Da Ponte Chiasso ad “Anfield Road”: il calcio pulito di Simone Braglia (2^parte)
18 marzo 1992. Quando la Storia scelse una data. Almeno per il Genoa e per il popolo genoano. Perché quel giorno i rossoblù scrissero una pagina epocale del calcio italiano, diventando la prima squadra capace di sconfiggere il Liverpool a casa sua. Ad “Anfield Road”. Dove in precedenza erano cadute sia la “Grande Inter” di Helenio Herrera (Coppa dei Campioni) che la Juventus dell’omonimo Heriberto (Coppa delle Coppe). Giocava invece la Coppa UEFA il “Vecchio Balordo”, quarti di finale per la precisione. Ci era arrivato dopo essersi bevuto il Real Oviedo e aver presentato il conto sia alla Bucarest del Ministero degli Interni (la Dinamo) che a quella dell’esercito (Steaua).
Già di per sé, un piccolo capolavoro. Perché era la prima partecipazione europea del club più antico d’Italia. Idem per il suo numero uno, Simone Braglia, il “colosso di Ponte Chiasso”, 193 centimetri per 85 chilogrammi, che quella sera toccò l’apice della carriera con una prestazione gigantesca. «Il pathos era alto come non mai» ricorda con un velo di emozione «al punto che quando salii sul pullman per “Anfield” mi tremavano le gambe». E non soltanto a lui se si pensa che quella squadra, aldilà di capitani coraggiosi (Signorini), campioni del mondo agli ultimi fuochi (Collovati) e gioielli internazionali come Aguilera, Branco e Skuhravý – «il più forte col quale ho giocato esclusi quelli del Milan» ci dice – era composta da gente uscita da un romanzo di Verga per la sua storia di fatica e di gavetta: Torrente, Ferroni, Ruotolo, Fiorin. Dai campi di provincia della Serie-B al palcoscenico continentale in soli tre anni.
Come Braglia, approdato sotto la “Lanterna” nell’estate 1989 dopo due stagioni al di sotto delle aspettative. Per responsabilità sue e per le brutte abitudini del nostro calcio. Prima Lecce. «Il mio grosso rammarico» ammette senza scusanti. «Soprattutto nei confronti di mister Mazzone che, indotto da Persico, caldeggiò il mio ingaggio». A penalizzarlo, lo spirito di adattamento. «Il mio corpo non riuscì ad abituarsi al caldo. In ogni allenamento perdevo 3-4 kg, ma non riuscivo a recuperare. Per combattere la dissenteria, mi tenevo su con le limonate. Partii bene in Coppa Italia, parando tre rigori su tre a Catanzaro, ma in campionato feci fatica, sbagliai qualcosa e andai in crisi psicologica». Il ritardo agli allenamenti per un disguido nel volo di ritorno dalle vacanze di Natale fu il colpo di grazia. «Mazzone su queste cose non transigeva e finii in panchina». Così non si poté godere a pieno la promozione in Serie-A, anche se conserva un bel ricordo del tecnico trasteverino, protagonista di un aneddoto ruspante: «In una partita Pasculli (centravanti dell’epoca, ndg) rispose a un suo rimprovero. Al che lui gli corse dietro per cinquanta metri con noi tutti a ridere. Mazzone numero uno». Invece a Monza l’anno successivo rimase fuori tutto l’anno per decisioni imposte dall’alto: «Doveva giocare un altro portiere, che era arrivato dal Milan».
