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“Roberto Baggio. Divin Codino”: una storia di lotta, passione e rivincita

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E’ uscito nelle librerie e negli store online “Roberto Baggio: Divin Codino” (Giulio Perrone Editore) a cura del giornalista e scrittore Raffaele Nappi, che dopo aver narrato la grandezza del Pibe de Oro Diego Armando Maradona, ci racconta  la vita e le gesta di un calciatore iconico, simbolo dell’eccellenza pallonara italiana. Un tributo ad un calciatore il cui addio per molti appassionati ancora non è stato del tutto digerito e che ha lasciato un’impronta indelebile nella storia del calcio nazionale e non solo.

Perchè questa è storia di amore e resurrezione, di lotta, passione, di rivincita. Questa è la storia di un ragazzino prodigio, con 220 punti interni di sutura e un menisco perforato a 17 anni. Questa è la storia di chi davano tutti per spacciato, e si è ritrovato con un Pallone d’Oro tra le mani. Questa è la storia di scontri, tafferugli, incendi in nome di un calciatore. È la storia di un’estate italiana, di piazze e di feste, di bandiere e di vespe, di monaci
e di cacciatori. Questa è la storia dell’uomo che non ha nemici. Questa è la storia di una generazione. Questa è la storia di un campione. Questa è la storia di Roberto Baggio.

Ecco un estratto del volume che ripercorre uno dei momenti più intensi delle sua carriera e della nostra infinita passione per quel pallone che, nonostante tutto, continua a rotolare.

Il Coraggio di tirarli 

Il calcio è la cosa più importante delle cose meno importanti.

Un razzo arancione squarcia la notte nella laguna di Venezia. Il motore della barca su cui viaggiano cinque ragazzi si è prima afflosciato e poi definitivamente spento. uno dei navigatori apre la scatola con i razzi rossi SOS e lancia il primo segnale di soccorso. Sale in cielo quel proiettile, nel momento esatto in cui Roberto Baggio segna il suo primo goal contro la Bulgaria. Sparano pure in laguna, ora. Lasciano passare un po’ di tempo, i ragazzi a bordo. Poi ne lanciano un altro, e un altro ancora. Quei razzi vengono scambiati per festeggiamenti. Non interviene nessuno. Alla fine il gruppo decide di prendere i remi e mettersi a pagaiare in direzione Punta Sabbioni. Rientreranno all’alba, quando saranno recuperati dalla Capitaneria di porto. Che serata, signori. Succede di tutto la notte del 14 luglio 1994. Roberto Baggio ha appena steso con una doppietta la Bulgaria in semifinale. L’Italia di Arrigo Sacchi ha giocato una delle partite migliori del suo Mondiale. E siamo in finale. Benvenuta, estate italiana. È il 14 maggio del 1994 quando Roberto Baggio valica i confini del cancello della sua villa di Caldogno per concedersi ai giornalisti che, pazientemente, da ore, lo attendono. «Ho ventisette anni, sono al top, sono il Pallone d’Oro. Mi sento mille volte meglio che quattro anni fa, quando arrivai a Italia ’90 ed ero a pezzi, distrutto». E ci crediamo. Compare in TV ogni 10 minuti il piccolo Buddha. S’intitola Il sogno americanolo spot della IP girato nell’area di servizio Bauducchi Est. Regista e testimonial d’eccezione, nell’ordine, Carlo Verdone e Roberto Baggio. L’operazione rientra nella campagna pubblicitaria per i Mondiali americani: cinque spot per svariati miliardi. Sì ma come sta Baggio? Il 26 maggio la Nazionale riceve una delegazione della ditta Antonio Grandi, di Solbiate Arno: ottanta operai senza stipendio, da tre mesi. «Siamo solidali con voi» spiegano gli azzurri. «Bel gesto» commentano i giornalisti in conferenza stampa. Ma come sta Baggio? È il disco dell’estate italiana, questo. Cos’ha? Cosa non ha? Perché mai ha disertato le esercitazioni balistiche in mattinata? Roby è acciaccato. Mister 25 milioni rischia di disputare il suo Mondiale in compagnia di una bella e sonora tendinite. Ci ha pensato Sorrisi e Canzoni a stemperare il clima. Nel numero dell’8 giugno tutti e ventidue i calciatori sono stati trasformati in perfetti signorotti a stelle e strisce. Per il Mondiale del 1966 in Inghilterra Rivera e Mazzola andarono in copertina di Epocavestiti da gentlemen della City londinese (e fu l’eliminazione più vergognosa ad opera dei dilettanti della Corea del Nord). Stavolta spiccano i faccioni di Conte poliziotto, Tassoni Al Capone, Roberto Baggio dandy e Maldini giocatore di baseball. Le altre immagini sono di Baresi giocatore di football americano, Berti Fonzie, Bucci Elvis Presley, Massaro Marlon Brando, Minotti e Benarrivo Blues Brothers, Dino Baggio rockstar, Pagliuca indiano, Donadoni soldato nordista, Evani soldato sudista, Costacurta cowboy. Benvenuti in America, ragazzi.   Lo sbarco non è quello in Normandia ma poco ci manca. Siamo arrivati qui con un goal di Dino Baggio a 5 minuti dalla fine nello spareggio contro il Portogallo. Per recuperare la forma Roby si allena (con Dino) in segreto, lungo i boschi di Casoni Borroni. Fanno percorsi in salita, seguono un programma personalizzato e meticoloso. Baggio è Pallone d’Oro, ha ventisette anni e per molti è il miglior giocatore al mondo. Sulla Gazzetta fa capolino la Statua della Libertà con lo spaghetto al posto della fiaccola. Ma quando arrivi a New York, il primo nemico è il caldo afoso della costa atlantica. Come difendersi?

