“I tifosi della Lazio meriterebbero molto di più”. Ha detto il presidente della Roma James Pallotta, rispondendo alle presunte insinuazioni del patron biancoceleste, apparse su un articolo di Repubblica a firma Goffredo De Marchis, dove quest’ultimo riportava un discorso origliato presso la buvette del Senato in cui Lotito, parlando dell’affaire Bielsa, sembra aver asserito: “Sabatini gli ha detto di non venire. La Roma non ha né soldi né società”. Una frase, quella del bostoniano, che ha suscitato gli ennesimi interrogativi nelle menti di chi, a Roma, su entrambe le sponde, ha vissuto il calcio sempre in una data maniera. Siamo stati campanilisti, siamo stati tignosi e siamo stati piccoli, per gli schiacciasassi a strisce che nel frattempo contavano i trofei. Ma siamo stati autentici. Tifosi. Beceri a volte, ma passionali sempre. Per noi un presidente che incensa e loda i tifosi dell’altra sponda, fu un qualcosa di impensabile. Fu.
Pallotta da una parte, Lotito dall’altra. Storie diverse, sia ben chiaro. Modus operandi da imprenditore d’oltreoceano da una parte e gestione finto casinista, ma in realtà sin troppo lineare dall’altra. Queste diversità, nelle loro fattispecie, hanno contribuito al distacco della retina nell’occhio di tanti tifosi capitolini. Che oggi non vedono più il calcio come quell’entità popolare e d’orgoglio che li ha resi innamorati di colori, prima che di giocatori, di uomini, prima che di goleador, di stemmi, prima che di flussi bancari, persino di sconfitte, prima che di una distorta sete di successi. Anche oltre tutto e tutti. Forse volendo seguire l’esempio di chi, qualche chilometro più a nord, ha vinto anche perchè “il fine giustifica i mezzi”.
Una piazza Santi Apostoli gremita da migliaia di persone e addobbata di colori biancocelesti, giovedì scorso, ha urlato tutta la sua rabbia verso Lotito. E non è certo il mancato arrivo di Bielsa ad aver provocato l’iraconda reazione dei laziali, semmai solo la goccia che ha fatto traboccare un vaso già stracolmo. Se si ragiona scevri da qualsiasi sfottò, anche il più radicale dei romanisti sa che Claudio Lotito è un’ “anomalia“ che ha colpito casualmente Lazio e, di recente, Salernitana, ma che di rimbalzo, colpisce l’intero movimento calcistico. Diteci voi, ad esempio, se vi pare normale che un solo uomo, nel giro di un mese, sia presente alle partite della Nazionale, in veste di Consigliere Federale e riesca a far traslocare il povero Simone Inzaghi prima sulla panchina dei granata e poi su quella biancoceleste, dopo il niet di Bielsa. Mettendo, de facto, a serio rischio l’autonomia e la regolarità dei campionati (facciamo opera di sarcastica retorica, ma se in questo Paese esistesse il conflitto d’interessi, determinate situazioni non si verificherebbero. E invece il soggetto in questione agisce in piena regola).
