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Saint-Denis, 7 anni dopo: la Francia calciofila e il bisogno di un multiculturalismo sostenibile

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Saint-Denis, 7 anni dopo: la Francia calciofila e il bisogno di un multiculturalismo sostenibile

Il 13 Novembre 2015, il mondo intero veniva scosso dagli attentati del Bataclan e dello Stadio Saint-Denis durante la partita Francia-Germania. A distanza di sette anni, la ferita e la paura sono ancora vive. Abbiamo analizzato cosa non ha funzionato nel modello multiculturale francese, da una parte fondamentale per il calcio transalpino, dall’altro specchio di un divario sociale che negli anni si è fatto sempre più evidente.

La gloria del 1998

Saint-Denis, 12 luglio 1998. Gli 80.000 spettatori dello Stade de France esplodono in un impressionante boato corale al triplice fischio del marocchino Said Belqola, che sancisce la vittoria della nazionale padrona di casa ai campionati mondiali di calcio disputatisi, per la prima volta dopo sessant’anni, sul suolo francese. Francia-Brasile 3-0, è l’apoteosi della storia calcistica francese, nonché l’inizio di un quinquennio di assoluta estasi per Les Bleus, che vivranno un ciclo contraddistinto da un’impressionante grandeur conquistando anche l’Europeo del 2000 e le Confederations Cup del 2001 e del 2003.

Il tripudio in Piazza

In quell’indimenticabile notte di luglio, la doppietta di Zinedine Zidane e il sigillo di Petit negarono alla nazionale verdeoro il bis mondiale e regalarono alla Francia e alla città di Parigi un ricordo indimenticabile: la capitale visse nelle ore successive alla conclusione della partita ore di tripudio, le sue strade vennero letteralmente invase dai cittadini in festa per la prima, storica ascesa della Francia ai vertici del calcio planetario. La folla strabocchevole che si riversò per i boulevard, composta da oltre un milione di persone, era di dimensioni addirittura maggiori di quelle che si erano radunate per le strade di Parigi in due eventi simbolo per la storia della città nel XX secolo, ovverosia la festa per la Liberazione, celebrata il 26 agosto 1944 dopo l’ingresso nella città dei generali De Gaulle e Leclerc, e le roventi giornate del “Maggio Francese”, che nel 1968 diedero il via alla storica stagione della contestazione giovanile. I parigini, e più in generale tutti i francesi, esultarono all’impazzata per il trionfo di una squadra irripetibile, che stupì il mondo per la sua eterogeneità etnica. La squadra del 1998, infatti, schierava al suo interno numerosi atleti nati nelle ex colonie o da famiglie immigrate in Francia tra cui si segnalarono fuoriclasse come Thuram, Karembeu, Vieira, Desailly e il protagonista assoluto della finale di Saint-Denis, Zinedine Zidane.

Le cronache di quell’estate (come in quella recente del 2018 con i Mondiali russi) non mancarono di sottolineare il grande significato insito nel trionfo conseguito dai multietnici Bleues, valorizzato come il simbolo del modello multiculturale, dell’integrazione andata a buon fine, dell’accoglienza donata dai francesi ai figli dell’ex impero coloniale e ascritto dunque a successo “politico” dai governanti dell’epoca, compreso lo stesso presidente Jaques Chirac, desideroso di presentare dinnanzi al mondo una Francia capace di svilupparsi autonomamente, forte sul piano internazionale e salda al suo interno. Discorsi che si sono ripetuti anche tre estati fa quando Mbappè e gli altri hanno alzato la Coppa più bella nei Mondiali di Russia 2018.

L’altra faccia della medaglia

Dietro la patina dorata del successo mondiale, il modello multiculturale della società francese avrebbe di lì a poco rivelate le sue principali lacune, che iniziarono a manifestarsi in tutta la loro ampiezza quando la recessione economica, le prospettive politiche incerte e numerose tensioni sociali iniziarono a far sorgere le prime, sensibili frange antimmigrazioniste nel panorama politico e, soprattutto, insorse il grande problema dello sradicamento: decine di migliaia di immigrati, infatti, riscontrando difficoltà nell’accesso al mondo del lavoro, all’istruzione e ai servizi di base si ritrovarono isolati, costretti a vivere ai margini delle società, in quartieri di periferia squallidi e poco ospitali come le tristi banlieue di Parigi e Marsiglia che nel 2005 furono teatro di violenti scontri tra le forze dell’ordine e migliaia di manifestanti che agognavano più attenzione da parte delle istituzioni. E che negli scorsi anni si sono ripetuti nelle maggiori piazze francesi con protagonisti quei gilet gialli che anche, e soprattutto, dalle periferie hanno attinto persone e malcontento diffuso.

Il declino dei Bleus

Anno dopo anno, anche la nazionale di calcio francese cessò di essere l’emblema del multiculturalismo e, da vero specchio della società, iniziò a manifestare le grandi difficoltà con cui doveva nello stesso tempo raffrontarsi l’intera nazione: i Mondiali 2010 suggellarono la crisi, la squadra transalpina vicecampione del mondo in carica si squaglia, la lite tra Nicolas Anelka e il commissario tecnico Domenech apre la strada alla frattura interna al gruppo, che dopo essersi progressivamente diviso per una torbida storia di spionaggio interno e soffiate ai media, giunse a polarizzarsi su gruppi “etnici”. I galletti abbandonarono anzitempo l’edizione sudafricana della Coppa del Mondo, ultimi nel proprio raggruppamento dopo aver racimolato un solo punto.