L’ha risolta a modo suo, Baggio. «È arrivato al bar, mi ha guardato e ha esclamato veloce: “E queste come si fanno?”», racconta Michelina, donnona dalla riconosciuta abilità a mescolare cockails e liquori da due anni nel bar del centro di Sportilia, sposata con un ragioniere romagnolo e con un passato da maître nei club Méditerranée di Parigi. «Ci penso io» gli ha risposto lei. Prima due trecce, per prova. Lui s’è guardato allo specchio, è rimasto soddisfatto. E ha rincarato: «Avanti tutta». Alla fine, per ringraziarla, voleva pagarla. «Ma io non ho voluto niente, solo una foto ricordo». Ve lo immaginate il giorno di San Patrizio, il 4 luglio e il 25 dicembre, riassunti in un’unica, sola, maledetta giornata? È quello che ci si aspetta all’esordio al Giants Stadium di New York. I biglietti sono esauriti da mesi, i settantasette locali nella sola isola di Manhattan pullulano di irlandesi già ubriachi dalle prime luci dell’alba e un enorme boccale gonfiabile di birra scura alto dodici metri e sospeso all’interno dello stadio domina la scena. No, non poteva andare diversamente. Quando alle ore 16, con la Luna in Bilancia e l’ascendente in Giove e Scorpione, l’arbitro fischia l’inizio del match, si compiono le previsioni degli astrologi. «La squadra scarseggia di elementi protetti da segni di acqua e di aria». Avevano avvisato. «Dovevano giocare Zola e Casiraghi». E così ci ha pensato Ray Houghton con un tiro beffardo a siglare l’1-0 finale. Le stelle non stanno a guardare, ma parlano. E a volte ci azzeccano.

