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Roma, l’urlo dei ragazzi del ’42: “Non dimenticateci!”

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“Roma sul petto tuo vedo brillar, quello scudetto saputo conquistar, e io tifoso canterò, che mai a te, ti lascerò, perché dai gioia a me, perché tu giochi ben!”. È la voce dello Stadio Nazionale del PNF, che riadatta la tedesca “Lili Marleen”, aria molto in voga ai tempi, per ringraziare i propri beniamini. È il 14 giugno 1942, e la Roma ha appena battuto il retrocesso Modena per 2-0. Cappellini e Borsetti hanno consegnato nelle mani del presidente Bazzini, imprenditore e alto funzionario dell’Agip, il primo scudetto della storia giallorossa. Il profeta Schaffer, figlio della prodigiosa Ungheria di inizio secolo, ha colpito nel segno, esattamente come quando calcava i campi da giocatore, infiammando le folle a suon di gol. Una cavalcata storica, segnata dalla lotta a tre con il Torino e il sorprendente Venezia di Loik e Mazzola.

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Roma – Modena, 14 Giugno 1942

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I bombardamenti sconvolgono il Nord Italia, e il calcio per migliaia di persone rischia di essere uno dei pochissimi momenti di svago, da frapporre tra il terrore della morte e la consapevolezza di un’ondata di povertà e miseria che da lì a poco travolgerà l’intera Penisola. Molti calciatori vengono richiamati alle armi, e il torneo passerà alla storia come il più “tardivo” di sempre. Col primo fischio d’inizio che avverrà soltanto il 26 ottobre.

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Non ci sono video di quel campionato. Non ci sono le maglie, non ci sono i cimeli. La guerra ha spazzato via quasi tutto. Ha colpito in maniera infame anche la memoria di ciò che aveva reso quei ragazzi eroi per qualche giorno e i loro tifosi spensierati cittadini del mondo, in una Roma presto “città aperta”,  teatro di violenze e infamie sulla sua popolazione. Certo, i ricordi si sono tramandati. Perché i ragazzi di Schaffer (che saluterà il mondo nel 1945, anche lui vittima di un conflitto ahinoi più grande di qualsiasi sfida calcistica) quelle maglie se le sono tatuate sul cuore. Prendete uno come Naim Kriezu, venuto, per studio, da Giacovizza. Kosovo. Allora Albania, terra millenaria fortemente legata all’Italia. Quel ragazzo arrivato dai Balcani aveva qualcosa di speciale. Era la futura ala sinistra della Roma. Svelto e letale, come già aveva dimostrato in patria, con la maglia dell’SK Tirana. Se ne accorsero presto all’ombra del Colosseo. Il direttore sportivo Biancone lo andò a prendere direttamente alla Farnesina, chiedendogli di sostenere un provino a Campo Testaccio. Da Monte dei Cocci a Via del Tritone 125 (dove era sita la sede dell’AS Roma) il passo fu breve. Un’emozione infinita per Kriezu, che ammetteva: “Prima di allora gente come Masetti l’avevo vista soltanto sul Calcio Illustrato”.

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Naim Kriezu

Per capire bene chi fossero i campioni del ’42, occorre pensare a gente come Ermes Borsetti, centrocampista nato a Vercelli. Dalla terra delle risaie, dal sorriso austero delle mondine, a una città chiassosa e poliedrica di suo. Lo trovavi a giocare a calcetto, nella “sua” Testaccio, a ottant’anni suonati. Una passione non conosce età. “Finché il fisico regge, io ci sono”. Un’epoca in cui vivere lo sport coincideva con una dovuta signorilità. Chi li ha incontrati, prima della loro morte, è pronto a giurare di preferire cento volte una chiacchierata con questi perenni giovincelli, rispetto al campione odierno. E non ci fermiamo alla demagogia, ma pensiamo a quello che l’uomo ci può dare. Lezioni di vita. Lucidità e carica. Del resto è lo stesso Borsetti a fornire un singolare aneddoto legato all’indimenticato Dino Viola e a una gara giocata a Livorno, quando il futuro presidente si presentò direttamente negli spogliatoi, qualificandosi come ufficiale di aereonautica di stanza nella città labronica e grande tifoso giallorosso, giunto all’Ardenza per sostenere la squadra. Un episodio sintomatico riguardo a quel senso di romanismo che seppe poi trasmettere, recepire e fondere con i “suoi” devotissimi tifosi.

