi. Ma credo anche che le autorità capiscano che c’è spazio per un po’ di questi comportamenti e provino a cercare dei compromessi. Ad esempio il club ha collaborato con noi e i vigili del fuoco per farci ottenere il permesso di usare fumogeni. Penso che la maggioranza dei tifosi rispettino le regole del club finché le regole stesse e la filosofia che vi è dietro sono trasparenti. Inoltre, rispetto a ciò che ho visto in altri paesi, credo che i tifosi americani siano un po’ più rispettosi verso i giocatori e i tifosi avversari».
Mi dice Tim che il calcio non è nemmeno vicino a superare il football americano in quanto a interesse, ma arriverà il giorno in cui sarà uno degli sport più seguiti negli Stati Uniti. Come sport praticato, invece, la storia è diversa: molti genitori iniziano a preferire che i figli giochino a soccer piuttosto che a football, a causa della crescente preoccupazione riguardo le commozioni cerebrali provocate da quest’ultimo. «Quando ero bambino nella mia zona non c’era interesse verso il calcio – continua Tim – ma ora sì e non accenna a diminuire. Questo è un segno innegabile che i due sport sono quantomeno destinati a coesistere».
Ma le differenze tra America ed Europa sono ancora grandi, dettate anche da fattori culturali: «Credo che i nordamericani non abbiano ancora compreso quanto il calcio sia una scelta di vita per gli europei, siano essi tifosi o giovani calciatori. Qui in America incoraggiamo i bambini a diversificare gli interessi, di conseguenza il coinvolgimento viene spartito in più attività. Questo potrebbe cambiare con le nuove generazioni che cresceranno con un club di MLS in città e una nazionale femminile di livello mondiale, ma siamo ancora agli inizi. Non è necessariamente una cosa negativa, è solo una fase che il calcio dovrà attraversare crescendo».