Da Ponte Chiasso ad “Anfield Road”: il calcio pulito di Simone Braglia
Fatica, passione e tenacia. In tre parole, la filosofia di sport e di vita di Simone Braglia, classe 1962, vent’anni da portiere in tutta Italia, numero uno del Genoa che vinse ad “Anfield” nonché autore del libro La porta di un calcio pulito (curato da Giovanni Fabiano, “White Books”).
Un’opera, una ventata di aria fresca. Come quella di una passeggiata in quota. Che apre la mente e l’anima, restituendoci il respiro di un calcio più autentico dell’attuale, asfissiato dal dio denaro e i suoi derivati: opportunismo e arrivismo. «Il mio racconto rispecchia la mia persona, i miei valori, quello che sono stato. Ed è quello che rappresento oggi ai bambini e ai ragazzi che alleno, per trasmetterli l’importanza degli aspetti fondamentali di questo sport» ci racconta in apertura di una telefonata omerica, nella quale esce subito in presa alta su uno dei mali del pallone odierno: i settori giovanili. «Vivono alla mercé del risultato e hanno perso la loro funzione educatrice. Perché perdere, sbagliare, è utile. Fa crescere ed è indispensabile per arrivare alla perfezione. Ma nessuno è più disponibile a concedere l’errore. E così quelli validi si contano sulle dita di una mano».
Come quello del Como nella seconda metà degli anni Settanta, laboratorio di ottimi giocatori (Roberto Galia, 2 coppa Uefa e 2 coppa Italia tra Juventus e Sampdoria; Stefano Borgonovo, eroe del Milan nella notte dell’Olympiastadion) e futuri campioni d’Italia (Pietro Vierchowod, Samp; Gianfranco Matteoli, Inter; Luca Fusi, Napoli e Juve). Braglia vi approdò spinto dalla passione che da bambino, nel vicino e natìo Ponte Chiasso (meno di 3.000 abitanti), lo trascinava per interi pomeriggi a giocare per strada con gli amici. Dove scoprì la vocazione di stare fra i pali. Determinante, per lui, l’incontro con il responsabile di quella miniera: Mino Favini (poi all’Atalanta). Non un allenatore, ma un maestro. Una figura ormai in via di estinzione. «E invece sono fondamentali. Perché formano il ragazzo, rendendolo consapevole degli ostacoli che deve superare e aumentando la sua forza mentale. Tutto parte dalla testa, che fa muovere braccia e gambe» spiega Braglia, che poi agguanta un altro problema: la cultura del lavoro. Latitante. «Oggi gli allenamenti dei ragazzi sono troppo ludici, è tutto dovuto, c’è poca fatica».
Tanta invece fu la sua per emergere. «Non avevo doti tecniche innate, quindi mi sono dovuto costruire nel sacrificio. Sono stato un campione non perché ho vinto trofei, bensì perché ho sofferto, allenandomi anche fino alle 7 della sera, al buio e al freddo, sotto l’acqua e nel fango, talvolta vomitando». A spingerlo, l’amore viscerale per il gioco. Anch’esso però sempre più evanescente. «Nell’adolescenza per me contava soltanto la partita. Ora invece a quell’età si guarda già al calcio non più come un fine, ma come un mezzo per fama e soldi».
Il campo lo ripagò. Dopo esperienze in C2 (Legnano, promosso) e C1 (Pavia, salvezza da neopromossa) il Como nel 1985 lo prestò alla Sambenedettese in Serie-B. Dove disputò un ottimo torneo. Merito di un ambiente ideale – «Il presidente Ferruccio Zoboletti aveva grande umanità, non faceva intuire la sua arroganza patrimoniale e rispettava i ruoli» – e di un’altra persona centrale nella sua carriera. Il preparatore dei portieri Piero Persico. «Il mio fautore. Dovrei fargli un monumento. Mi prese sotto la sua ala protettiva, disse che ero soltanto di sua competenza e mi tolse tante pressioni che mi consentirono di esprimermi al meglio». Lo ritrovò a Perugia, nel 1992, quando scese in C1 nonostante pochi mesi prima giocasse in Serie-A contro Roberto Baggio – «Fantastico! Umilissimo, sa stare nel suo e ha un carattere fortissimo» – e in Coppa Uefa contro il Liverpool. La causa? Un altro vulnus del calcio: i procuratori. «Gli agenti fanno la differenza. Non lo avevo e sono stato ostracizzato». Quell’anno provò a cambiare idea. «Nell’accordo feci mettere il suo nome, prese corpo l’idea di uno scambio con Tacconi e di un mio ritorno al Genoa, sennonché seppi che lui non stava proponendo me, bensì un altro suo assistito. Al che ruppi immediatamente il rapporto e tornai a firmare i contratti da solo».
