“Una società di calcio deve saper guardare al futuro, questa è un’operazione che ha tutte le premesse per avere successo”. Diceva così l’allora presidente Sergio Cragnotti, nel maggio del 1998, all’indomani della quotazione in Borsa della “sua” Lazio. Per lui sarebbe stata certamente “un’operazione di successo”. Dopo di lui, fu la volta di Franco Sensi che decise di quotare la Roma e poi dell’Avvocato Gianni Agnelli che fece lo stesso con la Juventus. Tutti loro, evidentemente, erano convinti che la quotazione in Borsa delle loro società di calcio sarebbe stata un vero e proprio affare. Quasi vent’anni dopo la quotazione della Lazio (prima italiana ad entrare in Borsa), i tempi sono maturi per un bilancio. E allora, come sono andate realmente le cose?
Per le società italiane, la quotazione, almeno nella fase iniziale, fu certamente un affare. Dal mercato infatti, nei bilanci delle società di calcio, sono piovuti decine di allora, miliardi di lire. La Lazio di Cragnotti, che fu la prima a sbarcare a piazza Affari, si presentò con un prezzo di 11500 lire (5,9 euro) e rastrellò circa 120 miliardi di lire (circa 60 milioni di euro); andò meglio alla Roma, che fece lo stesso passo due anni dopo nel 2000, presentandosi con un prezzo di 5,54 euro e dagli investitori ottenne oltre 70 milioni; infine, arrivò anche la Juve che fece meglio di tutte: presentandosi con un prezzo più basso (3,35 euro) delle due romane ottenne 145 milioni di euro complessivi da dividersi con la controllante IFI della famiglia Agnelli (80 milioni) e l’allora amministratore delegato Antonio Giraudo (che dall’operazione si portò a casa oltre 5 milioni).
Da questo punto di vista dunque, verrebbe di dare ragione a Cragnotti. L’“operazione” fu certamente un successo e senza ombra di dubbio. Ma se il punto di vista fosse invece quello dell’investitore, che su questi titoli avesse investito dei soldi, guardando ai numeri (pubblicati su Milano Finanza del 22 aprile scorso), la risposta non potrebbe essere che una: un vero e proprio bagno di sangue. Altro che affare. Dove il valore dei titoli, dal giorno della collocazione sul mercato (che nel gergo viene chiamata IPO, Initial Public Offering, cioè offerta pubblica iniziale) sono caduti quando va bene, nel caso della Juventus, di quasi il 50%; ma quando va male, è il caso della Roma, i titoli si sono fortemente deprezzati (-82% dal prezzo iniziale) e quando va malissimo, è il caso della Lazio, l’investimento iniziale si è quasi azzerato (-97%). Si potrebbe soltanto aggiungere, come diceva sempre Viktor Ukmar, l’allora presidente della Covisoc (la società di controllo delle società di calcio quotate in Borsa) che “i titoli legati al calcio sono sconsigliati agli orfani e alle vedove”. Come a dire che non sono titoli sicuri. Eppure come ha ricordato Marco Bellinazzo sul Sole 24 Ore il consiglio di Ukmar fu “inascoltato” dall’allora presidente della Consob, poi diventato ministro dell’Economia qualche anno più tardi, Tommaso Padoa Schioppa il quale, forse su pressione di alcuni presidenti (tra i quali ci sarebbe stato lo stesso Cragnotti) avrebbe consentito l’accesso in Borsa delle società di calcio, dopo aver modificato il regolamento che ne impediva la quotazione. Nonostante, come scriveva anche il Financial Times, il calcio italiano fosse considerato “un affare ad alto rischio”. Quindi, anche con un potenziale alto rendimento ma prima di tutto, con il pericolo, per un investitore, di perdere tutto il denaro investito.
Ma perché così a rischio? Le ragioni sono diverse. Prima di tutto per l’assenza di solidità finanziaria. A fronte di patrimoni incapienti, ci sono state gestioni troppo “allegre” dal punto di vista finanziario (con risultati di esercizio in perdita durati anche per più anni) e dunque l’impossibilità per la società di erogare dividendi interessanti per gli investitori. Così come l’assenza di piani industriali (cioè programmi di lungo termine) in grado di convincere il mercato, a fronte di operazioni sportive (come nel caso della Lazio di Cragnotti gli acquisti di Crespo e Mendieta) che sono sembrate molto più funzionali alla gioia del tifoso che all’equilibrio del bilancio (d’altronde una squadra di calcio è prima di tutto una fede). Infine il fatto che l’andamento del titolo sia troppo influenzato dai risultati sportivi. E ad oggi proprio i risultati sportivi hanno fatto si che il titolo della Lazio, nell’ultimo anno, sia riuscito a registrare un incremento del 10%. Lo stesso può dirsi della Roma (nonostante il passivo di 53 milioni) che ha beneficiato anche degli sviluppi (a quanto pare positivi) sul fronte nuovo stadio con un’incremento del 1,7%. Fa storia a sé invece la Juventus :che oltre a dominare in campionato, sembra non avere rivali neanche a Piazza Affari. Da inizio anno il titolo ha infatti guadagnato il 125%. Ma in questo caso oltre i risultati sportivi pesano anche gli straordinari risultati di bilancio: la semestrale (cioè il bilancio di metà anno) ha chiuso con un utile di 72 milioni. Proprio come in campo, non sembra esserci partita.