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#Prequel, prima del Professionismo: Intervista ad Aldo Agroppi

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#Prequel, prima del Professionismo: Intervista ad Aldo Agroppi

In occasione dei 76 anni compiuti oggi da Aldo Agroppi, vi riproponiamo l’intervista in cui abbiamo scoperto come ha vissuto l’infanzia e l’adolescenza il toscano più polemico del calcio, durante un difficile dopoguerra italiano.

Genoa, Ternana, Potenza, Torino e Perugia sono le maglie vestite nella sua carriera da calciatore prima di sedersi sulle panchine di Perugia, Pescara, Pisa, Padova, Fiorentina, Como e Ascoli in veste di allenatore. Sono le tappe della carriera professionistica di Aldo Agroppi, conosciuto dagli appassionati di calcio anche per il suo carattere passionale e per le dichiarazioni senza peli sulla lingua. Una figura sicuramente mai banale, tagliente, in un contesto spesso mediaticamente imbolsito. Nato a Piombino e cresciuto calcisticamente nella squadra della cittadina toscana, prima di entrare nel calcio che conta Aldo Agroppi in realtà ha vissuto in prima persona le difficoltà di un’umile famiglia in un periodo in cui l’Italia stava raccogliendo i cocci di una guerra disgraziata.

Buonasera signor Aldo, grazie per aver accettato un’intervista in cui ci racconterà i suoi primi anni di vita. Potremmo partire proprio da quel 14 aprile del 1944…

Sì, sono nato sotto le bombe, per questo motivo sono ancora incazzato! Ovviamente non ricordo nulla di quei mesi perché ero troppo piccolo, ma i miei nonni e i miei genitori mi raccontavano che tenevamo tutte le finestre aperte per evitare che lo spostamento d’aria rompesse tutto. C’erano i rifugi, quando suonava l’allarme ci rintanavamo in questi ripari di cui qualcuno è ancora visitabile qui a Piombino. Vivevamo in una casa disadorna, per fare i nostri bisogni andavamo nell’orto. Ho conosciuto la povertà, l’essenzialità nel mangiare un un pasto al giorno, ma era anche un periodo in cui potevi lasciare le porte di casa aperte. Non si viveva di conti correnti, si viveva alla giornata ma gustavamo le cose belle e semplici della vita. Avevo un fratello che purtroppo è morto a 22 anni, ero molto legato a lui. Eravamo come il buio e la luna piena, lui calmo come il mio babbo e io irrequieto. Dormivamo nello stesso letto perché i miei non avevano soldi per comprarne due. Mia madre partì per andare a lavorare a Milano anche perché il suo rapporto con mio padre diventò piuttosto litigioso. Mio padre fu licenziato, insieme ad altri operai, dalla fabbrica in cui lavorava. I miei nonni, a cui ero molto legato, mi aiutarono molto in quel periodo.

 Un altro mondo…

 Eravamo bambini e giocavamo fino a sera tardi senza alcun pericolo, era un mondo più pulito. Il primo bacio tra me e la mia attuale moglie, che conobbi a 14 anni, avvenne solo a 17 anni.

Nel suo carattere, da bambino, si intravedevano già sfumature fumantine?

Sì, ero un bambino piuttosto vivace e spontaneo, ho preso da mia madre che era diversa da mio padre. Ho sempre combattuto per la libertà di pensiero perché amo la giustizia, sin da piccolo quando ho visto con i miei occhi abusi o soprusi li ho sempre denunciati. Le mie, da adulto, sono state battaglie vinte in partenza perché erano giuste, anche se poi a volte le perdevo perché mi scontravo con persone di grande potere. Non ho mai fatto una polemica per il solo gusto di farla, avevo sempre in mano delle prove e una motivazione che ritenevo giusta. Lo so che non piaccio a tutti, ma è il prezzo da pagare.

Non si è mai pentito di una sua qualsiasi esternazione?

No, assolutamente. Credo ancora in alcuni valori e nella ricerca della verità, non mi sento parte di questo mondo mediatico in cui conta più l’immagine che il contenuto. Siamo invasi da trasmissioni vergognose e per nulla istruttive, create solo ed esclusivamente per fare audience. Le danno in pasto ai giovani di oggi i quali a causa anche di questo schifo sono diventati quello che sono… Francamente mi vergogno solo a guardarle.