Il “Renato Curi” gli regalò comunque belle soddisfazioni. L’affetto imperituro dei tifosi e il doppio salto dalla C alla A, a esaudire le ambiziose volontà del patron, Luciano Gaucci. Un altro presidente caro a Braglia, che ne svela un lato sconosciuto ai più: «Nonostante il suo carattere vulcanico, lo ricordo con grande affetto. Verso di me ha sempre nutrito tanta fiducia e societariamente non ci si poteva proprio lamentare. Massima puntualità nel pagamento degli stipendi, non ci faceva mancare nulla e, anzi, ci dava anche della materia prima. Perché ogni tanto arrivava all’allenamento con le bistecche dei suoi allevamenti o con il pesce delle sue barche a Pantelleria». L’avventura però si interruppe sul più bello. E non per un calo di prestazioni. «Non facevo parte della “lobby” di Galeone» dichiara schietto. Il tecnico napoletano, subentrato a Novellino, trovò molti giocatori avuti già a Pescara. Braglia non apprezzava l’atteggiamento talvolta menefreghista di alcuni di loro e dopo una partita dove furono raggiunti in extremis per questo motivo «dalla rabbia nello spogliatoio attaccai al muro uno che oggi fa l’allenatore». Così a fine stagione dovette andarsene. Era il 1996.
Mentre gli umbri ritornavano subito in cadetteria con Galeone esonerato già a Natale, lui ripartiva dalla Lucchese (Serie-B). Costretto a fermarsi per un infortunio al metatarso, rientrò in tempo per aiutare la squadra a salvarsi. «Lo spogliatoio era spaccato e se manca identità di vedute tra giocatori e allenatore, come tra questo e la dirigenza, i risultati non arrivano». Un altro difetto delle società, spesso alla ricerca del nome senza però pensare alle conseguenze, che lui visse pochi mesi dopo in tutt’altro contesto: il Milan. Dove approdò come terzo portiere. Nuovamente decisivo Persico. «Loro cercavano uno esperto, lui fece il mio nome ad Ariedo Braida e poi mi dette la notizia mentre ero in pizzeria con mia moglie e le mie figlie. Esco felice e scopro che però mi avevano rubato la macchina» ricorda ridendo. Mesi dopo la ritrovarono in Polonia.
Ben pochi sorrisi invece nella stagione rossonera. Per due motivi. Il ritorno di Capello – «Voluto dal presidente Berlusconi, ma mal sopportato da parte dei giocatori che faticavano a digerire la sua personalità» – e i nuovi arrivi, che peccarono di umiltà. «Invece che in punta di piedi, entrarono a gamba tesa. E per il gruppo storico fu difficile trasmettere l’identità “Milan”». E così il Milan di Maldini – «Posso solo parlarne bene. Un esempio in tutto e non mi stupisce stia facendo bene nel suo nuovo ruolo» – Albertini – «Ragazzo schivo, ma positivo» – Costacurta – «Molto professionale, anche se il classico snob milanese» – Weah – «I suoi colpi di testa in allenamento tra il limite dell’area e il dischetto del rigore mi lasciavano l’impronta del pallone sulla coscia» – Savicevic – «Numero uno nei tiri in porta, ma motivazione non sempre eccezionale» – e Boban – «Un leader. Nello spogliatoio sapeva come farsi sentire» – chiuse undicesimo in campionato e perse la Coppa Italia, facendosi rimontare tre gol in dieci minuti dalla Lazio nella finale di ritorno.
Braglia poteva restare, ma voleva giocare. Così ritornò a Como. Finalmente titolare, anche se in C1, a fine carriera e dopo la grande illusione del 1986. «L’allora ds Sandro Vitali mi chiamava alle 6:30 ogni giorno, volevano che ritornassi, io ero combattuto, a San Benedetto avevo fatto bene, accettai perché giocare nel Como in Serie-A era il mio sogno da bambino. Ma non feci nemmeno un minuto. E non ebbi mai spiegazioni, anche se capii che non fu per ragioni tecniche». Non gli andò meglio con la presidenza Preziosi: «Mi fece un biennale. Dopo la prima stagione dove uscimmo ai play-off, non accettai un ruolo dirigenziale che mi propose soltanto come escamotage per liberarsi di un anno di contratto. Finii in castigo e sulla stampa comparvero articoli denigratori sulla mia persona».
Un’esperienza paradigmatica della sua lontananza dal calcio professionistico. «Sono scomodo perché non sono uno “yes man”. Se un presidente sbaglia, ho l’obbligo di dirlo. Ma non si può fare. Non vogliono osservazioni. E però pretendono di intromettersi nel lavoro altrui». A lui è successo sempre a Como, in Serie-D, da preparatore dei numeri uno: «Andai via perché il portiere è solo materia mia, nessuno doveva metterci becco».
Meglio allora i settori giovanili dilettantistici. Prima la Val Chiavenna (dieci anni), poi Cantù (sei) e ora il comasco (Cittadella di Como e Pro Olgiate). «La mia soddisfazione sono i ragazzi che arrivano e in due anni acquistano i mezzi per stare in porta. A me servono quattro ore alla settimana soltanto con loro per dare la mia esperienza». Nel segno della fatica. Un mantra per lui, una fortuna per gli altri. Perché più Braglia rimane in una società e più giovani vogliono andarci per fare il portiere. Il suo sponsor? I genitori. Soddisfatti dai racconti dei figli e coinvolti in prima persona. «Il mondo è cambiato, noi educatori bisogna allenare anche loro, includerli nel processo formativo e farli capire la valenza del rispetto dei ruoli».
Ma c’è da credere che anche a tutti loro, tra un esercizio e una riunione, parli del Genoa, suo luogo del cuore, e della notte di “Anfield”, vetta della sua carriera. Come ha fatto con noi. Però ve lo raccontiamo nella prossima puntata. [1 – Continua]