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#Prequel, prima del Professionismo: Intervista ad Arrigo Sacchi

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#Prequel, prima del Professionismo: Intervista ad Arrigo Sacchi

 Per i 74 anni compiuti oggi da Arrigo Sacchi, vi riproponiamo l’intervista al “profeta” del calcio italiano in cui ci ha raccontato la sua infanzia vissuta a Fusignano, l’ammirazione per la Nazionale Ungherese e per il calcio totale olandese, il suo primordiale sogno diventare un direttore d’orchestra.

Profeta, visionario, rivoluzionario. Sono solo alcuni degli appellativi più in voga che non basterebbero a descrivere la complessità di uno degli allenatori più analizzati e discussi della storia recente. Testardo, riflessivo, controcorrente. Queste, invece, sono alcune caratteristiche del carattere di un uomo assimilato a un marziano piombato all’improvviso su un pianeta diffidente verso le novità, come il calcio italiano. Fusignano, Alfonsine, Bellaria, Cesena, Rimini, Fiorentina, Parma, Milan, Atletico Madrid, Parma e Nazionale Italiana. Sono le numerose tappe della carriera di allenatore, un laborioso percorso teorico iniziato nel suo paese di origine nonostante una modesta abilità nella veste di calciatore, e proseguito sui banchi del Corso di Coverciano, dove Sacchi era uno dei migliori allievi. Nel suo palmarès figura un Campionato Primavera vinto con il Cesena prima della trionfale epopea sulla panchina del Milan, dove Sacchi ha vinto uno scudetto, due Coppe dei Campioni, due Supercoppe Europee, due Coppe Intercontinentali e una Supercoppa Italiana.

Con la Nazionale sfiorò il titolo mondiale nella finale del ’94 contro il Brasile, un risultato che divise i tifosi degli Azzurri in due fazioni, una formata da chi ringraziò l’altra da chi contestò le sue scelte tattiche. L’agitatore culturale della panchina ha sicuramente avuto il merito di far emergere nei dibattiti sul calcio italiano il confronto e lo scontro tra due opposte filosofie, due modi di pensare il calcio, due diversi stili che hanno animato le discussioni, nei bar di paese come sui giornali, negli studi televisivi o negli spogliatoi di Serie A. Durante il lasso di tempo dell’infanzia, il più nascosto al pubblico, un uomo come Arrigo Sacchi già cullava il sogno di sovvertire gli schemi, dalla sua piccola Fusignano, in provincia di Ravenna.

Buonasera signor Sacchi, questa rubrica nasce con l’intento di rievocare quel tratto di vita perlopiù sconosciuto al pubblico, l’infanzia e l’adolescenza di ex atleti ed ex professionisti del calcio. Cosa ricorda di quegli anni?

Sì, in realtà io sono stato un dilettante anche nel… professionismo. Ero un calciatore mediocre, ma ho sempre avuto una grande passione per il calcio, sin da bambino. Mi sovviene in mente un aneddoto a tal proposito. Nel 1954 avevo 9 anni, in quel periodo i televisori in circolazione erano ancora rarissimi, con la mia famiglia eravamo al mare. I miei genitori a un certo punto mi diedero per disperso, ma mio padre non si fece prendere dal panico perché già sospettava il luogo dove mi avrebbe ritrovato: ero in un bar a guardare una partita dell’Uruguay. In quel mese si stava disputando il Mondiale del 1954. Ero seduto su un tavolino perché la mia statura ancora non mi permetteva ancora di guardare adeguatamente la televisione stando seduto su una sedia.

Stava già prendendo appunti come un vero allenatore.

Ho avuto il buonsenso di smettere di giocare a calcio a 19 anni perché conoscevo i miei limiti, poi un po’ per caso mi sono ritrovato su una panchina. Ho giocato fino a quando ho accusato il mal di schiena, la squadra della mia cittadina stava retrocedendo e un uomo di grande cultura e intelligenza come Alfredo Belletti, purtroppo venuto a mancare 14 anni fa, mi disse “Fai tu l’allenatore”. Gli risposi che non mi sentivo capace, ma lui era convinto del contrario e infatti dopo un mese parlavo già come un allenatore. Dopo qualche settimana gli chiesi di comprare un libero, lui mi portò una maglietta con il numero 6 e disse: “Adesso se sei un bravo allenatore il libero lo costruisci con il lavoro e con le idee”. Mi fece capire che non c’erano i soldi, quella fu la prima vera importante missione che ricevetti nel mondo del calcio.

E da quel momento non si staccò più dalla panchina.

Sì, devo ringraziare Alfredo, un uomo che nella mia cittadina per 25 anni ha organizzato eventi culturali invitando grandi direttori d’orchestra come Claudio Abbado e Riccardo Muti. Era un uomo di straordinaria cultura che amava il calcio. Ha anche curato un’opera omnia di ben 1200 pagine che racchiude la storia di Fusignano. Gli dissi che se avesse dovuto scrivere di Milano non sarebbe bastata un’intera enciclopedia Treccani! (ride, ndr) Ho avuto la fortuna di conoscerlo e di averlo come maestro di scuola, di latino e di italiano, di calcio e anche di vita.

