“Il resto di Sara” e la totalità di tutte le altre donne: tra sport e romanzo al femminile con la scrittrice e giornalista Valeria Ancione
Intervista a Valeria Ancione, giornalista del Corriere dello sport, ora in libreria con “Il resto di Sara”, Arkadia Editore
Valeria Ancione è una giornalista che scrive per il Corriere dello Sport. La sua passione per tutto ciò che orbita con il talento e lo sfidare se stessi e gli altri viene da lontano. Da quando era ragazza e in Sicilia giocava a basket. Poi ha deciso che quelle mani potevano benissimo andare a canestro con analisi giornalistiche centrate, nonché su battaglie importanti in tema di calcio femminile e di sua legittimità di esistenza, ma non solo. Scrivere è diventata un’esigenza quanto il trasformismo per Fossati. Quindi, non stanca, si è dedicata anche al romanzare fuor di professione e in maniera vincente. Adesso è in libreria con il suo ultimo romanzo “il resto di Sara”. Un libro “visuale”, dove le immagini narrative sono molto nitide. Le abbiamo fatto qualche domanda, tra passione sportiva e paragoni tra casa editrice e squadre di calcio.
Ciao Valeria, grazie per aver accettato di parlarci di te in una chiave più sportiva. Andiamo subito al dunque: Siciliana, la tua prima passione è il basket. Da ragazza diventi anche capitana della squadra. Poi dalla “pratica” sei passata alla “teoria”. Il giornalismo. Quando hai deciso che lo sport avrebbe animato l’inchiostro della tua penna?
“Al basket ho dato 14 anni della mia vita, tempo, amore e passione. Non sono andata oltre la serie C, non ero proprio un fenomeno, però sono stata il capitano di una squadra unica ed eccezionale, che perdeva sempre e non si è disunita mai. Ho avuto tantissimo. E pensa che sognavo di morire in campo, dopo una partita soffertissima e vinta grazie all’ultimo mio tiro sulla sirena. Fa ridere? Un po’, ma questo è stato il mio primo sogno. Poi ho lasciato Messina, sono andata a Roma a studiare e capire cosa potevo diventare, ho chiuso piano piano col basket e aperto l’altro sogno: la scrittura. Al Corriere dello Sport ci sono finita per caso. Era l’anno dei Mondiali del ‘90, di Schillaci: c’è stata la chiamata, qualcosa mi ha fatto pensare che lo sport potesse essere la mia strada. Ma quanta fatica ho dovuto fare! Del basket pensavo di sapere tutto e non sapevo niente. Non basta saperlo giocare per poterlo raccontare. Vale per tutti gli sport. Il giornalismo sportivo è molto tecnico e occasionalmente romantico, l’ho capito sul posto.”
Nel 2019, dopo l’esordio con Mondadori del tuo primo romanzo “La dittatura dell’inverno” esce “Volevo essere Maradona”, nel frattempo la tua “formazione domestica” si arricchisce di tre bellissimi figli. Nel titolo c’è tutta la speranza di una calciatrice di farsi strada, come mai la decisione di affrontare il tema delle speranze dietro un pallone al femminile?
“I figli però sono arrivati molto prima del mio debutto come scrittrice. “Volevo essere Maradona” è una biografia romanzata di una grande calciatrice, Patrizia Panico. E’ sì è un libro sul sogno di una bambina che vuole fare “il” calciatore ed è diventata la migliore. Era una storia forte, di determinazione, di sogni impossibili, di periferia, di pregiudizi, di differenze di genere, di bullismo. C’era tutto questo quando Patrizia ha iniziato negli anni 80, e drammaticamente c’è ancora. Nel 2013 ho iniziato a occuparmi di calcio femminile e ho fatto la battaglia con le calciatrici per ottenere rispetto, per essere riconosciute, per uscire dall’ombra. Sono stati anni intensi che mi hanno dato tanto dal punto di vista umano e professionale. Ho messo il punto ai Mondiali, non avevano più bisogno di me. Scrivere questa storia è stato un esercizio per parlare ai miei figli da pari, senza giudizi e pregiudizi, con gli errori non corretti, perché scrivendo in prima persona ero quella bambina. E’ stato emozionante raccogliere i ricordi di Patrizia e potermi fingere lei.”
Adesso sei uscita in libreria con un romanzo di piccole storie di vita, con una casa editrice coraggiosa e che sa di famiglia, Arkadia. Un po’ l’Atalanta dell’editoria. Si intitola “Il resto di Sara”. Tra parentesi suggerisco senza spoilerare, di leggere pagina 38 del libro, dove si definisce in una delle maniere più felici l’amore. Ci dici senza ovviamente intaccare la curiosità di cosa parla?
“E’ una storia corale. C’è una protagonista assente, Sara, su un letto operatorio, e tante vite a lei legate che entrano ed escono dal passato, dai loro intrecci, dai loro errori e si ritrovano nella speranza delle correzioni e nell’attesa di Sara. Anche questo è un romanzo al femminile, non per donne, ma che le racconta. E’ ambientato a Messina, la mia città a cui sono maledettamente legata come lo sono a tutta la Sicilia. Tanto che non è stato facile decidere dove ambientare la storia, infatti non ho scelto, ma lo Stretto mi ha chiamato… Tra l’altro l’ho scritto proprio lì. L’Atalanta dell’editoria mi sembra un buon auspicio”.
Nonostante il panorama italiano abbia notevoli esempi di giornalismo al femminile, tutto viene sempre ricordato per trasmissioni televisive con vallette che non sono giornaliste e per un mondo coniugato prevalentemente al maschile. Eppure esempi pregevoli di giornalismo di donne ne esistono eccome. Perché secondo te è così difficile fare un percorso nel giornalismo sportivo per una donna?
“Perché lo sport, di squadra essenzialmente, è maschio. Il calcio in particolar modo, ma anche il basket, non la pallavolo. E quindi è diffuso ancora un forte maschilismo, duro a morire. Il discorso è molto lungo, ma per la mia esperienza è tutto rinchiuso in quella parola. Nella sua centenaria storia il Corriere dello Sport ha avuto solo 6 donne, 5 redattrici e una grafica. Siamo rimaste in due, mi pare che questi numeri parlino da soli.”
Tu hai una sorta di doppia anima. Giornalista sportiva e scrittrice intimista. Sono due aspetti paralleli o anche nello sport cerchi il “lato introspettivo” delle storie?
“L’anima è la stessa. L’attrazione è la stessa, sia che racconti un personaggio vero sia uno di fantasia. Quindi sì anche nel giornalismo mi muovo da scrittrice, specie quando intervisto mi piace chiedere non se sta bene nel modulo ma nella vita. Mi piace scavare e tirare fuori le persone non i personaggi. Forse per questo non c’entro tanto con un giornale così tecnico, o al contrario c’entro molto perché è giusto fare il pelo a un fuorigioco ma è altrettanto giusto raccontare gli uomini e le donne che sono nel corpo dell’atleta”.
Cosa è per te scrivere?
“Mi vengono mille cose in testa. Ma senza dirne troppe, scrivere è la mia vista oltre, ed è anche l’unica cosa che so fare per lavorare, per amare e speriamo farmi amare”