«Sia chiara una cosa: contro l’Eire Baggio ha giocato come voleva». È un Arrigo Sacchi nero, quello che si presenta in conferenza stampa dopo la sconfitta all’esordio mondiale. Per giovedì non ci sono santi: o si batte la Norvegia o si salta per aria. Lui, il nostro 10 dal codino intrecciato, è ferito. Ha il tendine che gli duole, un cappellino da ciclista in testa e la voce da confessore. L’Italia ha bisogno di un leader. «Se coleremo a picco, sarò il primo (dopo Sacchi) a essere sbranato. Non so se sia giusto. So solo che sarà così» avverte.   I norvegesi se la ridono. «Siamo alti, robusti e cattivi. Ma il segreto è l’allegria» recitano davanti ai microfoni. Re Harald V ha inviato un telegramma, il clima è sereno e la corona ha promesso 200 milioni a testa in caso di titolo. Mai porre limiti ai sogni. In risposta arrivano, prorompenti, le dichiarazioni dei parlamentari italiani di Camera e Senato: «Stasera battiamo la Norvegia e torniamo a sorridere» avvisa il ministro della Pubblica Istruzione Francesco D’Onofrio. «Il modulo? Serve chiamare Fini al centro dell’attacco» insiste Salvatore Ardica, deputato di AN. L’Italia è il paese che amiamo. Quando la linea difensiva crolla proprio sul motto di Sacchi, il fuorigioco, e Leonhardsen si trova solo davanti alla porta, Gianluca Pagliuca non può fare altro che giocarsi il fallo. «A quel punto ero sicuro di uscire» confessa Casiraghi. «Vado a fare la doccia e pochi minuti dopo mi ritrovo Roberto negli spogliatoi. Aveva la faccia molto scura» racconta Pagliuca. È il minuto 25 del primo tempo quando il funzionario della FIFA solleva in alto il numero 10, il suo, per segnalare la decisione presa da Sacchi. Guardatelo, il piccolo mondo di Roberto Baggio, il regno di un principino degli stadi, andare in frantumi. «Chi? Io?» fa lui, sussurrando in mondovisione il suo disappunto e la sua disapprovazione. Si indica il petto, tira la maglia fin sopra la faccia. Con rabbia e stupore: tocca a lui scontare la pena inflitta a Pagliuca. Si può amare o no Baggio, si può criticare il suo gioco, venderlo, acquistarlo, criticarlo, ma non si può oggi, dopo aver assistito alla bizzarra crudeltà del pomeriggio dello stadio dei Giants, non provare per lui compassione. Aveva puntato tutto sul Mondiale. Aveva giurato a se stesso di sacrificare tutto per quel palcoscenico, e aveva atteso New York come un tenore attende la Scala per avere la consacrazione finale. Raccogliendo una sconfitta penosa con l’Irlanda e 25 minuti di gioco appena con la Norvegia.

