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Roberto Palpacelli, la racchetta spericolata del Tennis italiano
Il tennis è lo sport del diavolo. Ti ammalia e ti seduce illudendoti come una sirena per poi consumarti come una candela che brucia troppo in fretta. Uno su mille ce la fa diceva qualcuno mentre il magma sottostante arranca e strepita per riveder le stelle e riabbracciare l’Olimpo degli Dei.
Ma è sempre così? Il libero arbitrio ci insegna che il popolo delle racchette brulica di storie interrotte e incompiute, di chi ha avuto il coraggio di dire no pur essendo uno degli eletti di madre natura. Questa è la storia, una delle tante storie, di Roberto Palpacelli detto Virgola, per gli amici Il Palpa, tennista pescarese classe 1970 dotato e promettente a cui viene prospettato un futuro glorioso da juniores con tanto di proposta indecente: allenati, allenati e allenati. Vieni a vivere a Roma, un po’ di tennis di qua, un po’ di atletica di là e i weekend, salvo tornei in corso, te ne torni pure a casa. Il Palpa rifiuta l’offerta e tira dritto, la vita da lager non fa per lui e saluta beffardo gli increduli Panatta, all’epoca direttore della F.I.T., e il talent scout Bertolucci. Titoli di coda? Game Over? Ma neanche per sogno! Tra le doti segrete del tennista in erba c’è pure quella sana follia che ti rende diverso dagli altri, dai fichetti che fanno sport di squadra come quei femminielli dei calciatori.
Il Palpa ce lo ritroviamo convocato dalla nazionale under 16 per la Coppa Europa a Sciacca, errore madornale di una federazione che ancora un briciolo di speranza lo riponeva. Roberto, ormai alla deriva, ripaga la fiducia dando il meglio di se con un festino notturno tra alcool e sesso con un manipolo di svedesi, distruzioni di sedie, porte e bicchieri come gran finale. Buio pesto! Il fenomeno talentuoso e ipotetico campione piomba nel baratro di canne, sniffate ed eroina chiudendo definitivamente la saracinesca come un eroe mitologico sul quale cadrà per sempre l’oblio. Il Palpa era il più forte di tutti? Era davvero speciale come sosteneva Paolino Bertolucci? Certo, i colpi li aveva: mancino puro accarezzava la pallina o tirava fucilate con estrema naturalezza grazie ad un fisico asciutto e longilineo, un fascio di muscoli e nervi collegati ad un cervello in perenne movimento che nella sua San Benedetto del Tronto gli giocherà brutti scherzi.
Frequentazioni sbagliate e di lì a un attimo il gioco è fatto. Si comincia con le sigarette e, complice un desiderio irrefrenabile di andare oltre, il nostro si imbatte nell’eroina prima sniffata poi fai da te. Fregato! Negli stessi anni in cui i suoi coetanei Caratti, Furlan e Nargiso, sfondavano nel circuito professionistico, Roberto lottava contro la sua “malattia” tra comunità, fughe e sotterfugi, promesse e menzogne in linea con la sua personalità da genio matto che irrideva gli avversari talmente era netta la sua superiorità. Un giovane Riccardo Piatti lo ricorda trent’anni fa come un grande talento al quale avrebbe dovuto dedicarsi di più intuendo per tempo, con la saggezza e la pazienza che all’epoca non aveva, l’approccio giusto per affrontare un caso del genere. Anche la famiglia provò in tutti i modi di redimerlo. Il padre disperato gli offrì un posto in banca, ma dargli uno stipendio e una vita normale sarebbe stato contro natura e i soldi sarebbero stati il mezzo peggiore per la sua completa dissoluzione. A cavallo tra la fine degli anni ottanta e novanta i momenti più duri condensati tra il militare e la scuola nazionale maestri di tennis dalla quale venne allontanato, e l’abbandono della famiglia che lo costrinse a vivere per strada.
Vivere o morire? Entrare in comunità a 27 anni e continuare a sperare, cosa che avvenne e che nel breve diede qualche frutto. Un’azienda lucidamente folle ebbe il coraggio di finanziarlo per farlo allenare, il tennis tornava a far parte della vita del Palpa, ma la consegna di quattro milioni per spedirlo in India a partecipare ai futures fu una pessima idea. Rimase lì sedici giorni spendendo tutto e perdendo una quindicina di chili giocando ogni tanto a tennis, ma l’impresa della vita fu quella di rimanere vivo e uscire da quell’inferno. Il suo fisico mostruoso, unito agli allenamenti, gli permisero di rimanere a galla in un limbo perenne tra discese oscure e repentine risalite. Lo ritroviamo tra alti e bassi a 42 anni imbarcarsi nell’impresa del circolo Mosciano, in provincia di Teramo, che sogna da anni la serie A partendo dalla C. Serve un fuoriclasse che abbia lasciato il segno e il Palpa, che in fondo è un sentimentale, accetta confrontandosi con ragazzi di vent’anni che liquida con semplicità estrema perdendo un solo match in due anni.
Il pubblico lo acclama, non lo ha dimenticato e ancora una volta il tennis lo ha redento. Nargiso e Canè, in quegli anni bollati come psico-tennisti, erano ad un livello di pazzia che si esauriva nel rettangolo di gioco mentre nell’album dei loro ricordi il Palpa era fuori controllo tutto il giorno. La sua imprevedibilità, il suo tennis smisurato, il suo essere capace di qualunque cosa lo hanno reso eterno nonostante il disinteresse dei grandi media e del grande pubblico. Aneddoti ce ne sono a decine: sigarette fumate nei cambi campo, testate al giudice di sedia, match vinti nonostante nottate brave, furie agonistiche e tentativi di colpire l’avversario e, come degna ciliegina, una condanna a tre anni per una fiaccola tirata addosso ai tifosi dell’Ascoli durante il derby con la Sambenedettese. Potremmo continuare all’infinito, ma quello che conta è che oggi Roberto a 50 anni ha una compagna e un figlio con cui vive nella sua Pescara completamente ripulito. Tira avanti con dignità e senza rimpianti consapevole che lo sport del diavolo nonostante tutto lo ha salvato rendendolo immortale.
Talento sprecato e condotta dissoluta, nervi deboli e cuore forte, grandi entusiasmi e improvvise depressioni, vie di mezzo non ce ne sono e non ce ne saranno mai nel libro della vita di questo ragazzo di provincia che avrebbe potuto spaccare il mondo invece di andare in giro a spaccar racchette.