Queste disavventure non gli impedirono però di ritornare in Serie-A. Al Genoa, fresco di promozione e alla ricerca di un vice per Attilio Gregori. Fu l’inizio di un amore senza fine, favorito anche dalle vacanze da bambino nella casa di famiglia a Celle Ligure. «Il Genoa è la mia Nazionale. Mi considero genovese di adozione, mi ritrovo nel loro modo di essere, semplice e puro. Tanto che, a differenza di tutti i miei compagni di squadra, invece di Levante, vivevo a Ponente». Tra la gente del posto, riservata e genuina, dedita al lavoro e innamorata del mare. Quello dei pescatori col “solco lungo il viso come una specie di sorriso” cari a Fabrizio De André, tifoso genoano che elesse Braglia come portiere del suo Genoa ideale. Anche perché lui impiegò poco a prendersi la scena. Giusto mezza stagione, sotto la guida di un altro totem rossoblù: Franco Scoglio. «Molto intelligente, dialetticamente sapeva orchestrare le redini della squadra». Un giorno nello spogliatoio lo definì alla sua maniera – “Braglia è portiere anacronistico” – e poi lo promosse titolare poche settimane dopo un debutto nella massima serie inimmaginabile: nel derby. A gara in corso. «Una delle miei migliori partite» rivela, in una sfida che ha sempre apprezzato «per l’appartenenza ai colori e per la goliardia» tra le due tifoserie. Tanto da nutrire rispetto per figure della Sampdoria come Paolo Mantovani – «Uno dei migliori presidenti, riconosco in lui il padre-padrone, ma aveva affetto per i suoi giocatori» – ed essere amico della figlia, Francesca, grazie a un gustoso siparietto: «Eravamo al compleanno di Stefano Eranio e lei, come regalo, dovette mangiare la torta che era rossoblù».
Braglia fu un talismano contro i blucerchiati. Cinque stracittadine, nessuna sconfitta – «quando debuttai, già perdevamo» fa notare con una battuta – e una vittoria, quella del 25 novembre 1990, macchia indelebile sullo scudetto della Sampdoria in una stagione irripetibile per il calcio genovese. Perché mentre il “Baciccia” marciava verso il tricolore, il “Grifone” scriveva la sua pagina più bella dai tempi della guerra. In estate il presidente Aldo Spinelli, a differenza delle sue parsimoniose abitudini, aveva ingaggiato il centravanti Skuhravý (5 gol con l’allora Cecoslovacchia a Italia ’90), il terzino Branco (futuro campione del mondo a Usa ’94) e il centrocampista Mario Bortolazzi, gregario di lusso nel primo Milan di Arrigo Sacchi. Ma soprattutto aveva affidato la panchina a Osvaldo Bagnoli, l’allenatore dello scudetto del Verona. Un uomo concreto, per niente incline al protagonismo mediatico e in grado di farsi amare da tutti i giocatori. «Fu l’artefice di quella stagione meravigliosa. Io e lui parlavamo in dialetto milanese, eravamo una famiglia allargata, tirava il gruppo il martedì nel fartlek mentre il suo vice Maddè chiudeva la fila, a simboleggiare la nostra compattezza». Il Genoa occupò stabilmente i quartieri alti della classifica, a gennaio vinse 1-0 in casa della Juve di Gigi Maifredi con Braglia sugli scudi – «C’era mio padre, tifoso juventino, a vedermi. Quando l’ho scritto nel libro, mi è venuto da piangere per la gratitudine nei suoi confronti per tutto quello che ha fatto per me» – e all’ultima giornata mise a segno due eventi storici. Sconfiggendo nuovamente i bianconeri (2-0) – «Poteva essere la “partita dell’amicizia”, il pareggio sarebbe andato bene a entrambe, ma loro entrarono in campo all’arma bianca» – li estromise per la prima volta dalle coppe e conquistò un quarto posto che è ancora il suo miglior piazzamento di sempre dal 1942.
E così fu Europa. Un altro debutto. L’esordio contro il Real Oviedo fu determinante. «Prendemmo consapevolezza della nostra forza. A venti minuti dalla fine eravamo fuori, la ribaltammo con Caricola e Skuhravý, che ci spalancarono emotivamente. Il risultato è condizionato dalla sfera emotiva e quando subentra l’enfasi positiva, getti il cuore oltre l’ostacolo» spiega Braglia. Il Genoa non si fermò più. Fece fuori Dinamo e Steaua Bucarest, ma quando l’urna riservò il Liverpool in molti pensarono al capolinea. Al ritorno nelle coppe dopo i cinque anni di sospensione delle squadre inglesi per la strage dell’Heysel, i “Reds” vantavano quattro Coppe dei Campioni in bacheca e giocatori come Barnes, un giovane McManaman, Nicol, Mølby e il sempre temibile Rush. Ad allenarli, un ex “Doria”: Graeme Souness. Un motivo in più per fare bene, ma sarebbe bastato per arginare uno tra i club più forti d’Inghilterra?