Dopo lo stupore e l’incredulità, Baggio ha fatto quello che sa fare meglio: ha cercato rifugio nella solitudine. E nessuno è stato mai più solo di Roberto Baggio ieri pomeriggio alle 16,25 mentre i suoi compagni cominciavano a lottare contro la Norvegia con straordinario coraggio. Vincendo, alla fine. Ma senza di lui. Contro il Messico ci attende la terza partita del Mondiale, siamo quasi fuori e il nostro 10 si è trasformato in un personaggio da cartoni animati. No, non ne avevamo bisogno. Finisce 1-1, con tutte le squadre a pari punti e con la stessa differenza reti: passiamo come migliore terza. Almeno. Baggio? «Ha tutta l’aria di un Coniglio Bagnato». È Giovanni Agnelli ad azzeccare la definizione esatta al termine dell’assemblea degli azionisti Fiat, dopo aver visto alla TV la partita contro i messicani. «No, non partite» fa Baggio ai suoi familiari che vogliono andare negli States. «Se va male rischiamo di tornare il giorno dopo. E poi fa troppo caldo». Roby è in crisi, zoppicante e depresso. Continua a recitare nel migliore dei modi il suo ruolo da fantasma. E cresce il partito di chi gli preferisce altri. Mettete Zola, che è pure l’idolo degli italoamericani. Sono le 14:58 di un pomeriggio che si sta trasformando in tragedia quando Gianluca Pagliuca decide di battere la rimessa laterale, da portiere, con le mani. È il minuto 88, la Nigeria è avanti con il gollonzo di Amuneke e noi stiamo per tornare a casa carichi di meraviglia. E di rabbia. «Sembravano indemoniati, di una forza sovrumana» ricorda Costacurta. Batte Pagliuca e lancia l’azione sulla destra. Da Donadoni a Mussi, rimpallo. Per la prima volta nella partita Baggio si libera della marcatura. Limite destro dell’area di rigore: palla dietro e destro del Codino, col pallone che dopo aver traforato una selva di gambe bianche e verdi si conficca nell’angolino. Basta un minuto per scalare il paradiso. Con un diagonale che lascia Pizzul senza fiato Roby Baggio firma, finalmente, il pareggio. Basta un colpo da biliardo per strapparsi di dosso l’aria da Coniglio Bagnato e rimettere in riga, una a una, le gerarchie. È pareggio. E ora fermateli pure questi ragazzi. «All’inizio non ci trovava in tribuna» esclama mamma Matilde «ora che ci ha visto, vedrai che combina nei tempi supplementari!». L’Italia di Sacchi è in 10. L’arbitro Brizio ha trasformato un possibile rigore per noi in un cartellino rosso di furia e di rabbia diretto a Zola. Ma non basta. I nigeriani si sgonfiano. I nostri si rigenerano. E poi c’è Baggio. È il 10’ minuto del primo tempo supplementare quando l’Italia attacca sul lato sinistro. È Roby a chiedere il triangolo stretto a Benarrivo: pallonetto da fermo e fallo. Rigore. È passato un quarto d’ora da quando Pagliuca ha battuto disperatamente la rimessa laterale. Passa un minuto e mezzo prima che il Roby nazionale decida di stamparla così, con un bacio al palo e il riposo in fondo al sacco. urla Bruno Pizzul, non ha più voce. È stremato. un martedì di tragedia si è appena trasformato in trionfo. Finiamo in 9, Mussi ha i crampi. La Nigeria intestardita ci prova con le forze che le sono rimaste. È fischio finale, è ancora Italia. quarti di finale. «Saranno contenti tutti quelli che ci hanno preso per il culo» annuncia Roby Baggio subito dopo la partita. Parla e scappa via. Non è una frase molto buddista, da stato d’animo di chi guarda avanti e mai indietro, e chissà se il maestro Daisaku Ikeda applaudirà. Ma poco importa, stasera. Ci siamo liberati da un incubo, seguendo con gli occhi, in un solo lungo e interminabile istante quel colpo di biliardo scaturito dal suo piede destro. Il giocatore più atteso del Mondiale stava per andarsene senza aver speso neppure un grammo di classe.

