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Quei luoghi comuni (da sfatare) sul Gran Premio d’Ungheria

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Una pista dove è impossibile superare. E dove chi fa la pole-position, ha già vinto. Senza contare che ci si corre in piena estate, quando Budapest è una sauna, quindi inutile aspettarsi chissà quali colpi di scena. Ci manca solo il “non succede mai niente, che barba, che noia” di una fortunata sit-com televisiva e poi si potrebbe fare del Gran Premio d’Ungheria il manifesto ideale contro l’insonnia. Eppure, guardando un po’ la sua storia, si nota come certe voci sul suo conto siano più luoghi comuni che critiche.

A cominciare dal discorso che all’Hungaroring sia impossibile sorpassare. Un’affermazione sulla quale è probabile che Nelson Piquet e Nigel Mansell non siano molto d’accordo. Impegnato in un duello ravvicinato col connazionale Senna durante la prima edizione (1986), il brasiliano della Williams s’involò verso il trionfo dopo aver inventato un sorpasso magistrale sulla Lotus: all’esterno, in staccata in fondo al rettilineo, intraversando tutta la vettura per rimanere in pista. Una delle più belle manovre nella storia della F1. Tre anni dopo, toccò al “Leone d’Inghilterra” sfatare le leggende. Piazzatosi dodicesimo in prova, in gara tenne quanto mai fede al suo soprannome. Già ottavo dopo il primo giro, al quarantesimo entrò in zona-podio con un sorpasso sulla McLaren di Prost e al cinquantottesimo, dopo il ritiro del leader Patrese, famelico come uno squalo davanti l’odore del sangue, balzò sull’altra McLaren, quella di Senna, per infilarla in un frammento rettilineo che non era il traguardo, approfittando anche del doppiaggio della Onyx di Johansson, ex di Ferrari e McLaren. Per Mansell, una vittoria straordinaria, frutto di una rimonta degna antenata di quella compiuta dieci anni dopo dallo United sul Bayern nella finale di Champions League.

Dai sorpassi impossibili al meteo immutabile. Che si dice? Ah già, che a Budapest ci sia sempre il sole e faccia un gran caldo. Ok. Ma se n’è mai parlato con Jenson Button e Daniel Ricciardo? No, perché nel 2006 l’inglese, al volante della Honda, conquistò la sua prima vittoria in F1 dribblando, dalla quattordicesima posizione sulla griglia, le insidie dell’acqua come un Ryan Giggs delle quattro ruote. Nel 2014, invece, un tempo lunatico scombinò strategie e valori, permettendo all’alfiere della Red Bull di mettersi alle spalle le Mercedes, per poi andare a vincere dopo aver sorpassato a pochi giri dalla bandiera a scacchi la Ferrari di Alonso, che aveva azzardato l’ultimo pit-stop quando ne mancavano più di trenta.

Partiva quarto quel giorno, l’australiano. Eppure com’era la storia? Che su quei quattro chilometri di curve e frenate, chi parte in pole ha già vinto? Forse ci si è dimenticati del 2000, quando Hakkinen dal terzo posto bruciò Coulthard e Schumacher alla prima curva per andare solitario verso il primo posto, o del 2015, quando dalla stessa piazzola Vettel replicò il copione del finnico (al pari di Raikkonen, che da quinto svoltò secondo alla prima curva) per regalare alla Ferrari un successo insperato.

Verrebbe da aggiungere: e meno male mancavano i colpi di scena. Qualora però ancora non bastino, si prega di contattare Damon Hill o Felipe Massa. Nel 1997, l’inglese stava per fare dell’Arrows una specie di Leicester dell’automobilismo ante litteram: terzo in prova, favorito dalla simbiosi tra l’asfalto e le sue Bridgestone prese presto il comando della corsa, facendo il vuoto dietro di sé. Senonché il cambio si bloccò in terza marcia e all’ultimo giro fu costretto a cedere alla Williams di Villeneuve. Chiuse secondo e gli andò bene, pensando al brasiliano della Ferrari nel 2008. Bruciate le McLaren di Hamilton e Kovalainen al via, Felipe pregustava il gradino più alto del podio quando fu appiedato dal motore a tre giri dalla fine.

Per finire, si dice anche che il Gran Premio d’Ungheria sia incapace di regalare emozioni. Bene. Se qualcuno ha un paio d’ore libere, apra sul suo pc il file dell’edizione ‘98. Quella di un capolavoro della F1 odierna. Autori, Michael Schumacher e la Ferrari. Terzi in prova e distanti dalle McLaren, ribaltarono i pronostici in gara, inventandosi una strategia su tre soste col pilota tedesco che, tra il secondo e il terzo pit-stop, realizzò diciannove giri a ritmo da qualifica che lasciarono di sale gli avversari e sbalordirono pubblico e osservatori.

A quanto pare, dunque, girano molte voci sul Gran Premio d’Ungheria. Ma proprio questa sembra essere l’unica con un po’ di fondamento.

Classe 1982, una laurea in "Giornalismo" all'università "La Sapienza" di Roma e un libro-inchiesta, "Atto di Dolore", sulla scomparsa di Emanuela Orlandi, scritto grazie a più di una copertura, fra le quali quella di appassionato di sport: prima arbitro di calcio a undici, poi allenatore di calcio a cinque e podista amatoriale, infine giornalista. Identità che, insieme a quella di "curioso" di storie italiane avvolte dal mistero, quando è davanti allo specchio lo portano a chiedere al suo interlocutore: ma tu, chi sei?

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