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#Prequel, prima del professionismo: Intervista a Massimo Taibi
In occasione dei 50 anni compiuti oggi, vi riproponiamo l’intervista in cui l’ex portiere Massimo Taibi ci racconta l’infanzia vissuta a Palermo, le prime partite nel ruolo di attaccante e la prima vera squadra, all’età di dodici anni, che sancisce l’inizio della sua avventura.
“E’ un solitario. Condannato a guardare la partita da lontano. Senza muoversi dalla porta, attende in solitudine, fra i tre pali, la sua fucilazione. Prima vestiva di nero come l’arbitro. Ora l’arbitro non è più mascherato da corvo e il portiere consola la sua solitudine con la fantasia dei colori.”
(Eduardo Galeano)
La solitudine del portiere simboleggia un tema che in un secolo di sport ha ispirato molti scrittori, autori e giornalisti. Sin dal principio del gioco del calcio il portiere è l’ultimo baluardo sulla linea di porta che delimita Inferno e Paradiso, il primo a immolarsi in uscite spericolate e l’ultimo soldato ad arrendersi tra i pali. La psicologia di un portiere, profondamente diversa da quella dei giocatori di movimento, contempla l’audacia, il coraggio, l’altruismo, l’eroismo, il tragico, il grottesco. E’ un elemento di una squadra, ma il suo campo di azione è fortemente limitato, può trascorrere interi minuti da solo mentre i compagni rincorrono un pallone, ma non può distrarsi troppo perché il pericolo è sempre dietro l’angolo, può salvare la sua squadra con una grande parata, ma non può vendicarsi segnando personalmente alla squadra avversaria dopo un gol subito.
In realtà qualcuno nella storia ha osato abbandonare il tempio sacro della porta per piombare nell’area avversaria, con guantoni alle mani, e segnare al proprio dirimpettaio un gol ai limiti del surreale. Tra i pochissimi eletti che si sono tolti la soddisfazione di segnare una rete su azione in Serie A c’è anche Massimo Taibi. L’ex portiere di Milan, Como, Piacenza, Venezia, Reggina, Manchester United, Reggina, Atalanta, Torino e Ascoli condivide questo originalissimo record con Michelangelo Rampulla e Alberto Brignoli. Taibi segnò il gol del pareggio all’Udinese con la maglia della Reggina nel 2001, un colpo di testa da vero attaccante di area. Era il destino bizzarro che si materializzava a distanza di decenni, con un’azione insolita per il biondo palermitano. Taibi, non a caso, iniziò a giocare a calcio ricoprendo da ragazzino il ruolo di attaccante prima di diventare un portiere.
Ciao Massimo, cosa ricordi della tua infanzia a Palermo?
Giocavo a pallone con i miei amichetti in Largo Corleone, iniziavamo appena usciti da scuola e tornavo a casa con i jeans strappati dove mi attendeva mia madre per darmi qualche scappellotto (ride, ndr).
Raccontaci questa storia del portiere di Serie A che da bambino era un attaccante.
Sì, è vero, a dodici anni mi sono presentato a questa squadra di un quartiere di Palermo, l’Amat, per fare l’attaccante e invece l’unico ruolo libero era il secondo portiere e quello fu il mio primo vero contatto con la porta. Dopo un paio di anni mi sono stufato del ruolo e ho giocato un anno da attaccante. A 15 anni grazie a un collega di mio padre passai ad un’altra società, la Mediatrice, con la speranza di continuare a giocare in attacco, ma anche in quel caso dovetti coprire un buco in porta, nella squadra. Da quel momento ho capito che il mio ruolo sarebbe stato il portiere.
Quando si gioca a calcetto tra amici di solito il ruolo meno ambito è il portiere… Da ragazzino questi cambi di ruolo li hai vissuto come un declassamento oppure li hai accettati con tranquillità?
A dir la verità all’inizio per me fu una delusione, volevo giocare nel ruolo di attaccante, ma poi questa veste, dopo aver compiuto 15 anni, ha cominciato ad affascinarmi moltissimo anche perché stavo capendo che avrei potuto dimostrare il mio valore in quel ruolo.
I tuoi genitori ti hanno lasciato vivere serenamente questa passione oppure ti hanno in qualche modo ostacolato?
No, da ragazzino mi hanno sempre assecondato e lasciato libero nelle scelte, poi avendo due sorelle ed essendo l’unico maschietto in casa non potevano che assecondarmi con il calcio! Quando mi ingaggiò il Licata fu il primo passo verso il professionismo e mi confrontai con mia madre. Lei non voleva che mi trasferissi a 250 chilometri di distanza, metteva comprensibilmente al primo posto gli impegni scolastici, ma poi tutto rientrò e mi lasciò andare. Oltre al calcio mi piaceva giocare saltuariamente anche a tennis, ma non sono mai andato oltre le partitelle tra amici. Da quando ho smesso di giocare a calcio ho ripreso la racchetta in mano.
Pensi che nel calcio sia cambiato l’approccio delle famiglie nei confronti dei figli rispetto alla tua epoca?
Secondo me sì, parlando del mio vissuto posso dirti che nella mia famiglia non c’era neanche il tempo di disquisire, ad esempio, di argomenti tecnici che riguardavano il gioco del calcio. A mia madre non interessava molto il calcio, mentre mio padre mi accompagnava agli allenamenti e si metteva in un angolo a guardare le partite, senza interferire nelle decisioni degli allenatori. Entrambi non avevano particolari ambizioni o aspettative sul mio futuro da calciatore, se avessi deciso di abbandonare il calcio non sarebbe sorto alcun problema. Oggi invece i genitori sono molto più presenti, direi quasi asfissianti in alcuni casi, e condizionano in negativo la vita dei ragazzi.
Hai vissuto personalmente esperienze negative con i genitori, in tal senso?
Ho fatto per un paio di anni il responsabile del settore giovanile a Modena e ti posso assicurare che qualche intromissione di troppo di alcuni genitori l’ho vissuta sulla mia pelle. Nella mia ormai lunga carriera nel calcio non ho mai visto emergere uno di questi figli di genitori assillanti… Non ho mai assistito personalmente a casi in cui un genitore ha cercato di corrompere un dirigente per poter vedere giocare da titolare il proprio figlio, ma non mi sarei meravigliato…
Pensi che una parte di responsabilità si possa assegnare anche al web e ai social media, ormai onnipresenti nella vita dei ragazzi?
C’è stata sicuramente una rivoluzione anche nel modo di vivere il calcio sia da appassionati che da calciatori. E’ uno sport che non viene più visto solo durante 90° minuto come ai miei tempi, ma quotidianamente, ad ogni ora, ad ogni minuto, in ogni parte del mondo. E spesso quello che ci propinano non è di buona qualità, oppure distorce la realtà. Francamente non credo che questo bombardamento abbia migliorato l’essenza di questo sport.
Sei molto legato a Reggio Calabria e alla Reggina, la senti come la tua seconda “patria”?
Sì, oltre ad aver indossato la maglia amaranto sono qui da oltre un anno nel ruolo di direttore sportivo e mi sono sempre trovato bene in questa città.
Però ti senti ancora un palermitano doc.
Assolutamente sì, io sono nato in questa città e morirò tifoso del Palermo. Andavo in curva da ragazzo a vedere la mia squadra e anche da calciatore affermato mi è capitato, quando potevo, di recarmi al Renzo Barbera.
Grazie per la disponibilità, Massimo. Ti auguriamo una buona giornata.
Figurati, grazie a voi, è stato un piacere.
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