 Lei è nato in una città marittima poi divenuta un importante polo industriale. Il rapporto con il mare ha influito sulla sua personalità?

Dal terrazzo della mia casa vedo quotidianamente navi partire e arrivare a Piombino. Per me è un mare bellissimo, da qui vedo addirittura l’Isola del Giglio. Piombino è una città adorabile, non ha eguali forse perché la guardo con occhi amorevoli. Sono nato a Piombino e anche mia moglie è nata qui, ci fidanzammo quando io avevo 14 anni e lei 12. Quando partimmo insieme per la mia avventura calcistica ci dicemmo che un giorno saremmo tornati qui perché qui è la nostra vita. E’ una cittadina industriale anche se c’è una parte turistica che merita di essere visitata. Sarebbe potuta diventare un gioiello per il turismo se in quegli anni non avessero scelto di puntare tutto sull’industria. Noi qui abbiamo anche gli scogli, ci sono dei fondali bellissimi, non è come la costa adriatica dove il paesaggio è prevalentemente sabbioso. Per arrivare a Piombino bisogna passare obbligatoriamente davanti alle fabbriche e non è certo un bel vedere, anche se queste strutture hanno dato lavoro a parecchie persone. E’ una città con un turismo di passaggio perché qui molti turisti vengono per imbarcarsi per l’Elba, per Pianosa, per la Corsica…

 Lei entra nel mondo del calcio, da ragazzino, con la maglia del Piombino. E’ rimasto legato a qualche persona che ha conosciuto in quegli anni?

L’uomo più importante del mio periodo nel calcio giovanile si chiamava Emo Capanna. Io giocavo nello Sporting Club e facevamo dei tornei locali, avevo questo allenatore che era una persona meravigliosa morta da tantissimi anni. In generale sono rimasto in buoni rapporti con tutti i piombinesi anche se ce ne sono circa un migliaio o forse di più che li reputo dei deficienti ! Questi ultimi non hanno accettato il mio successo che tra l’altro io non ho mai ostentato. Sono amico di tutti, quando vado in piazza scherzo con chiunque, quelli che mi conoscono lo sanno. Quando ho scritto (tutto rigorosamente a penna) “Non so parlare sottovoce”, un libro che ha avuto un ottimo successo, le persone hanno scoperto un altro Aldo Agroppi. La mia immagine pubblica coincide con un personaggio vulcanico ed espansivo, ma in realtà io soffro di depressione da 40 anni. Non ho mai capito queste persone che soffrono di invidia, ho avuto una vita normale, sono stato un calciatore di discreto successo, ma non certo un grande luminare che ha inventato il vaccino per il vaiolo, ad esempio. Un gruppo di juventini di Piombino non mi parla più da una vita, mi sembra esagerato…

Come fu vissuta dalla sua famiglia il suo primo approccio con il mondo del calcio che conta, quando si trasferì al Torino a 17 anni?

Ero talmente affezionato al mio allenatore, Emo Capanna, che quando partii per Torino gli promisi che se avessi fatto strada gli avrei comprato una camera da letto nuova, anche per sua moglie. Partii con la morte nel cuore perché lasciavo la mia famiglia, i miei amici e le gare di tuffi dagli scogli, il mio paese. A scuola non ero una cima, l’alternativa era lavorare in fabbrica e quindi non restava che provare a sfondare nel calcio. Durante i primi mesi al Torino mi aiutò molto Lido Vieri, piombinese e grande portiere del Torino. Partire per Torino è stato anche una fortuna perché da lì tutti i lunedì a trovare mia madre. Il babbo veniva un po’ meno, mio fratello nel frattempo trovò un bel lavoro alla Triennale di Milano. Durante i primi 3 anni non ho mai giocato nella Primavera, ma non ho mai mollato.

 Un inizio non semplice, cosa raccontava ai suoi genitori?

