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#Prequel, prima del Professionismo: Intervista a Ruggiero Rizzitelli
L’ex attaccante ci svela i segreti della sua infanzia trascorsa in un piccolo centro della provincia pugliese e il primo trasferimento al Cesena, a soli 14 anni.
Quando Ruggiero Rizzitelli fu acquistato dalla Roma nel 1988 i giornali dell’epoca coniarono ad hoc l’appellativo di “Mister 10 miliardi”. Era più o meno la cifra sborsata dai giallorossi (5,7 miliardi più i cartellini di Sergio Domini e Massimo Agostini) per convincere definitivamente il Cesena a cedere un ventunenne di belle speranze. Da quel momento Rizzitelli diventa Rizzi – Gol per i tifosi giallorossi, un giocatore che entra nel cuore della folla per l’abnegazione in campo e l’attaccamento ai colori. Rizzitelli si commuove anche oggi quando riguarda i suoi gol del passato, le vittorie e la cocente sconfitta in finale di Coppa Uefa contro l’Inter, quando non bastò una sua rete nella partita di ritorno all’Olimpico per vincere il trofeo. La storia del Ruggiero bambino e calciatore in erba nasce a Margherita di Savoia, un piccolo centro di dodicimila anime in provincia di Barletta-Andria-Trani che fino al 2004 era provincia di Foggia. Sono i capitoli di una fase primordiale che Rizzitelli ci racconterà mostrando un’affabilità fuori dal comune.
Ciao Ruggiero, iniziamo dalle tue origini, quando a Margherita di Savoia davi i primi calci al pallone.
Nasco in un paese di mare, tutto ha inizio sulla spiaggia del mio paese e nei vicoli. Le porte erano composte di sassi o di scarpe, era divertimento assoluto come tutti i bambini e i ragazzi che vivono quegli anni. Non avevamo campi da calcio, poi ho iniziato a frequentare la prima scuola calcio del paese, la Polisportiva Don Bosco. Ricordo che quando tornavo da scuola con un brutto voto i miei genitori mi nascondevano la borsa e l’unico paio di scarpe da calcio per punizione. In realtà nella scuola calcio non ero uno dei migliori, c’erano compagni di squadra più forti di me, ma questo particolare non influiva minimamente sulla mia autostima di bambino, anzi, per me è sempre stato un motivo in più per migliorarsi e poter arrivare dove sono arrivato.
In un articolo di Repubblica del 1988 si narra che sua madre si oppose al trasferimento al Bari quando avevi 13 anni, per quale motivo?
Tutti i giorni avrei dovuto fare il pendolare in treno, svegliarmi alle 5 del mattino e tornare alle 8 di sera. Una condizione che non mi avrebbe permesso di seguire gli studi in modo adeguato.
Decisione comprensibile…
Assolutamente, mia madre fece benissimo a rifiutare, il Bari purtroppo non garantiva vitto e alloggio, in caso contrario mia madre avrebbe accettato e avrei potuto studiare con più tranquillità in una scuola della città.
Poi arrivarono gli osservatori del Cesena e la sua vita cambiò.
Sì, un dirigente si presentò a casa nostra e spiegò ai miei genitori che a Cesena avrei dormito in un convitto con altri ragazzi e sarei stato seguito anche da un punto di vista scolastico. Avrebbero mandato periodicamente i voti del mio andamento scolastico ai miei genitori. Mio padre non voleva perché ero il maschio di famiglia che andava via di casa, per lui è stata una mezza mazzata! (ride, ndr)
Immagino sia stata dura lasciare la propria terra a quell’età.
Molto, anche se all’inizio ovviamente ero preso dall’entusiasmo della novità. Dopo qualche settimana ho cominciato ad avvertire la mancanza del mio paese di origine e del mio mare. Sono scappato! In realtà sono scappato tre volte da quel posto, nonostante le frequenti visite dei miei genitori! Poi ho cominciato ad ambientarmi, a conoscere i nuovi amici e a legare soprattutto con quelli della tua stanza, anche perché non avevamo la televisione. Alle 9 di sera, dopo aver mangiato, guardavi il soffitto della stanza… Adesso tutti hanno un cellulare, anche a 14 anni sei collegato al mondo e puoi contattare chiunque in qualsiasi momento…
Almeno da quel punto di vista la vita è diventata più semplice.