È festa in tutta Italia. Da Roma ad Aosta, da Genova a Catania. «Il calcio è quel che unisce e ci affratella, Nord e Sud, Torino e Palermo» si affretta a spiegare alle TV di mezzo mondo che fanno incursione a Little Italy Francesco Duina, studente italiano di Brescia che frequenta Harvard. Ah, quanto è bello essere italiani, il giorno dopo. Chiamarsi Provenzano, Scarfò, Dolce, Furlan, Menino, bere il cappuccino un po’ acquoso al Caffè Graffiti a Hanover Street o mangiare gli “scungilli alla marinara” al Ristorante Paradiso nel North End. Ci si abbraccia tutti, terroni e nordisti, italoamericani da tre generazioni e turisti: si stringono davanti al balcone dove fu letta la dichiarazione d’indipendenza, due secoli or sono, al grido di Alé Alé e Forza Azzurrii, che fino alle 14 e 43 minuti di martedì 5 luglio erano un branco di cornuti, deficienti, imbranati e stinking shits. Ai quarti di finale incontriamo gli spagnoli. Gli stessi che hanno abbandonato le tribune durante il match con la Nigeria al minuto 85: li abbiamo visti, ufficialmente perché secondo protocollo dovevano rientrare al quartier generale del Middlesex College di Concord per l’allenamento, ma probabilmente perché la nostra rimonta era impossibile. Per loro. La partita è più equilibrata del previsto. Stavolta Pagliuca non si limita a battere le rimesse laterali, ma a ribattere la grande occasione spagnola, quando l’attaccante Julio Salinas si è ritrovato da solo davanti alla porta. Ed è stato respinto. Di piede. Dino Baggio ci ha portato avanti. Gli spagnoli hanno pareggiato nella ripresa. È il minuto 88, lo stesso della partita con la Nigeria, quando, dopo una spaventosa azione in verticale Mussi-Signori-Baggio, Roberto si trova davanti al portiere, in corsa, con il pallone tra i piedi. Decide di saltarlo con un dribbling a velocità supersonica e metterla dentro di destro, mentre il campo era quasi finito, mentre gli spagnoli rientravano disperatamente sulla linea di porta, spingendo la palla lì, verso le praterie americane. 2-1, Furie Rosse a casa e 53.400 spettatori di Boston accontentati. C’è un genio del calcio in questo Mondiale. «Roby ha azzeccato quel grande acuto alla fine. Mi ha fatto vincere il derby contro Domingo e Carrera» fa Luciano Pavarotti, esuberante. Sabato prossimo canterà a Las Vegas, e facciamo pure gli scongiuri: «Spero che gli azzurri non giochino quel giorno la finalina per il terzo posto, voglio andarli a vedere l’indomani, nella finalissima». Lo vogliamo tutti, Luciano. La semifinale contro la Bulgaria è – letteralmente – una storia già scritta. È il 21esimo del primo tempo quando il Dio italiano, (ve lo ricordate?) decide di trasformare una rimessa laterale (ancora!) in uno dei goal più belli del Mondiale americano: il tocco di destro, a giro, rende malleabile ogni pensiero stupendo che provano gli italiani aggrappati al televisore in un’estate torrida. E, non sazio, Baggio replica 4 minuti dopo con un diagonale perfido, biliardesco, dalle chiare discendenze divine. È il 13 luglio 1994 quando New York si ritrova, senza ombra di dubbio, al cospetto di uno dei giocatori in attività più forti al mondo. «Dopo il goal ho pensato chissà cosa starà succedendo ora in Italia. Abbiamo fatto contente un po’ di persone oggi» sorride lui. E l’Italia impazzisce. Migliaia di ragazzi innamorati di Roby e del calcio scendono di casa per celebrare un momento unico. Chissà quando ci ricapiterà di rivivere una notte così. Fuori, nel magistrale ingorgo newyorkese, sventolano tricolori e maglie azzurre. Sono le auto degli emigrati, quelle targate Vermont, Massachusetts, Maine: sventolano da due settimane per mezza città, dove finalmente non rischiano più di essere arrestati per disturbo della quiete pubblica. Sono oltre cinquemila in corteo sulla 18th Avenue. I caroselli di auto hanno invaso Little Italy per oltre trenta isolati. Sono pieni i bar della zona. È pieno il Caffè Milleluci, con il suo bel maxischermo. È pieno il Caffè Italia, il Caffè Sorrento e il Club Azzurro, sede dei tifosi napoletani. Sono ventuno milioni gli spettatori che seguono in diretta su Raiuno il match. E il secondo goal di Roberto Baggio ha proiettato l’ascolto a 26 milioni e 545 mila. Lo share ha toccato quota 85,18%. A Caldogno si organizza il solito corteo diretto alla villa di Roby. Sotto il Colosseo ci sono centinaia di tricolori che sventolano contro la notte. «Lo confesso, Baggio è il nostro campione preferito» aggiunge la first lady Hillary Clinton, interrogata dai giornalisti riuniti per il G7 a Napoli. «Grazie Roberto, i tuoi goal mi tirano su di morale» sorride Andrea Fortunato al telefono collegato in diretta a Dribbling subito dopo la partita: una leucemia lo sta massacrando, l’ha tolto dai campi di gioco e l’ha confinato in un letto d’ospedale di Perugia. Erano compagni alla Juve, e lui, Baggio, non smette di dedicargli un pensiero dopo ogni goal mondiale. Siamo in finale, Luciano. Sei stato accontentato. Tutto gira come deve girare. O quasi. Lui, Baggio, non è dello stesso umore. un risentimento muscolare l’ha costretto alla sostituzione negli ultimi minuti contro la Bulgaria, facendo sospirare milioni di italiani. «Il problema non è gravissimo, ma mancano solo tregiorni prima di scendere in campo» spiega il fisioterapista fidato Pagni. In più, la manata di un bulgaro gli ha tolto di bocca un canino, lasciandoglielo spezzato a metà. È stato convocato un dentista di Martinsville in tutta fretta per sistemarlo prima della partenza per Los Angeles. Ci siamo. Ci tocca il Brasile. Come a Messico ’70: Pelé contro Riva allora, Romario contro Baggio oggi. «Voleva giocare, voleva recuperare a tutti i costi» ricorda Andreina. I brasiliani sono arrivati fin qui dando spettacolo, certo. Ma mica troppo. Fanno gruppo, sorridono come sempre, proprio perché sanno di non essere forti come al solito. E mentre Baresi, armato di salvagente (no, non sa nuotare il nostro capitano), fa gli esercizi in piscina per recuperare e sostituire lo squalificato Costacurta, Baggio poggia il piede per terra ripetutamente, nelle hall dell’albergo, con le scarpe da ginnastica. Se siamo in finale è grazie a lui. E ora la sua presenza è in bilico.

