Sandro Mazzinghi: i pugni sul ring, i cazzotti della vita
Non c’erano di mezzo né il Milan né l’Inter, quel pomeriggio di fine maggio, a San Siro; eppure Milano traboccava di passione, oltre che di orgoglio: sessantamila tifosi che ora acclamavano, ora sospendevano il respiro, in un crescendo di sensazioni buone, forti della convinzione che in loro stava, inesorabilmente, trasfondendo l’uomo che portava in scena, sotto il cielo aperto della città, il suo ennesimo canto dell’anima. Proprio come un blues, certo, eccezionalmente germogliato nelle campagne intorno a Pontedera, in un rione chiamato “Belladimai”, che nessuno riuscì mai a capire se fosse più poetico o più malinconico. Milano, non unica a farlo ma sempre più chioccia col suo clamore e con la sua vicinanza appassionata, lo aveva adottato. Lui le aveva offerto un esempio di italiano nel quale riconoscersi, per la sua determinazione, la sua ostinazione, la capacità di rialzare la testa dopo i colpi più duri: quelli che riserva la sorte, fuori dal quadrato. Quelli che se su un ring si chiamano pugni, nella vita sono cazzotti, che nemmeno li vedi partire.
Aveva capelli cortissimi, il coreano: ispidi e pungenti come penne d’istrice; ogni volta che veniva avanti abbassando la testa era come se sugli zigomi di Sandro, o sulla sua fronte, si appoggiasse una spugna metallica. Ed era un campione, il coreano, per il titolo che deteneva e per come stava conducendo la sua battaglia, inesorabilmente: ciò che incassava, restituiva, appena poteva; tattico e mobile, potente nell’offensiva. Ma la confidenza di Sandro col dolore avanzava un passo alla volta in territorio nemico; i taccuini dei giudici si riempivano delle stesse stimmate che i guanti dell’uomo di Pontedera, non più ragazzo e con alle spalle la propria linea d’ombra, lasciavano sul volto di Ki-Soo Kim, sul torace, battendo chiodi sulla milza, aghi nel fegato. E alla fine Milano cullava un verdetto, indiscutibile, che a Sandro Mazzinghi riconsegnava il titolo di Campione del mondo dei Superwelter, al giro di boa dei trent’anni; alla resa dei conti con la preparazione maniacale alla quale si era sottoposto per tornare in vetta nella categoria in cui i suoi sessantanove chilogrammi erano sempre qualcuno di meno rispetto ai settanta e passa dei suoi avversari; di quelli che si trovavano a sperimentare quanto oltre potesse spingersi nel protrarre il ritmo che alla fine gli avrebbe dato ragione.
Si era sobbarcato ogni tipo di privazione, pur di riprendersi la corona: si era scordato la pastasciutta, il pane bianco, il bicchiere di quel vino che molti anni dopo avrebbe imparato a produrre. Tanta carne ai ferri, che da bambino mai avrebbe pensato potesse simboleggiare una privazione, un sacrificio; tanta corsa in anticipo sullo spuntare del sole, sedute di sparring infinite, esercizi dei quali perdeva il conto. Era stato quello, il suo giro di boa? Di certo, battaglie simili non si lavano mai via del tutto, non se ne vanno da nessuna parte i colpi sopportati in attesa del varco utile a piazzare il montante che possa incontrare il mento, la mascella di chi si ha di fronte. A metà della terza ripresa era andato giù, il coreano, con l’aria di poterci anche restare: lo aveva poi destato il conteggio, restituendolo fino alla fine alla girandola dei colpi che si sarebbero somministrati a vicenda. Entrambi presagendo che non sarebbero stati più loro stessi, sul quadrato, nel modo in cui erano riusciti ad esserlo per tutte le riprese di quel confronto. E Milano incoronava il suo re, dopo che lo aveva già cinto di un affetto che, quello no, non sarebbe mai trascorso. Perché se ne vanno i titoli, si perdono prima o poi le cinture, si sfilano via dal corpo le doti più fulgide; ma l’amore del pubblico a cui il pugile ha consegnato se stesso, senza risparmiarsi nemmeno un secondo, resta inciso nel marmo della gratitudine. Ed è difficile anche soltanto immaginarlo, lo stadio di San Siro, oggi, che si riempie per un incontro di boxe allo stesso modo che per un derby o una partita contro la Juventus. Ma quel 26 maggio del 1968 non poteva che andare così, al botteghino come nelle case di milioni di italiani che con trepidazione soffiavano alle spalle di Sandro Mazzinghi, l’uomo e l’atleta che non aveva fatto altro che rimanere fedele a se stesso, alla propria fatica e al proprio, irriducibile, modo di essere, di stare al mondo, che era già un modo di combattere. E pur di stare nelle prime file facevano carte false i Vianello, i Tognazzi, i Mike Bongiorno, i Walter Chiari, quest’ultimo anche buon amico di Mazzinghi, oltre che tifoso.
E in fondo la vita stessa è tutta un giro di boa e quando ci si trova a invertire la rotta vuol dire che si è fatta la scelta più naturale possibile, vale a dire quella di sopravvivere. Come tante volte Sandro Mazzinghi era già sopravvissuto, alla Storia di tutti e a quella sua; alla fame che non dava tregua negli anni della Seconda Guerra mondiale, durante i quali avrebbe imparato a desiderare la bicicletta da corsa che i suoi, nei primi anni del Dopoguerra, non gli avrebbero comprato, perché non se la potevano permettere. Ma quando inforcava quella degli altri, era veloce al punto tale da essere promettente, sui pedali: riusciva a stare appresso ai primi ciclomotori, quelli con la cilindrata più piccola. E un giorno aveva anche conosciuto Gino Bartali, che gli era sembrato campione anche nei modi, nella semplicità.