Le storie del passato, si sa, assumono giocoforza una piega romantica. Soprattutto se di mezzo ci sono conflitti, vite spezzate e momenti bui per la storia dell’umanità. Luigi Nobile da Tursi, provincia di Matera, arcigno difensore, chissà quante volte lo avrà raccontato. Lui, lo studente di medicina che rinunciò parzialmente al calcio per aiutare il suo Paese rispondendo innanzitutto alla vocazione di medico. Ci piace immaginare, però, che il Dio del calcio esista. Nonostante il suo impegno in ospedale, riuscì a scendere in campo in un’occasione: contro quel Torino primo rivale per il titolo. Questo lo consegnò alla storia come Campione d’Italia a tutti gli effetti. Anche lui meritevole di quel ringraziamento immaginario che pure i tifosi nascosti sotto il vecchio Campo Testaccio, adibito a rifugio antiaereo, non dimenticarono di lanciare alle casacche giallo ocra e rosso pompeiano.

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Roma – Torino

Chi non conosce il “Fornaretto” si metta in riga e si volti dalla parte opposta. Amedeo Amadei da Frascati, con i suoi 101 gol in maglia giallorossa è una delle figure più legate al club e all’immaginario collettivo. “Amadei”, vedi scritto in diversi forni dei Castelli Romani. “Ma lo sai che questo è della famiglia del giocatore?”. Chi è di Roma si figurerà perfettamente la scena, chi vive al di fuori della realtà capitolina immagini che quando Amadei, nel dopoguerra, fu trasferito all’Internazionale per ripianare i profondi debiti che attanagliavano la Roma, chiese espressamente di non essere schierato contro i giallorossi qualora gli stessi fossero stati in grosse difficoltà. Come andò a finire? Scese in campo ma, per sua stessa ammissione, disputò il match ai minimi termini. Fortissimo il legame con Schaffer, di cui raccontava spesso un episodio: “Quando ero ragazzo spesso in allenamento mi divertivo a fare le rovesciate – diceva – una volta, col suo italiano stentato, mi chiese se sapessi dove indirizzavo il pallone. Risposi di no, così lui mi chiese cosa le facessi a fare? Mi colpì molto, perché mi fece capire che sacrificavo la concretezza. È un insegnamento di cui ho fatto tesoro”. Il “Fornaretto” si è spento nel 2012, a 92 anni. Dopo esser entrato nella Hall of Fame dell’AS Roma. Lui, il più grande attaccante della sua epoca, che dal cielo ancora segue lo scatto di Coscia sulla fascia, per insaccare il pallone.

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Amedeo Amadei

La Hall of Fame succitata è opera della società americana. Un qualcosa di importante per la conservazione di una storia troppo spesso bistrattata dallo stesso club. Gli “eroi” del 1942, infatti, vennero dimenticati per tantissimi anni, e fu proprio quel Dino Viola tifosissimo a riportarli in auge una volta salito alla presidenza. L’uomo che veniva dalla Lunigiana li premiò con una tessera benemerita e ne tenne sempre in alto il ricordo, magnificandone i meriti per aver salvato la Roma nel periodo post bellico, quando giocatori e staff si autotassarono per mantenere in vita la società.

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Tessera Associativa As Roma

Quando si vinse il secondo scudetto Viola invitò alla festa tutti i giocatori del 1942, ricordo perfettamente i simpatici sfottò che volavano tra i campioni vecchi e nuovi”. Questo è uno dei primi ricordi di Marco, figlio di Sergio Andreoli, terzino sinistro della prima Roma tricolore, giunto alla corte di Bazzini su indicazione di Fulvio Bernardini nel 1941, per 25.000 Lire. La coincidenza che vide Acerbis partire per il fronte come medico, gli regalò la possibilità di laurearsi campione da protagonista. Di aneddoti in casa Andreoli ne sono circolati tanti e Marco li porta tutt’oggi nel cuore e nella mente: “Io sono nato al Policlinico Italia, nella clinica del medico della Roma Zappalà – racconta – col fiocco giallorosso”.

