«Le nostre vittorie stanno portando ottimi risultati, tantissime persone, oggi, attraverso le unità spinali italiane, hanno cominciato ad inserirsi nello sport paralimpico. Per me questa è già una medaglia». A dirlo è Raimondo Alecci, catanese, campione paralimpico di tennistavolo, vincitore di nove titoli italiani e due scudetti. Gioca con una stampella, con la quale si tiene in equilibrio, mentre nella mano destra ha la racchetta. Questa è la sua seconda Paralimpiade e l’emozione è sempre fortissima. Un atleta che, a quasi 34 anni, non ha paura di raccontarsi mostrando le sue fragilità. «Mi sono domandato spesso perché sia capitato proprio a me. Poi, però, ripenso a tutto quello che ho conquistato: ho partecipare a 2 olimpiadi, a 2 mondiali e a 4 europei. Non lo so se senza disabilità sarebbe accaduto lo stesso». Una forza che pochi hanno e che gli ha permesso oggi di arrivare a Rio, dove rappresenterà l’Italia nel tennistavolo insieme ad Andrea Borgato e Peppe Vella. «L’handicap è soprattutto una sfida con noi stessi. Lo sport è riuscito a farmi integrare nella società. Certo, c’è ancora gente che ti vede con qualche pregiudizio e ci sarà sempre. Per me i pregiudizi sono barriere mentali».
Dopo un ottimo quinto posto alle Paralimpiadi di Londra, sei a Rio. Sei emozionato?
«Molto, anche se a dirti la verità a Londra sentivo più la pressione perché era la mia prima Paralimpiade e non sapevo bene a cosa andavo incontro. A Rio, invece, so già come funziona, ma non vedo l’ora di essere lì».
Come è nata la passione per questo sport?
«Grazie ai miei genitori. Sono stati loro a portarmi all’Iride Catania, una società di sport paralimpici dove c’erano diverse discipline. Io sono sempre stato appassionato dagli sport con la palla e lì l’unico sport con la palla era il tennistavolo. Fu così che presi per la prima volta la racchetta in mano. Avevo 9 anni».
Quante ore di allenamento fai al giorno?
«Dalle 2 alle 4 ore al giorno soprattutto negli ultimi mesi. E’ necessario per prepararsi al meglio alla competizione più importante a cui un atleta possa partecipare».
Hai deciso di gareggiare dalla classe 6 alla classe 5, ovvero dalla carrozzina al tennis tavolo in piedi. Perché questa scelta?
«Ho fatto questa scelta insieme al direttore tecnico Alessandro Arcigli quasi 14 anni fa, al mio ritorno al tennistavolo, perché ero stato fermo 10 anni per finire gli studi. Quando ho ripreso il livello in classe 5 ero diventato altissimo e le possibilità di risultati a breve termine erano quasi impossibili. Da qui la decisione, anche se per molti addetti ai lavori la mia possibilità di ottenere ottimi risultati in classe 6 era impensabile».
Il tennistavolo in piedi è certamente un altro sport rispetto a quello in carrozzina.
Infatti tu giochi con una mano. Quanto è difficile e soprattutto quanta agilità, concentrazione e forza ci vogliono?
«Si gioco con una stampella con la quale mi tengo in equilibrio mentre nella mano destra tengo la racchetta. Il passaggio dalla classe 5 alla 6 di sicuro non è stato facile ma grazie a tanti sacrifici, alla voglia di vincere e soprattutto alle tante persone che mi sono state vicine, sono riuscito a diventare uno dei migliori atleti del mondo».
In una recente intervista hai detto che lo sport ti ha fatto integrare nella società. Quanto è difficile per un diversamente abile fare sport?
«Si, lo sport mi ha fatto integrare nella società, mi ha fatto conoscere tantissima gente e mi ha permesso di conoscere tanti paesi che non avrei mai potuto visitare se non avessi fatto sport. Non è facile per un diversamente abile praticare sport soprattutto perché ci sono tante barriere architettoniche in giro per palestre o per gli impianti sportivi. Per noi portatori di handicap è anche una sfida con noi stessi. Negli ultimi anni però qualcosa è migliorata, soprattutto dopo Londra 2012 che è stata la Paralimpiade più seguita grazie ai media».
Alex Zanardi è ormai l’atleta simbolo delle Paralimpiadi. C’è una sua frase che dice: “Non volevo dimostrare niente a nessuno, la sfida era solo con me stesso, ma se il mio esempio è servito a dare fiducia a qualcun altro, allora tanto meglio”. Ti rispecchi in questa frase?
«La penso esattamente come Alex. Noi siamo l’esempio di come nello sport non devono esserci barriere. Oggi più che mai è necessario spronare tutte quelle persone che sono rinchiuse in casa e si vergognano ad uscire. Le nostre vittorie stanno portando ottimi risultati, tantissime persone oggi, attraverso le unità spinali italiane, hanno cominciato ad inserirsi nello sport paralimpico. Per me questa è già una medaglia».
Quanta forza ci vuole per accettare l’handicap?
«Non è facile. Ti dirò la verità, mi sono domandato spesso perché sia capitato proprio a me. Poi, però, ripenso a tutto quello che ho conquistato. Ho partecipare a 2 olimpiadi, a 2 mondiali e a 4 europei. Non lo so se senza disabilità sarebbe accaduto lo stesso. Certo, c’è ancora gente che ti vede con qualche pregiudizio e ci sarà sempre. Fortunatamente io ho accanto una famiglia straordinaria e degli amici che mi hanno accettato per come sono. Sono sempre più convinto che i pregiudizi sono barriere mentali».
Hai vinto nove titoli italiani e due scudetti, hai partecipato a quattro europei e a due mondiali. La tua prima olimpiade è stata a Londra nel 2012 e adesso sei in viaggio per la tua seconda Olimpiade a Rio. Quanto sei soddisfatto di te stesso?
«Sono completamente soddisfatto di me stesso. Fino a novembre 2015 non ero tra i qualificati, poi, quasi magicamente, a dicembre sono andato all’ultimo torneo di qualificazione in Costa Rica e ho vinto la medaglia d’oro che mi ha regalato la qualificazione a Rio».
Qual è stato il momento più difficile nella tua carriera sportiva?
«Sicuramente il momento più difficile è stato quando ho perso il quarto di finale al mondiale coreano. Vincevo al 5° set 10-5 contro il francese Grundeler, mi mancava un solo punto per andare in semifinale, poi persa ai vantage. E poi ultimamente a Novembre, quando ero fuori dai giochi di
Quanto è importante la famiglia nella tua vita?
«E’ la cosa più importante della mia vita e se sono arrivato fino qui è merito loro. Io vivo per loro».