Ha mai avuto il sentore che un giorno sarebbe diventato un grande allenatore?

Qualcosa che si avvicinasse in quel senso… Come tutti i bambini cullavo il sogno di diventare un grande calciatore, ma i lavori che attiravano maggiormente la mia attenzione avevano qualche analogia con quello dell’allenatore di calcio perché mi sarebbe piaciuto fare il regista cinematografico o il direttore d’orchestra. In realtà pensavo che per fare il direttore d’orchestra sarebbe bastato muovere velocemente la bacchetta…

Con la sua famiglia quindi non ha mai vissuto, come tutti i protagonisti di #Prequel, il classico scontro che nasce quando ai genitori viene recapitata un’offerta di un club, che spesso significa abbandonare la famiglia per trasferirsi lontano da casa?

Rifiutai una volta di andare a giocare a Bologna, avrei dovuto fare il pendolare. Non è stato un grande rimpianto perché ad esempio Massa, un grande dirigente e intenditore di calcio che lavorava per la Spal, squadra in cui ha giocato anche mio padre, non mi scelse dopo avermi visionato in un provino. E aveva tutte le ragioni per non scegliermi…

 E a scuola come andava l’allievo Sacchi?

Ero poco attento, mi sembrava di perdere continuamente del tempo. Volevo già immergermi nella vita vera.

Questa è una sorpresa in quanto lei, di primo acchito e almeno nel modo in cui appare sui media, evoca un teorico attentissimo ai dettagli…

Sì, ma a scuola mi impegnavo poco, non studiavo per niente e marinavo la scuola molte volte.

Pensa che oggi sia cambiato il modo di vivere il calcio e lo sport in generale per un bambino, come giudica il ruolo dei genitori in quest’epoca? 

Oggi è un disastro perché hanno tolto al bambino la prima scelta. Sembra una banalità ma ai miei tempi la frase ricorrente di ogni genitore nei confronti di un figlio è “Prima devi terminare gli studi, poi si vedrà”. Adesso, invece, la prima speranza della famiglia è che diventi un bravo calciatore, senza cercare di capire i reali desideri di un bambino. Gli tolgono l’autonomia e la gioia di fare qualcosa che lui sente realmente, il sogno dei genitori diventa quasi un obbligo per il figlio. E’ un disastro.

Crede che il web, i nuovi media e le nuove tecnologie abbiano influenzato negativamente questi processi tra genitori e figli?

In una certa misura credo di sì. Parlo del calcio dove, più di prima, non si pone mai l’attenzione sulla squadra, ma sempre sul singolo che diventa un eroe a dispetto del collettivo. Viviamo in un periodo abbastanza confuso. Io passo per un rivoluzionario del calcio, ma in Italia basta fare cose normali per essere indicati come rivoluzionari. Ho fatto solo cose normali, ho pensato che il calcio fosse uno sport di squadra, ho pensato che giocare bene sia un valore e che aiuti a crescere i singoli in autostima, in capacità e in creatività. Per me una vittoria senza merito non è una vittoria, ho interpretato sempre in questo modo il gioco del calcio e dello sport in generale in un paese che la pensava in modo opposto. Ero uno stratega in un paese di tattici. Sun Tzu diceva che un tattico senza strategia si avvia alla sconfitta.

Quindi sull’Italia in generale lei è sempre stato molto critico, sin da bambino…

Andai a fare un viaggio in Germania con mio padre e gli chiesi “Papà, ma perché loro sono i ‘crucchi’ e noi siamo i furbi se noi facciamo i lavori più umili e loro vanno in giro in Mercedes e ricoprono ruoli importanti?”. Capii subito che la furbizia come l’arrivismo non pagavano e che ogni risultato doveva essere raggiunto con merito. I tedeschi quando parlavano di noi sintetizzavano tutto in tre parole: mafia, spaghetti e catenaccio. In tutta la mia vita ho sperato di eliminare la terza voce perché gli spaghetti non mi sembravano un elemento negativo, mentre per quanto riguarda la mafia non potevo ovviamente essere in grado di eliminarla (ride, ndr).

Cosa vorrebbe trasmettere ai suoi nipotini al quale si sente legatissimo?

Che facciano quello che hanno piacere di fare nella vita. Per esempio, la mia nipotina più grande che ha 7 anni e mezzo è iscritta a una scuola di Ginnastica Artistica, ma ci va malvolentieri. Non sembra avere passione per questo sport, almeno per il momento. Sua madre insiste, ma sbaglia perché senza avere passione, entusiasmo e amore per ciò che si fa diventa tutto inutile, non ci potranno essere neanche i risultati. Quando ero bambino a me piaceva l’Ungheria, mia mamma mi disse “Ma son comunisti!” e io le risposi “Non ha importanza, giocano bene al calcio”. Mi piaceva il Brasile, il Real Madrid di Puskas e Di Stefano, amavo il bel calcio. Ho solamente pensato sempre che la furbizia non fosse un valore in un paese che in generale pensa sia il contrario.

 

 

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