No, non sorprende che i tifosi laziali disertino lo stadio. E del resto il suo curriculum basterebbe a ogni appassionato di calcio per darsi al bricolage o al giardinaggio: coinvolto in Calciopoli e inibito per quattro mesi (nel processo penale sarà ovviamente l’italianissima prescrizione a salvarlo), condannato in primo grado a due anni di reclusione per aggiotaggio e ostacolo all’attività degli organi di vigilanza sui titoli del club biancoceleste (ovviamente anche qua la prescrizione arriverà puntuale), senza dimenticare il caso Iodice, su cui Stefano Palazzi aprì un’inchiesta, in cui Lotito affermava che la presenza di piccoli club in Serie A e B come il Carpi o il Frosinone è economicamente deleteria, sparando poi a zero su alcune autorità dello sport italiano, in ultima istanza impossibile soprassedere sul caso Infront e la richiesta di rinvio a giudizio per Operazione Fuorigioco, circostanza che vede coinvolti altri 42 volti noti dell’italico mallone.. A ciò ovviamente va aggiunto il frequente dileggio di tifosi e giornalisti, a Roma come a Salerno. Si va dall’ultima conferenza stampa di Formello, a cui ai cronisti è stato vietato di porre domande (in pieno stile Stasi o Gestapo), all’offesa deliberata e l’intralcio con mezzi non propriamente ortodossi a svolgere un normale lavoro editoriale, proseguendo con un continuo voler puntare il dito contro i tifosi, rei di averlo contestato negli ultimi anni. L’esempio lampante è il Lazio-Sassuolo di due stagioni fa, quando il pubblico si coalizzò per tornare compatto all’Olimpico e prendere di mira il presidente. Risultato? Prezzi dei biglietti raddoppiati. Un po’ come nel ritiro di Auronzo di quest’anno, con amichevoli contro squadre di categorie inferiori prezzate dai 12 ai 15 Euro. La somma testimonianza di come non si tratti di un “manipolo di facinorosi”, ma di un sentimento comune a migliaia di supporter. Appare così più chiaro comprendere il perché in molti gli abbiano affibbiato quel processo di delazializzazione, in grado di fiaccare la passione popolare per il club di Piazza della Libertà. Quando si mischia del veleno in una pozione magica, qual è la fede calcistica, si finisce giocoforza per rovinarla e creare un seguito avvelenato, arrabbiato e deluso da quel sogno che svanisce e che ha rincorso dal primo momento in cui si è avvicinato alla maglia che ama.
Una maglia è tutto. Il simbolo che sormonta le casacche di calcio è un po’ come l’effige che i soldati romani mostravano nelle loro avanguardie. Non va scalfita e non va umiliata. Lo sanno bene i tifosi della Roma, che da ormai quattro anni richiedono a gran voce il loro vecchio e storico stemma. Letteralmente ingoiato dalla politica societaria, senza una minima consultazione democratica (cosa avvenuta, ad esempio, a Manchester, sponda City) in nome di un non ben definito merchandising. Del resto basta consultare i dati del fatturato relativo agli ultimi anni per rendersi conto di come quest’operazione non abbia smosso nulla, sotto l’aspetto dei ricavi. Sia ben chiaro, qua c’è da mettere i puntini sulle “i”. L’inizio dell’era stars and stripes era stato tutt’altro che scoraggiante. Tante le buone iniziative, dalla Card Away per tornare in trasferta, alla Hall of Fame, che ha riportato in auge tanti campioni del passato ormai dimenticato. Così come uno sportello virtuale dedicato interamente ai tifosi. Un equilibrio durato però poco e rotto definitivamente dal tristemente celebre fucking idiots, proferito da Pallotta ai propri tifosi. Perché, è ovvio, i comportamenti riprovevoli, anche nel tifo, vanno sempre stigmatizzati, ma ci sono modi e modi. Chi è venuto prima, spesso, ha trattato il pubblico e la Sud come propri figli, e se in determinate occasioni li ha strigliati, il più delle volte si è ritrovato a difenderli e mai a generalizzare colpendo nel mucchio.
Qualcuno ha avuto l’impressione che questa gestione tenda sempre più a deromanistizzare il tifoso, anche se quest’ultimo non ci ha messo molto a farsi fuorviare. Probabilmente era già predisposto. L’assenza della Curva Sud all’Olimpico, nell’ultimo anno, ha messo in luce una certa natura del tifoso giallorosso. E se la celebre foto con le migliaia di smartphone pronti a immortalare Cristiano Ronaldo o Messi è abbastanza esemplificativa, soprattutto al cospetto del maxi corteo di Testaccio in occasione del derby, ciò che più fa riflettere, sono i fischi e gli insulti alla squadra in difficoltà. L’esatto opposto di quello che fu il tifoso della Roma, e quello romano in generale. Divenuto oggi più calcolatore, illuso e raggirabile.