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Sergio Andreoli

Un calcio d’altri tempi: “Papà mi diceva sempre che dopo lo scudetto è tornato al suo paese (Capranica, in provincia di Viterbo n.d.r.) per festeggiare con i genitori davanti a un piatto di pasta e fagioli – racconta – per quanto riguarda il campo, ha giocato sia col metodo che col sistema, era un terzino irruento e per questo piaceva molto ai tifosi, anche se non era una persona dall’indole cattiva. Si faceva rispettare – scherza – ma tra i giocatori c’era un rapporto cavalleresco, basti pensare che si davano del “voi” e che, quando militava nel Perugia, incontrando Masetti in un’amichevole fu così emozionato che nel calciare il piede gli rimase incastrato in una zolla. Oppure come non citare la sua unica presenza con la Nazionale allenata da Pozzo, a Verona. Me lo tenne nascosto – sorride – finché non trovai una maglia dell’Italia tra le sue cose. Mi raccontò che alla fine di quel match i dirigenti federali gli dissero che doveva scegliere tra il compenso e la maglia: scelse la seconda. Questo dà l’idea dello spirito che avevano i giocatori del tempo”.

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Guido Masetti, portiere storico della Roma tricolore

Un rapporto profondo con la Roma. “Ha fatto 209 presenze e 9 gol con la maglia giallorossa afferma – l’attaccamento era sanguigno, tanto è vero che uno dei momenti più amari fu quando la società lo liberò dal cartellino senza preavviso. La particolarità di quei tempi – continua – è che i giocatori frequentavano la città, ritrovandosi in vari posti del centro storico. Medici come Zappalà e Ceretti andavano direttamente a casa degli atleti il giorno prima della partita. E questo diventava anche un momento conviviale, in cui ci si scambiavano confidenze extra calcistiche. I rapporti andavano ben oltre il campo e durarono nel tempo. Ricordo – svela – che quando ero bambino accompagnavo spesso papà a Ostia, dove tutti gli ex giocatori del 1942 si ritrovavano per mangiare assieme; tornavano tutti bambini, raccontando situazioni e aneddoti di quando erano nello spogliatoio. C’era grande affiatamento”.

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Inter – Roma, stagione 1941/42

Una memoria che, non senza difficoltà, è riuscita fortunatamente a tramandarsi.Quando la Roma mi ha chiamato per rappresentare mio padre alla Hall of Fame, ho provato un’emozione immensa nello sfilare sotto la Sud. È in atto un grande cambio generazionale, e bisogna far attenzione nel mantenere vivo il ricordo. Per chiunque verrà sarà importante mettere in risalto questi personaggi, antesignani di una squadra che storicamente ha sempre avuto al seguito una grande tifoseria”.

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Roma Campione d’Italia 1941/42

E allora immaginate di essere attaccati alle reti dello Stadio Nazionale, con il caldo di giugno che sbattendo sull’erba ne fa sentire tutto l’odore e una voce che annuncia le formazioni. Alzatevi in piedi in segno di riverenza, ecco i Campioni d’Italia del 1942: Guido Masetti, Fosco Risorti, Mario Acerbi, Sergio Andreoli, Luigi Brunella, Luigi Nobile, Giuseppe Bonomi, Renato Cappellini, Aristide Coscia, Luigi Di Pasquale, Mario De Grassi, Aldo Donati, Edmondo Mornese, Paolo Jacobini, Naim Krieziu, Amedeo Amadei, Cesare Benedetti, Ermes Borsetti, Miguel Angel Pantò. Allenatore, il signor Alfred Schaffer.

FOTO: www.asromaultras.com

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