Telefonavo a mio padre dicendogli “Papà, ho giocato e abbiamo vinto”, mentivo per una giusta causa anche perché sapevo che non mi avrebbe mai scoperto, all’epoca non c’erano televisioni e siti internet per reperire informazioni sul calcio giovanile. In quei 3 anni pensai anche di smettere, però sarei tornato a Piombino da uomo fallito. Allora mi dissi: “No, io devo arrivare alla meta anche per far felice il mio babbo che sta soffrendo perché ha perso un figlio”. In quella squadra c’erano sicuramente giocatori più forti di me, ma erano meno intelligenti. Fumavano e andavano in discoteca, io invece ho cercato di seguire un corretto stile di vita da sportivo. Ho sacrificato la mia gioventù perché desideravo raggiungere l’obiettivo e per il semplice motivo che avrei dovuto trovare un lavoro degno di questo nome, prima o poi.

E come ne è venuto fuori da questo impasse? 

Mi mandarono in prestito al Genoa, poi alla Ternana, quindi al Potenza dove giocai un campionato intero da titolare in Serie B. Tornai al Torino dove appresi una brutta notizia, il riscatto di Corni, il mio “rivale” e la decisione di mandarmi a Modena o a Catania, di nuovo in Serie B. Una mattina, per puro caso, incontrati Claudio Nassi a Piombino. Con i miei genitori era amico di famiglia, lui è stato direttore generale alla Fiorentina e alla Sampdoria. Lui mi consigliò di andare a parlare di persona con Fabbri (allenatore del Torino in quel periodo, ndr) a Milano. Quando arrivai mi vide il direttore sportivo, Bonetto. “Agroppi, lei cosa ci fa qui, doveva stare già a Catania o a Modena!” Riuscii a farmi indicare il signor Fabbri, mi presentai a lui che esclamò “Ah, Agroppi, non la facevo così alto e ben dotato fisicamente, mi dica pure!” Gli descrissi subito la mia situazione, ero sposato e con un figlio, non navigavo certamente nell’oro e gli stavo chiedendo una chance nel calcio che conta. “Lei ha scelto Corni, è un ottimo giocatore, però a me non mi ha mai visto giocare. Mi deve dare la possibilità di venire in ritiro con il Torino”. A quel punto Fabbri chiama Bonetto e gli ordina di farmi firmare subito un contratto: “Questo ragazzo è educatamente sfacciato perché mette in gioco la sua carriera in quattro mesi. A ottobre ci sono le liste nuove, mi piace il tuo carattere, Agroppi, ma se non fine settembre non mi avrai convinto io ti dovrò lasciare andare”. Lo abbracciai dicendogli che non se ne sarebbe pentito. Mi fecero un contratto da 6 milioni di lire.

Una discreta cifra per lei che stava vivendo un difficile momento economico.

Pensavo di spenderli comprandomi una bella macchina, invece il mio babbo mi consigliò di comprare un appartamento ai genitori di mia moglie, Nadia. “Hai visto dove abitano i tuoi suoceri, è una casa troppo umida!”. E’ stato un grande mio padre, è andato via troppo presto.

Pensa sia cambiato l’approccio dei genitori rispetto alla tua epoca?

Le aspettative vanno di pari passo con le illusioni che si creano perché sono cambiate le cifre. Ai miei tempi un calciatore professionista guadagnava molto meno rispetto ad oggi. Molti calciatori della mia epoca non navigano tuttora nell’oro, altri hanno perso tutto. Il calcio di oggi è un’altra cosa, un giovane al primo contratto può guadagnare anche 1 milione di euro per molti anni, sono altre cifre. Penso anche che la maggior parte dei calciatori non ha una solida base di valori e la famiglia è responsabile di questa deriva. Non capisco le manie dei tatuaggi su tutto il corpo, ad esempio. Siamo persone libere, ma per quanto mi riguarda quella è un’ostentazione di libertà. Tutti abbiamo un evento da ricordare, va bene tatuarselo sulla pelle con un piccolo disegno, ma quelli che vedo sono mostri. Immagina un presidente, un dirigente o anche il Papa con tutti quei tatuaggi… sarebbe meno credibile, no? Ho due figlioli che, se si presentassero conciati in quel modo, li prenderei a calci nel sedere. In generale non ho una buona opinione di questa epoca e delle trasformazioni culturali del nostro paese.

Signor Aldo, noi la ringraziamo per la disponibilità e la sincerità.

Grazie a voi, è stato un piacere.

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