Sì. Perché di notte quel Genoa si esaltava. Grazie anche dal suo pubblico, che accolse il Liverpool con la scritta “We are Genoa” e che sostenne fino al novantesimo un’impresa firmata da Fiorin sul finale di primo tempo, sinistro al volo sotto l’incrocio dei pali dentro l’area su un pallone a scendere, e da una fiondata su punizione di Branco a pochi minuti dal novantesimo. Sembrarono Signorini e compagni, i veterani. Però c’era il ritorno. “Anfield”, il tifo della “Kop”, “You’ll never walk alone”, il fango, il freddo e il british football. Fatto di discese sul fondo e lunghi cross in area che scendono improvvisamente, gli “spioventi” cari a Bruno Pizzul per intenderci. Ma Bagnoli non si fece intimorire. «Nello spogliatoio ci disse: “Figlioli, andate in campo e giocate come sapete» racconta Braglia, che fu il primo ad ascoltarlo. Perché sfoderò subito tre interventi prodigiosi nel primo tempo. Poi Ruotolo disegnò un cross sul secondo palo, dove Aguilera con un preciso rasoterra fece esplodere i genoani arrivati Oltremanica con ogni mezzo. 1-0 all’intervallo, il Liverpool doveva segnare quattro gol per qualificarsi e rientrò agguerrito più che mai. Rush timbrò subito il pareggio. E partì l’assedio. Che però si infranse contro il “colosso di Ponte Chiasso”. Al 61’ Braglia respinse un tiro al limite di Rush e pochi attimi più tardi neutralizzò un tentativo di Burrows. Dieci minuti dopo bloccò a terra una conclusione di McManaman. Tra il 74’ e il 78’ la definitiva trasformazione in “Superman”: respinta su una punizione di Mølby dal limite dell’area; tuffo alla sua destra su una saetta a pelo d’erba di Marsh; poi colpo di reni su colpo di testa ravvicinato di Barnes e, infine, volo alla sua sinistra su un’altra bomba di Mølby dai trenta metri. “Braglia paratutto” titolò in prima pagina “La Gazzetta dello Sport” l’indomani, celebrando il capolavoro rossoblù. Perché il Genoa non si accontentò della qualificazione. Volle vincere e ci riuscì quando al 72’ Aguilera depositò in rete da due passi un assist di Eranio, stappando la gioia di squadra, staff e tifosi.
La corsa però si arrestò in semifinale contro la giovane Ajax di un rampante Louis Van Gaal. Per Braglia un’eliminazione figlia anche della presunzione e dell’individualismo. «Il gruppo si era un po’ sfaldato, alcuni si montarono la testa e non avevamo l’abitudine per stare a certi livelli, dove ci vuole una scorza e un carattere più forti di quello che uno sembra avere». Le ripercussioni anche in campionato. Il Genoa perse le ultime sei partite e chiuse quattordicesimo. Bagnoli andò all’Inter per smettere col calcio dopo un anno e mezzo. Aguilera finì al Torino, Braglia al Perugia, Eranio al Milan e Branco di lì a poco in Brasile.
Un finale malinconico, tipico di tutti sogni svaniti sul più bello, e che però non cancellò tre anni indimenticabili. Ma soprattutto quella notte di trent’anni fa. Quando una squadra italiana, venuta dal mare e alla scoperta dell’Europa, conquistò per la prima volta “Anfield Road”. “Furono baci e furono sorrisi. Poi furono soltanto i fiordalisi” avrebbe detto De André. [2 – Fine]
(Foto articolo fornite da Simone Braglia)