E aveva dovuto, prima che potuto, sopravvivere anche alla pioggia di una sera nel cuore dell’inverno del 1964, Sandro Mazzinghi, sposo di Vera da meno di due settimane. Tornavano in macchina da una serata di rappresentanza, lui aveva perso il controllo, a causa del fondo viscido e della pioggia battente: la vettura contro un albero, lui proiettato fuori dall’abitacolo. Lei morta sul colpo. Il vuoto nella vita, se la si poteva ancora definire tale, soltanto qualche mese dopo essere diventato Campione del mondo per la prima volta, quando aveva sconfitto Ralph Dupas il 7 settembre del 1963, atterrandolo alla nona ripresa. Erano trascorsi soltanto due anni dal suo debutto come professionista. L’incidente gli aveva lasciato una frattura del cranio e danni al labirinto auricolare, per quanto riguarda i danni corporali. Quelli dell’anima soltanto facendo appello alla propria tempra avrebbe, nel tempo, imparato a ripararli. Mai del tutto, s’intende, ma quel tanto che bastava per continuare a vivere. Per tornare a combattere.
E sulla via del suo ritorno, oltre che della sua rinascita, Sandro Mazzinghi trova il nome e la storia di Nino Benvenuti. Uno stile agli antipodi, un modo differente di concepire la battaglia, di muoversi, di portare i colpi. Si incontrano due volte, nel 1965, la prima a giugno, a San Siro, davanti a quarantamila spettatori, un po’ meno di quelli che Mazzinghi avrebbe mobilitato contro Kim, come sappiamo.
La seconda volta, per la rivincita, al Palazzo dell’Eur, a Roma. E’ in entrambi i casi la veemenza di Mazzinghi a fare il match, con la premessa che vanno in scena innanzitutto due profili caratteriali agli antipodi, sotto gli occhi di un’Italia divisa dal tifo e dal gradimento verso quello dei due che meglio rispecchia l’indole di coloro che lo scelgono come beniamino. Apollineo Benvenuti, nel profilo e nella strategia, razionalità infusa nella consueta condizione fulgida; dionisiaco Mazzinghi, nel suo voler trascinare il confronto nella persistenza della lotta, sulle ali di una furia che prepondera sulla sua stessa condizione atletica, visto che quando arriva la data del primo confronto non ha, forse, smaltito del tutto i postumi dell’incidente che gli aveva portato via mezza vita. Solo mezza? A rispondere potrebbe essere soltanto il grande cuore di Sandro, che nel mezzo della sesta ripresa lascia aperto lo spiraglio per il bacio che il guanto di Benvenuti gli stampa sulla punta del mento. Le luci di San Siro restano accese soltanto per il triestino, a Mazzinghi resta il tempo delle recriminazioni sulla data del match, arrivato troppo presto per la tabella di marcia del suo recupero definitivo. Anche la voglia di rivalsa gli resta, sulla quale durissimamente lavora in vista del match di ritorno nella Capitale.
Se la prima volta aveva avuto di che lamentarsi per la tempistica, alla fine del secondo confronto, durissimo e protrattosi fino all’ultimo, avrà di che maledire per il resto della vita i criteri dei giudici, i loro cartellini, il punteggio soltanto alla fine sbilanciatosi verso Benvenuti. E soltanto da anziani, ottuagenari, è possibile dire che abbiano sepolto definitivamente l’ascia di guerra dei loro botta e risposta: a onor del vero bisogna precisare che è sempre stato Mazzinghi a soffiare sul fuoco della polemica, addirittura anche dopo un pranzo nella sua tenuta con Nino Benvenuti ospite d’onore; a onor del medesimo vero è impossibile non riconoscere all’uomo di Pontedera perlomeno una parte di ragione. Quella ragione che i lottatori come Sandro Mazzinghi, con i guantoni o senza, hanno sempre dovuto procacciarsi con più evidenza rispetto agli altri; per la durezza del tempo in cui sono venuti al mondo e per l’estrazione sociale che li aveva fatti crescere e venir su come uomini con il supporto delle proteine semplici dei fagioli, dei ceci essiccati, delle lenticchie con cui i contadini del circondario ricompensavano sua madre per i suoi servigi di materassaia. Le banconote chi le vedeva mai. Anche per questo, una volta appesi i guantoni, Sandro Mazzinghi i soldi li avrebbe sempre amministrati con profitto, a differenza di tanti suoi colleghi. Ecco perché, quando tutto doveva ancora cominciare e cominciare per caso, a fare la differenza era stata un po’ di carne, quella che poi sarebbe diventata una delle facce delle sue privazioni di atleta, una volta iniziata quella fase della sua vita in cui, tra le altre cose, gli sarebbe capitato di vedersi arrivare all’angolo Ray Sugar Robinson, proprio lui, che si complimentava per il suo stile e gli consigliava di andarsene a combattere negli Stati Uniti, dove in ragione della sua tempra sarebbe subito diventato un idolo.
Perché un giorno aveva accompagnato il fratello Guido, più grande di lui e pugile più che decente (Campione italiano, podio a Helsinki), ad assistere a una riunione di dilettanti. Non si era presentato un novizio, bisognava trovare un sostituto e chiesero a Guido Mazzinghi se, per caso, suo fratello fosse disposto a prestarsi, tendendo la guardia alta per non farsi troppo male.
– Cosa me ne viene in tasca? – aveva chiesto Sandro.
– Vino, bistecca, pane, contorno, frutta… –
– Si può fare – aveva risposto Sandro Mazzinghi da Pontedera, Rione Belladimai.