Nell’affollata e movimentata Rio de Janeiro olimpica si respira un’aria pesante, soffiano raffiche impetuose che mettono di continuo a repentaglio la tenuta della traballante architettura dei Giochi. Tra la disorganizzazione e i contrattempi causati da una marcia di avvicinamento incerta e dal sovrapporsi delle già di per sé imponenti necessità dettate dall’appuntamento olimpico al precipitare della situazione interna al gigante brasiliano, ciò che più turba la quiete e la tranquillità è la pesante aria di sospetto che si respira all’interno del Villaggio Olimpico. Quelli che avrebbero dovuto essere un’opportunità storica per la storia dello sport e di un paese intero si stanno rivelando tra i Giochi Olimpici più problematici di sempre, e a complicare ulteriormente la questione intervengono di continuo le polemiche e gli scambi di accuse tra atleti e delegazioni che riguardano i sospetti di doping, oramai reiterati con cadenza quotidiana e divenuti di dominio pubblico. Alla faccia di qualsiasi ideale decoubertiniano, alla faccia di ciò che dovrebbe essere il reale senso dei Giochi, è il doping che da mesi rappresenta il lungo e aggrovigliato filo rosso fungente da trait d’union tra le variegate componenti del caleidoscopio olimpico. La triste e a tratti demoralizzante vicenda delle indagini unilaterali sul doping nel sistema sportivo russo, culminata nelle infamanti e lacunose accuse di “doping di stato” da parte della WADA, è oramai nota, ma dopo l’emersione di un furioso dibattito mediatico sul doping il clima di sospetto non ha fatto che appesantirsi, e numerosi atleti hanno esposto il loro malessere per il complesso stato di cose, o la loro critica per le maniere con cui oggigiorno il doping viene affrontato, con dichiarazioni facilmente interpretabili, in diversi casi addirittura sin troppo chiare e palesi.
È stato in particolare il mondo del nuoto a farsi latore di un’insofferenza generalizzata, ma al tempo stesso a presentare il volto più inquietante della deriva della contestazione contro il doping e i bari in una vera e propria caccia alle streghe. La piscina si fa campo di battaglia, rivalità sportive si tramutano in asti personali e il pubblico del nuoto scopre la polarizzazione tra innocentisti e colpevolisti ogniqualvolta si ritrovano a competere atleti sospettati di aver fatto uso di sostanze dopanti o incorsi in squalifiche, da loro scontate appieno, negli anni scorsi. In questo clima arroventato, colui che è macchiato dall’onta del doping o è sospettato di esserlo appare come un nemico, un corpo estraneo da bandire, né al tempo stesso alcuno spazio è lasciato per concedere riabilitazioni o giustificazioni. L’implacabile ostracismo messo a punto dal sistema per autoconservarsi lavora seguendo un meccanismo totalizzante, e nel mondo del nuoto olimpico si assiste a qualcosa di mai visto prima, a fuoriclasse carichi di medaglie e più anonimi concorrenti sdoganati nel feroce assalto ai suddetti corpi estranei, dei quali si cerca di negare in qualsiasi modo la possibilità di un riscatto sportivo. Spiace, ad esempio, assistere alle pesantissime frasi rivolte da Michael Phelps nei confronti della russa Julija Efimova, che dopo aver scontato sedici mesi di squalifica ha conquistato la medaglia d’argento nei 100 metri rana. Phelps ha definito “un giorno triste per lo sport” quello in cui alla nuotatrice russa è stata concessa l’autorizzazione per il ritorno in vasca. Parole pesanti e accuse ingenerose, quelle del “Cannibale di Baltimora”, del miglior nuotatore di tutti i tempi, di un atleta che ha riscattato in più occasioni le diverse difficoltà incontrate nella propria esistenza sommergendole con un’ineguagliabile marea di medaglie d’oro olimpiche, che ora vediamo unirsi al coro conformista di diversi professionisti uniti nel tiro al bersaglio, nel “dagli all’untore!” e nella demonizzazione dello spauracchio costituito dagli atleti dopati o ex tali. Personificazione del “nemico”, agli occhi dei nuotatori olimpici, è l’enigmatico Sun Yang, oro nei 200 metri e argento nei 400 metri stile libero sul quale sono piovuti da più parti insulti decisamente coloriti, tra cui si segnalano le sprezzanti dichiarazioni del vincitore dei 400, Mack Horton e le uscite ai limiti della querela per diffamazione del francese Camille Lacourt circa le presunte urine viola del 25enne di Hanghzou, su cui grava una sospensione di tre mesi inflittagli nel 2014 per la positività ad uno stimolante.
Nel nuoto sta andando dunque in scena una vera e propria resa dei conti, una lotta senza quartiere che sicuramente non aiuterà a risolvere i problemi della diffusione delle pratiche dopanti all’interno del circuito agonistico ma contribuirà esclusivamente ad alimentare la spirale dei sospetti e a intossicare l’ambiente interno a un mondo in genere distintosi per il fair play che lo caratterizzava. Ciò funge da perfetta rappresentazione della tensione palpabile nel corso di queste Olimpiadi, durante le quali su ogni prestazione sportiva di livello non potrà non aleggiare istintivamente un’ombra di incertezza, una pregiudiziale che rischia di avvelenare la sana competizione sportiva privandola della sana genuinità e dell’istintivo effetto emotivo da essa causata negli appassionati. Il periodo del maccartismo, la fase storica in cui gli USA furono avvelenati da una vera e propria “caccia alle streghe” volta a stanare eventuali infiltrati comunisti nell’economia e nelle istituzioni, rivive oggi alle Olimpiadi del sospetto, durante le quali ogni illazione è lecita e chiunque può ergersi a giudice e condannare senz’appello. Il mantra del doping endemico e del sospetto diventa anche comoda attenuante per sconfitte e obiettivi mancati, come testimoniano le fresche parole di Aldo Montano, lesto a tirare in ballo l’incertezza circa la partecipazione degli schermisti russi al torneo di sciabola nel commentare con la stampa italiana la sua sconfitta agli ottavi di finale contro Nikolay Kovalev, accusato per il semplice fatto che “avrebbe potuto non esserci”. Il doping conferma così la sua duplice natura: spauracchio, ma al tempo stesso deus ex machina da invocare per questioni di comodo.
L’Olimpiade del maccartismo sportivo si prepara ora a affrontare l’inizio delle gare di atletica leggera e, assieme ad esse, dell’ennesima ridda di polemiche. Essa sinora si sta presentando come un’occasione mancata nel campo della lotta al doping e alla sua diffusione, dato che gli atleti stanno contribuendo in prima persona a proporre soluzioni semplicistiche, demagogiche e sicuramente di comodo più utili a soddisfare la bramosia di scoop dei media che a favorirla attivamente. L’insofferenza, tracimando, si trasforma in una critica indistinta e inefficace, più utile a individuare simboli e bersagli piuttosto che responsabili. In piccolo, si ripetono le stesse manchevolezze con cui la WADA e la IAAF hanno approcciato il problema del doping nel mondo sportivo russo, gettando le basi per la deflagrazione di un conflitto del quale si stenta a ipotizzare le evoluzioni future e la conclusione.