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Ruotate, scuse e archiviazioni. Ora però la Formula Uno pensi solo a correre

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Il clima del campionato di F1 è salvo. La decisione della FIA di non sanzionare Sebastian Vettel per la ruotata a Lewis Hamilton nel Gran Premio d’Azerbaijan garantisce innanzitutto un’atmosfera salubre al mondiale. Avvincente e combattuto proprio per il duello tra il tedesco e l’inglese, che salvo improvvisi stravolgimenti tecnici si protrarrà fino all’ultima gara, questa stagione è destinata a rilanciare l’immagine della F1 e l’interesse del pubblico nei suoi confronti. Un obiettivo al quale tiene anche Liberty Media, la nuova proprietaria del Circus. Ma perché ciò avvenga, occorre che la competizione sia decisa dalla pista e non dalla giustizia sportiva.

Un provvedimento disciplinare aggiuntivo (per esempio, squalifica di un gran premio o cancellazione dei punti di Baku) allo stop and go inflitto al ferrarista durante la corsa, che ha scontato la sua colpa con dieci secondi forzati al box che gli hanno impedito di vincere, non avrebbe avuto molto senso. Sarebbe stata una pena sproporzionata rispetto al danno – la ruotata non ha eliminato Hamilton dalla gara – e si sarebbe innescato un inasprimento climatico del mondiale dall’Austria fino ad Abu Dhabi. Una caccia alle streghe in crescendo, dove ogni azione sarebbe stata valutata con toni da Santa Inquisizione, tra richieste di abiura per gli eventuali centimetri di pneumatico sulla striscia bianca della pit exit line e proposte d’eresia per telemetrie dai tracciati indecifrabili o per sorpassi con troppe correzioni al volante. In poche parole, una sorta di maccartismo applicato ai motori. Come nemico, non sospetti di simpatie comuniste bensì le manovre passibili di penalità del rivale diretto nella corsa al titolo.

Tutto questo però è stato evitato dalla decisione di Parigi, nella quale ha avuto un ruolo importante l’atteggiamento di Vettel. Se non è stato sanzionato, è perché ha chiesto scusa, riconoscendo il suo errore e impegnandosi per il futuro in una campagna di attività educative nelle categorie minori della federazione (F2, F3 European Championship e un campionato di F4). A Place de la Concorde non avevano digerito l’episodio di Baku perché danno d’immagine per la F1 e, in secondo luogo, per le loro campagne sulla sicurezza stradale. Se il quattro volte campione del mondo avesse invece difeso la sua manovra, avrebbe rischiato un intervento del Tribunale Internazionale della FIA con ripercussioni sul campionato. Perché su Maranello, oltre un’eventuale penalizzazione, sarebbe calata anche una gabbia di tensione che avrebbe condizionato il resto della stagione, poiché più si è sotto pressione e più si è soggetti allo sbaglio.

Gesto lodevole perché sempre più raro, nello sport come nel quotidiano, il pubblico mea culpa di Vettel ha ricordato anche che tutti commettono degli errori. Non solo chi si macchia di una reazione esagerata. La ruotata non è saltata fuori dal nulla, ma è stata preceduta da un’altra azione, anche se non era un brake testing (prova del freno). E per chi fa informazione, e dunque ha il compito di raccontare la realtà nella sua interezza con la verità come obiettivo finale, si tratta di un fatto che non si può lasciar nell’ombra o rendere esente da analisi. Altrimenti sarebbe un po’ come criticare la testata di un calciatore a un avversario, soffrendo però d’improvvisa amnesia verso ciò che l’ha provocata.

Ma l’adozione di due pesi e due misure è un metro valutativo improprio e mal conciliante anche con lo spirito sportivo che, oltre al gioco pulito dei protagonisti, vuole che a parlare sia il campo di gara e non la polemica. Siccome la federazione ha chiuso il caso, dall’Austria in poi a team, piloti, media e tifosi conviene raccogliere il tweet di Button post Baku: “Quel che ha fatto Vettel è sciocco, ma guardiamo avanti”. Spazio allora nei discorsi alla pista, alle novità aerodinamiche, alle mescole delle gomme, agli assetti e ai sorpassi. Il mondiale va verso la sua metà, entusiasma come non accadeva dal 2012 (lo stoicismo di Alonso opposto al gigantismo Red Bull), che vinca il più bravo e non il più furbo.

Classe 1982, una laurea in "Giornalismo" all'università "La Sapienza" di Roma e un libro-inchiesta, "Atto di Dolore", sulla scomparsa di Emanuela Orlandi, scritto grazie a più di una copertura, fra le quali quella di appassionato di sport: prima arbitro di calcio a undici, poi allenatore di calcio a cinque e podista amatoriale, infine giornalista. Identità che, insieme a quella di "curioso" di storie italiane avvolte dal mistero, quando è davanti allo specchio lo portano a chiedere al suo interlocutore: ma tu, chi sei?

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