Certo, puoi fare le videochiamate, puoi chiacchierare con i genitori, puoi parlare con la fidanzatina. Ai miei tempi di Cesena mi viene in mente un altro particolare: la classica busta di gettoni per andare a telefonare alla tua famiglia dalle cabine telefoniche della Sip alla solita ora prestabilita, aspettando il tuo turno in fila, insieme agli altri compagni di squadra. Essendo meridionale l’attaccamento e la nostalgia della mia famiglia era sicuramente più forte.
Pensi che oggi l’approccio dei genitori con i bambini che si affacciamo al mondo del calcio sia peggiorato e che ci siano troppe aspettative?
Sì, molti genitori che ho incontrato in questi anni pensano di avere in mano degli assegni circolari, non dei figli... Sarò sincero, quando vado ad assistere alle partite dei settori giovanili non è raro imbattersi in questi padri e queste madri convinti che i loro figli siano futuri Maradona e Pelè. Molti pretendono che il figlio migliori indirettamente anche il futuro della famiglia da un punto di vista economico. Il divertimento e lo sport come fenomeno di aggregazione sociale stanno passando in secondo piano.
Cosa consiglieresti a un bambino che sogna di diventare calciatore o a un genitore?
Ma non devo parlare al bambino, bisogna parlare ai genitori. O meglio, si dovrebbe far capire ai genitori determinate cose. I bambini sono spugne, accettano i consigli se vengono comunicati in un certo modo, il problema sono i genitori. E’ difficile perché se io lavoro con un bambino al campo so che seguirà le mie istruzioni per un tempo molto limitato. Tutto il resto del tempo lo trascorrerà con i genitori. La mia è una provocazione, ma si dovrebbe impedire ad alcuni genitori di venire al campo a vedere i propri figli giocare, anche se sarebbe una cosa contronatura e improponibile, ne sono consapevole. La follia più grande è quella di un genitore che paga una cifra, magari sottobanco, per far giocare titolare il proprio figlio nelle giovanili. In questo modo si crea un’inutile e dannosa illusione nella testa di un ragazzino. Quando arriva l’ora di giocare in Primavera spesso ci si accorge che il ragazzo è una “pippa”…
Però il Cesena, quando eri giovanissimo, ti acquistò per sedici milioni di lire.
Vero, ma quei soldi furono divisi tra la società del mio paese, la Polisportiva Don Bosco, e la mia famiglia. E’ normale che alla società di appartenenza sia riconosciuta una somma, loro tifarono per me anche perché la convocazione in prima squadra portava nelle loro casse altri soldi. Non tantissimi, ma era una somma importante per un piccolo club di paese. Ad ogni modo, ricollegandoci alle differenze tra il calcio giovanile dell’epoca e quello contemporaneo, il primo procuratore l’ho avuto solamente quando feci il salto in prima squadra.
A Margherita di Savoia sei tuttora un vanto per il paese, i giornali e i siti locali citano il tuo nome con orgoglio negli articoli di calcio.
E’ il bello di esser nato in un piccolo centro, aver contribuito a far conoscere in Italia il nome del tuo paese.
Il tuo forte legame con la città di Cesena e con il Cesena è anche un atto di riconoscenza verso quell’ambiente?
Sì, io nasco calcisticamente a Cesena ed è qui che nei momenti di difficoltà, quando ero lontano dalla mia famiglia, ho trovato persone che mi hanno aiutato. Quando stavo male il presidente mi portava le medicine nella mia stanza. Non ero “Rizzitelli”, ero solo un ragazzino. Questi gesti li reputo indelebili.
Ruggiero, noi ti ringraziamo per la disponibilità. Da questo momento sei uno dei protagonisti di #Prequel, una rubrica diversa dalle solite in cui si parlerà dell’infanzia e dell’adolescenza di calciatori e sportivi, della fase di vita più pura e meno conosciuta dal grande pubblico.
Questa è una cosa carina, anche perché c’è bisogno di parlare di vita vera, soprattutto ai ragazzini. I social e tutto ciò che rischia di allontanare le persone dalla realtà hanno un po’ rotto le scatole!
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Il compito di un dottore è guarire i pazienti, il compito di un cantante è cantare. L’unico dovere di un giornalista è scrivere quello che vede. Lettura piacevole.