E in fondo la frase del presidente Pallotta rientra proprio in questo contesto. Nel radicalchicchismo di cui questo ambiente si è appropriato. Cancellando buona parte delle proprie tradizioni e, anzi, guardando quasi con schifo e superiorità un passato glorioso e passionale. Guai a essere politicamente scorretti, guai a uscire fuori dal pentagramma. Un po’ come il poveraccio che si arricchisce e getta le monetine addosso ai meno abbienti. Dalla frase poetica elargita dal dirigente di turno, tra un tuffo in piscina e una sbandierata solitaria nella Curva Sud priva dei suoi astanti a causa delle barriere, al conteggio delle fideiussioni e delle plusvalenze da parte di chi dovrebbe soltanto occuparsi di sostenere undici giocatori in campo. Al massimo lottando contro chi, a livello istituzionale, questo non lo permette più da tempo. Ma questo implicherebbe unità d’intenti, e la tifoseria romanista, sulla scorta di quanto avviene in città, ha perso parte della sua aggregazione globale da tanto tempo. E ovviamente le colpe sono da ricercare in tutte le componenti, dal presidente all’ultimo dei tifosi.
Eppure quella frase, mio padre, mio zio, mio nonno, non di certo ultras stagionati, non l’avrebbero mai mandata giù. E neanche a parti inverse lo avrebbero tollerato. Perché è così che andavano le cose a Roma, e mai nessuno se n’è vergognato. E sarei curioso di sapere cosa ne avrebbero pensato Dino Viola, Italo Foschi, Renato Sacerdoti, Amedeo Amadei e Agostino Di Bartolomei. E sì, saremo anche retrogradi e medievali, ma in un mondo che marcia a mille all’ora e che perde sempre più l’umanità in tutti i suoi aspetti, almeno ai tifosi dovrebbe essere concesso di rimanere un po’ bambini e un po’integri moralmente. Perché, dicono da parte romanista, se speri in un futuro migliore per i rivali di sempre, dovresti almeno prendere atto di tutto ciò che non va a casa tua. Nel cuore del tuo popolo, quello che ti permette di essere l’AS Roma. Dicono, sempre i romanisti, che nessuno si è scusato dopo il 26 maggio 2013, oppure che nessuno ha proferito verbo dopo umiliazioni storiche come l’eliminazione ad opera dello Slovan Bratislava o dello Spezia. Tutto questo, unito alle colpe intrinseche e ai cambiamenti annosi e dannosi di un’intera città, ha contribuito a fiaccare la voglia di calcio. Assumere i contorni da Partito Democratico pallonaro è deleterio. Assai. Ma se il pubblico che si vuole è quello che si è visto quest’anno, si sappia che l’opera è a buon punto.
E infatti l’Olimpico, con buona pace dei soloni e degli accoliti, resterà probabilmente vuoto anche in questa stagione. E se barriere e repressione sono tra le maggiori cause, non vanno sottovalutati tutti gli aspetti elencati sopra. Ai romani è stato tolto quello per cui hanno sempre, sportivamente, vissuto. I bambini che oggi si avvicinano alle due squadre della Capitale trovano da una parte un prototipo alquanto discutibile di Barcelona 2.0, con tutti i suoi desiderata economici e di facciata, ma nessuna vittoria in bacheca, e dall’altra parte un presidente/padrone, che ha fatto della Lazio una cosa propria, togliendola di mano ai legittimi depositari che, non a caso, sono quelli di Piazza Santi Apostoli o del Di Padre in Figlio. In proporzione più numerosi delle presenze medie in un Lazio-Juventus qualsiasi. E solo questo dovrebbe far riflettere.
Il derby è morto. Il tifo è morto. Il calcio romano è in lenta agonia. Un coma farmaceutico a cui nessuno vuol porre rimedio. E non saranno nuovi stadi, né eventuali trofei a restituirci il passato. È in atto un cambiamento epocale, e quelli fuori luogo rischiamo sempre più di essere noi, che nel pallone vediamo lo spaccato di una società che va man mano svanendo. E, aggiungo, lo status da strisciata nordica, a cui ci siamo sempre beati di non appartenere, è molto più vicino di quanto si pensi. Non a caso Roma e Lazio sono ben lontane da quel poco di calcio che ancora si respira in campi lontani dalla grandeur economica.
“C’era ‘na vorta tutto quer che c’era…povera Roma nostra furastiera!”.