Una volta è un caso, due una coincidenza. A pochi giorni dai centoquindici giri sul tracciato di Valencia alla guida di una Lotus (la E20 del 2012) che hanno segnato il suo ritorno su una F1 dopo sei anni dal grave incidente nei rally che interruppe la sua carriera di pilota, Robert Kubica stringerà di nuovo il volante di una monoposto della massima categoria automobilistica. Il 2 luglio, sempre sulla E20, girerà sul circuito di Goodwood, in occasione dell’annuale edizione del “Godwood Festival of Speed”, la rassegna motoristica, dedicata alle vetture storiche, che si tiene all’alba di ogni estate.
Per il trentaduenne polacco, la salita di un altro gradino lungo la scala che lo può portare a essere nuovamente un pilota di F1, è una notizia speciale. Perché quella che può essere la normalità per un pilota, cioè tornare a calarsi in un abitacolo dopo un incidente, per lui ha assunto le sembianze di un sogno a causa di un destino avverso, che il 6 febbraio 2011 lo volle al centro di uno schianto pauroso mentre era impegnato in una prova del rally di Andora. Fuoripista ad alta velocità, guard-rail che entra nell’abitacolo, frattura alla gamba destra e gravi lesioni al braccio e alla mano destra che sembrarono addirittura pregiudicarne l’utilizzo. Un esito scongiurato da delicati interventi chirurgici, che però avevano fatto intravedere il capolinea alla carriera del corridore di Cracovia.
Ma lui non si è mai perso d’animo. Nonostante varie operazioni, la lunga riabilitazione, l’inevitabile susseguirsi dei mesi e il conseguente rischio che il suo nome uscisse dal giro del Circus, ha sempre pensato di poter ritornare a guidare e ha cominciato a porsi traguardi intermedi per farcela. Innanzitutto, risalire in macchina. Una volta che ci è riuscito, ha disputato tre stagioni nei rally, conquistando, grazie a cinque successi con la Citröen, il titolo mondiale 2013 nel WRC-2 (“World Rally Championship-2”).
Però l’obiettivo di Kubica, quello in fondo al suo cuore, è sempre stato la F1. Quando vi approdò, sognava un giorno di diventare campione del mondo. Oggi, dopo le ottime risposte avute a Valencia e l’altrettanta soddisfacente impressione suscitata in coloro che gli hanno proposto il test – a cominciare da Alan Permane, direttore delle operazioni in pista della Renault, col quale era rimasto in ottimi rapporti dopo il 2010 – la rincorsa a quel sogno è ricominciata perché ne è stato realizzato un altro ancor più importante: poterlo sognare, quel sogno. Cioè poter riprendere a correre in F1.
Un traguardo molto più vicino quando, nello scorso Gran Premio del Canada, è apparso in un collegamento televisivo affermando che sarebbe ricomparso nel paddock di un gran premio soltanto in tuta e con un casco in mano. Parole chiare per idee altrettanto chiare: Kubica vuole rientrare nel proprio ambiente da attore principale, non da comparsa. E forse non è un caso che test e dichiarazioni siano coincisi col week-end di Montreal. Un tracciato che ha segnato la sua carriera: lì ha conquistato la prima e unica vittoria in F1 (2008), lì il primo e unico giro veloce (2010), lì fu protagonista di un altro momento drammatico. Era il 2007, la sua BMW-Sauber in prossimità del tornantino Epingle si disintegrò contro le barriere dopo un leggero contatto con la Toyota che la precedeva. Ne uscì illeso, a parte un lieve trauma cranico e una distorsione alla caviglia. Saltò la successiva gara d’Indianapolis solo perché glielo imposero i medici. Poi, tre settimane dopo, era di nuovo già in pista.
L’auspicio è che ci riesca anche stavolta. Sarebbe il premio più bello a quest’impasto umano di tenacia, speranza e combattività. E se annovera precedenti sfavorevoli – negli anni Ottanta, Jabouille e Pironi dovettero chiudere la carriera proprio dopo due impatti violenti – la storia della F1, riguardo piloti al centro d’incidenti tremendi, offre anche esempi molto più beneauguranti. Per esempio, Niki Lauda e Mika Hakkinen. Entrambi campioni del mondo per due volte dopo, rispettivamente, un rogo e due giorni di coma. Piloti che vissero due volte. Come Robert Kubica. Per il quale, a questo punto, si attende lo step successivo a Goodwood. Perché se la prima volta è un caso e la seconda una coincidenza, la terza è una certezza.