Sa che giocherà, lo sa benissimo: gli basta un cenno rivolto a Sacchi per farlo scendere in campo. Ma vuole dare la conferma a tutti gli altri compagni di squadra. Quella mattina, invece, non riesce nemmeno a fare la navetta. una razza di misero scatto. Prendono l’aereo e dopo 6 ore atterrano a Los Angeles; Pasadena dista poco più di 2 ore. La polizia affetta letteralmente le due ali di folla che accompagnano il bus degli azzurri fino al Rose Bowl, il tempio del football. Centomila persone, tribune scoperte. Welcome to Texas. Quando Sacchi consegna la lista delle formazioni in attacco compare il nome di Baggio, e tra parentesi quello di Signori. Nel tunnel che porta in campo Roby guarda Romario. Lo osserva come farebbe un cacciatore. C’è silenzio. Incrocia le braccia e le scioglie. Si va. Più è brutta la partita più chances abbiamo. Sappiamo di poter creare pochissime palle goal, Baggio non incide, ma la sua presenza si fa sentire. È come se fosse circondato da un’aurea di potenza. Capita a Massaro la nostra principale occasione, ma non la sfrutta. «Oggi non segniamo» sussurra mister Sacchi in panchina. Sì, ma neanche loro. Noi non segneremo mai, è chiaro. Ma neanche loro. Non ci dispiace arrivare fino in fondo. Reggiamo. Si va ai rigori. È la prima volta che una finale mondiale finisce ai rigori. È dall’inizio del torneo che ad ogni allenamento i nostri ragazzi si fermano per 15 minuti a provare i calci piazzati. Rigori, soprattutto. Marchegiani non fa altro che parare a destra e a manca i tiri azzurri. Quasi tutti fanno un errore o due. Solo Baggio ha sempre realizzato. un buon segno. Ora si guardano in faccia, gli azzurri. Si capisce dallo sguardo che hanno dato tutto. Si va con quest’ordine: Baresi, Albertini, Evani, Massaro e Baggio. Sappiamo che Pagliuca uno lo para. Baresi, che ha battuto i rigori sempre allo stesso modo – alto forte e centrale – stavolta sbaglia. Ha il cuore di Ettore, cade con la testa all’indietro: tra qualche secondo scoppierà in un pianto inconsolabile. Sulla palla Marcio Santos: goal. 0-1. Tocca ad Albertini: goal. Almeno un goal lo abbiamo fatto. Risponde Romario: è inutile sperare, goal. 1-2. È il turno di Evani: goal. Almeno un goal lo abbiamo fatto. Anzi due. Risponde Branco: parato. Sappiamo che Pagliuca uno lo para. Massaro, che ha avuto il coraggio di rimanere in piedi nel momento delicato, batte di destro, parato. Dunga dei suoi è il più freddo. Goal. 2-3. Tocca a Roberto. I ragazzi della gita in barca in laguna sono rientrati. Gli spot della IP sono passati. Tutta Italia è davanti al televisore. C’è un gruppo di italiani in vacanza a Galway, Irlanda, nel camper di piazzola a vedere la partita senza audio. E l’irlandese che ripete: «Taffarel non ne ha mai parato uno, mai!». C’è chi al mare ha piazzato il tubo catodico sopra una cabina, per offrire una visuale più ampia e chi ha convinto le ragazze a fare il bagno nude se vince l’Italia. C’è chi va a piazza del Popolo a Roma a vedere la partita su un cazzo di maxischermo che mai funzionò e chi ripiega sul televisore di un paninaro lì nei pressi. C’è chi la vede nel salotto di casa in compagnia degli amici di papà e chi in una camera d’albergo di New Orleans mentre è in viaggio con gli amici per gli uSA. C’è chi si è rotto una caviglia e chi ha spaccato una finestra di campagna. Chi ha fatto volare birre e chi si è riseduto sul divano a rivedere Dick Tracy sommerso da una tale depressione che forse non è ancora passata.