Un problema sociale

Nel frattempo, in Francia la crisi economica esacerbava il divario sociale, rendendo ancora più difficile per vaste sacche della popolazione e per una percentuale elevatissima di immigrati di prima e seconda generazione fuoriuscire dall’indigenza, aspirare a un lavoro sicuro, integrarsi con successo nella vita della comunità francese. Le banlieue divennero terreno fertile per uno strisciante risentimento, si popolarono di donne e uomini sradicati, emarginati e privi di qualsiasi punto di riferimento, incapacitati a riconoscersi nella Francia o in qualsiasi altra nazione, meno restii di coloro che avevano conseguito maggior fortuna a ignorare certi messaggi inquietanti, recanti con sé odio, disprezzo e rancore.

Terrorismo in Francia

Essi non sono innati nell’animo umano, germinano in condizioni ambientali a loro propizie, ma una volta venuti ad esistenza la loro crescita è brutale, sconvolgente, inarrestabile. Lo sanno bene i leader del movimento terroristico internazionale, divenuti abili propagandisti e capaci di attrarre, con i loro messaggi deliranti e blasfemi, centinaia di giovani europei, in gran parte figli sradicati di immigrati, su una strada oscura attraverso allettamenti e martellamenti psicologici di ogni genere. Le banlieue furono interessate massicciamente dal fenomeno, la cui gravità fu compresa dai francesi solamente nel 2015, quando i due clamorosi attentati che a distanza di pochi mesi insanguinarono Parigi mostrarono al mondo la vulnerabilità della Francia di fronte al dilagare del terrorismo. Tanto nell’assalto alla redazione di Charlie Hebdo quanto nella carneficina del 13 novembre gli esecutori furono cittadini francesi e belgi, reclutati dai gruppi terroristici nella massa di umanità sradicata abitante le periferie degradate delle città.

L’attentato dello Stade de France

E lo Stade de France venne nuovamente coinvolto nella cupa serata di novembre, quando un’esplosione squassò l’esterno dell’arena verso le 21.20, dando il via all’impressionante serie di attacchi coordinati che causerà 130 morti nella capitale francese. Saint-Denis, ebbe su di sé gli occhi del mondo impietrito per la carneficina consumatasi mentre, per motivi di sicurezza, l’amichevole Francia-Germania veniva portata a compimento dopo l’evacuazione dell’allora presidente Hollande. L’attacco terroristico del 13 novembre ha rivelato le conseguenze estreme a cui hanno portato quindici anni di mala gestione di due problematiche di primaria importanza: l’integrazione delle comunità di immigrati e il dilagare del terrorismo integralista. Il secondo processo ha tratto giovamento dalle gravi difficoltà del primo, mentre la Francia stentava a riconoscere i limiti intrinseci al suo multiculturalismo nel momento in cui le serie problematiche dovute alla crisi economica iniziarono a manifestarsi in tutta la loro veemenza.

Il paradosso francese

A due capi estremi, il 12 luglio 1998 e il 13 novembre 2015 ci parlarono dello stesso fenomeno. La Francia mondiale dimostrò a una nazione intera quanto lontano si potesse andare se le energie positive, lo spirito di gruppo e la volontà di superare le reciproche divergenze fossero state messe a disposizione di un obiettivo comune. La tragica notte del novembre 2015, invece, racconta quanto gravemente la mancata comprensione di dati fenomeni e il disinteresse verso una significativa fetta della popolazione (atteggiamento condiviso anche da altri paesi, Belgio in prima fila, per anni) abbiano potuto generare fenomeni di portata tanto tragica. Lo Stade de France è il tratto d’unione tra queste giornate storiche, seppur per motivi drammaticamente diversi, per la Francia contemporanea, un monumento che oramai trascende il suo ruolo di stadio ed è già un simbolo di eventi che faranno sentire la loro eco negli anni a venire.

La speranza finale è che la ragionevolezza trionfi sempre. Malgrado la nuova direzione che Macron ha mostrato di voler intraprendere e il malcontento generale delle classi meno abbienti che vivono in prima persona il divario sociale, il sogno è che la Francia dei prossimi anni torni finalmente a essere un punto di aggregazione e attrazione per coloro che sono in cerca di una nuova patria, facendo sì che il degrado, lo sradicamento e l’abbandono delle banlieue non diventino altro che retaggi del passato. La folla di tifosi che, evacuata dallo Stade de France, cantava La Marsigliaise, splendidamente replicata pochi giorni dopo dal pubblico di Wembley, era e rimane l’immagine più bella con cui controbattere al Terrore, all’oscurantismo, al rancore. Essa esprime una speranza, un voto tanto semplice da esprimere quanto arduo da realizzare: possano la Libertà, l’Uguaglianza e la Fraternità trionfare davvero, una volta per tutte. E la vittoria mondiale in Russia poteva essere un punto da cui ricominciare. Di nuovo. La storia recente ci racconta, invece, un paese che, se possibile, in questi sette anni ha visto la fettuccia tra classi sociali allargarsi e il malcontento farsi strada sempre più imponentemente, accompagnata da una tensione religiosa che proprio negli ultimi anni ha palesato tutta la sua pericolosità.

Ripartiamo da lì, da quel 13 Novembre 2015. Dallo Stade de France, che nella notte più tragica, ha mostrato che un’altra via è possibile.

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