Sadio Mané, i pantaloncini più belli che (non) avevo
– Dai un pesce a un uomo e lo nutrirai per un giorno; insegnagli a pescare e lo nutrirai per tutta la vita. – Confucio
Di fronte a certe storie, forse c’è bisogno di ripensare al valore delle cose; di fronte a certi uomini, sarebbe utile rivedere il significato delle parole.
Gli chiesero come pretendesse di sostenere il provino con quelle scarpe così malridotte, con quei pantaloncini a brandelli. Per tutta risposta, lui fece presente che quegli indumenti da gioco erano il meglio che possedesse, del resto li aveva scelti apposta, al momento di affrontare di nascosto dalla famiglia il viaggio verso nord per arrivare a Dakar, in quella specie di Accademia per calciatori bambini. Génération Foot, dove l’osservatore anziano dopo qualche tocco cominciò a stropicciarsi gli occhi. Più o meno come quei telespettatori e quei cronisti che molto tempo dopo gli avrebbero visto in mano quel cellulare obsoleto con il vetro del display scheggiato. La storia la conosciamo tutti; forse, però, quasi nessuno di noi si è soffermato a rifletterci; a indagare il valore delle cose oltre le cose stesse, che prese per quello che sono non contano nulla, finché non si conosce la vicenda degli individui che hanno dietro. Ecco, forse, perché quei calzoncini erano davvero il meglio, al confronto con tutto il materiale tecnico della Nike che veste il Liverpool, che lui oggi potrebbe utilizzare e gettare via con la frequenza con cui si usano e buttano i Kleenex.
Sadio Mané da Sédhiou, Senegal, più o meno quattrocento chilometri a sud della capitale, raggiunta quel giorno all’insaputa di una madre e di tanti fratelli che di sicuro in un pallone non vedevano una possibilità, anzi: forse un pericolo, certamente un fastidio; a voler essere buono, una pericolosa distrazione rispetto ai desideri di istruzione e di crescita nella fede islamica che avevano, o pensavano di avere, per quel loro figlio che calciava ogni cosa, anche i sassi, restituendo agli oggetti rotondità che spesso non avevano.
Di certo da suo padre, Imam del villaggio di Bambali, ha ricevuto tutti gli insegnamenti possibili, compreso quello che non avrebbe voluto apprendere, perché dal genitore ha imparato che in Africa si può morire per una banale infezione all’intestino, quando non c’è un presidio medico nel raggio di troppi chilometri e quando non hai facoltà di scegliere l’acqua che bevi.
Tutto sappiamo della sua parabola calcistica in occidente, cominciata a Metz e passata per Salisburgo; nel frattempo fattasi grandiosa e tuttora in corso; del fatto che ha vinto e rivinto, del suo essere diventato Campione d’Inghilterra, d’Europa, del mondo con i Reds; della sua tripletta all’Aston Villa in meno di tre minuti quando vestiva ancora la maglia del Southampton; di un compendio di doti tecniche e acrobatiche viste poche altre volte, soprattutto a quelle velocità.
È del suo concetto di occidente che dovremmo interessarci: del modo di elaborare i privilegi che gli hanno elargito il suo talento e della scelta, l’unica per lui naturale e possibile, di metterli al servizio di chi non ne possiede per nulla il concetto, così come niente altro possiede e non ha mai esercitato la facoltà di desiderare qualcosa.
Termini di paragone? Preferiamo dire che con lui i paragoni hanno termine, nel senso che non può essere equiparato, in quest’ambito, ad altri grandi africani che hanno avuto fama e successo nel calcio, pur se anche loro si sono spesi per cause umanitarie: non a George Weah, che si è impegnato per la sua Liberia al punto da diventarne un rappresentante politico al massimo grado; nemmeno a Didier Drogba, riferimento ormai anche extracalcistico in Costa d’Avorio. Perché questi hanno fatto essenzialmente beneficenza, anche con un raggio d’azione e di importanza sempre più ampio, ma sempre e comunque esibendo il punto di vista di chi, ormai totalmente occidentalizzato, adesso può fungere da benefattore presso i suoi connazionali rimasti con lo svantaggio, addosso, di essere nati nella parte sbagliata del mondo. Con loro non si esce dallo schema del ricco che omaggia i poveri per mezzo della sua munificenza. Operazione comunque meritoria, pubblicizzata o meno che sia.
Però Sadio Mané fa un’altra cosa, anche lui certamente ricco, privilegiato, inserito da star nel mondo occidentale ma, forse, non occidentalizzato – ecco che torna il termine – come le altre stelle provenienti dal cosiddetto sud del mondo. Perché Mané non fa beneficenza, non elargisce semplicemente soldi; ha il progetto, già in atto per tanti senegalesi, di redistribuire le opportunità che lui ha avuto in ambito sportivo e che hanno portato anche ai suoi fantasmagorici guadagni. Il suo è un vero è proprio percorso di welfare, un cammino di sussistenza che prevede l’attribuzione di un reddito (non di cittadinanza) che ripristini per un numero elevato di famiglie l’approdo a una soglia di dignità dopo aver raggiunto la quale per tanti senegalesi sarà possibile ipotizzare un futuro differente, un’opzione diversa dall’unica e sola che a quelle latitudini prevede l’utilizzo come braccianti per un’agricoltura di sussistenza.
Francamente, attraverso la storia di questo ragazzo straordinario dentro e fuori dal rettangolo, comprendiamo appieno ciò che scrisse Karen Blixen, una che l’anima più intima dell’Africa la seppe comprendere e decodificare meglio degli africani stessi:
– L’Africa e l’Europa hanno della giustizia due idee diverse, incompatibili fra loro. Per l’africano c’è un solo modo di controbilanciare le catastrofi dell’esistenza: dare qualcosa in cambio. –
Con punteggiatura di tanti gol, quasi tutti bellissimi, all’Arsenal, allo United, al City, al Tottenham e a tanti altri. Ma questo, almeno stavolta, ci sembra un dettaglio.