In condizioni normali, la mette dove vuole. Ha già deciso come calciare: incrocio, alto, alla destra del portiere. «Dài Roberto» sussurra Bruno Pizzul, con la sua voce gratinata, quasi a rincuorarlo. Guarda a destra, poi a sinistra: si avvicina alla palla e tira. Il resto lo sapete già. Non c’è nemmeno bisogno del rigore di Bebeto: il Tetra è del Brasile. una marea verdeoro invade il prato texano. Il mondiale americano è finito. I brasiliani festeggiano, si abbracciano, sorridono: pregano, piangono. Il capitano Dunga a un certo punto raggiunge il centrocampo e issa uno striscione con scritto “Aceleramo Juntos”, acceleriamo insieme. Nessuno dei brasiliani si è dimenticato nemmeno per un attimo di lui, di Ayrton Senna, rimasto col corpo alla curva del Tamburello ma volato con l’anima nel cuore di milioni di sportivi sulla faccia del pianeta. Mimano un’onda, lo abbracciano in mondovisione. Il Tetra è anche suo. Hanno vinto anche per lui. I nostri, invece, hanno il cuore maciullato. Roby Baggio ha guardato per un paio di secondi la porta lasciata vuota da Taffarel, è rimasto per lungo tempo immobile sul dischetto. Poi è crollato. Lo vediamo in mondovisione, se ne sta tornando a centrocampo: qualcuno lo abbraccia. Lui sembra assente: è tornato fantasma, “coniglio bagnato”, ombra di quello che era e di quello che è stato. Ha dato tutto quello che aveva. Ha giocato senza un dente, con una gamba in meno e una tendinite che non se ne va più. Ha trascinato gli azzurri per i capelli con la forza del cuore e l’urlo del coraggio.

Ha ripensato a quando da piccolo lo chiamavano Guglielmo Tell, perché mirava a un lampione per le strade di Caldogno e lo colpiva. Preciso, millimetrico. È arrivato fin qui, sullo scalino da cui si vede il mondo. Si volta e torna indietro. Dicono che quel rigore, Baggio, continui a sognarlo tutte le notti. O quasi. «Mi alleno tutta la vita, ne segno centinaia, la metto dove voglio, e poi arriva la partita. E lo sbaglio». Il fatto è che, come dice Sacchi, il calcio è la cosa più importante delle cose meno importanti. Il fatto è che chi batte il calcio di rigore ha tutto da perdere, e niente da guadagnare. O che non c’è niente di più noioso di una serie di accordi perfetti. Qualcuno dice che quel rigore è stato un capolavoro: una nota di Hendrix in un concerto di Vivaldi. Quel pallone, a pensar bene, nessuno l’ha più visto. Non è mai stato inquadrato dalle telecamere. Non è mai tornato giù. Forse, tirando al cielo, ha preso il cuore di Dio.

AUTORE

Raffaele Nappi scrive per Il Fatto Quotidiano e Il Messagero. Ama il calcio romanzato. Cronista di strada. Non crede alle redazioni, anche se sogna di lavorarci prima che scompaiano del tutto.

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