Se lo ha fatto salire alla ribalta sportiva nazionale – mai una società professionistica aveva rinviato la prima giornata di campionato perché senza mezzi (tecnici e logistici) per raggiungere lo stadio avversario – la cessione del Pisa da “Britaly Post” (famiglia Petroni) al fondo d’investimento (con sede a Dubai) “Equitativa” del banchiere ferrarese Pablo Dana al termine di una trattativa lunga, contorta, e anche patetica, può meravigliare solo in parte. Per almeno dieci degli ultimi quindici anni, infatti, la scena calcistica all’ombra della Torre è stata al centro di situazioni complicate e tormentate.
Nella primavera 2002, il Pisa fu acquistato da Maurizio Mian, manager della “Gunther Corporation” (editoria, immobili, comunicazione), noto in città per la fortuna intascata dalla vendita dell’azienda di famiglia – la “Gentili Farmaceutici” della madre Gabriella, una delle ultime rappresentanti dell’alta borghesia pisana, tifosa e vice-presidente del club – agli americani della “Merck Sharp&Dohme”. Capello svolazzante e impomatato, abbigliamento casual e volto sempre abbronzato per un profilo da film dei Vanzina, Mian vide nel Pisa il veicolo per realizzare progetti “calciocinepanettonici” al punto da far esibire un gruppo di ballerine prima di una partita casalinga. Roba più da convention PSI anni Ottanta che da mondo del pallone. Che fu implacabile: 7 partite e 4 sconfitte. Poi, con l’arrivo del tecnico Simonelli, un laureato in Lettere Classiche prestato alla panchina, la risalita. Ma ai play-off, nonostante un maldestro tentativo di aggiustare la finale di ritorno, la serie-B sfumò contro l’Albinoleffe. Stanco delle critiche e dopo aver detto in diretta tv “che la droga è meglio del calcio”, Mian passò la mano a un immobiliarista perugino pressoché sconosciuto: Leonardo Covarelli.
Bella presenza, ma poche finanze. Al suo fianco, il suocero Dino De Megni, nel 1990 salito alle cronache perché l’Anonima sarda gli rapì il figlio, liberato dopo 110 giorni grazie anche alla mediazione del nonno, maestro di massoneria e – si dice – amico di Cossiga.
Evitata subito la retrocessione in C2 al 97’ del play-out di ritorno, il Pisa di Covarelli salì in serie-B nel 2007 e nel 2008 perse contro il Lecce i play-off per la serie-A. Il meglio doveva ancora venire? Il peggio, semmai. In quei giorni infatti il presidente annunciò l’acquistò del Perugia e la cessione del Pisa, indebitato di 2 milioni di euro, a un altro illustre sconosciuto: Luca Pomponi. Trentacinque anni, un riporto da far invidia a Donald Trump, messaggi evangelici manco fosse Papa Giovanni, la sua fuoriserie che sgomma nel piazzale dello stadio e lancia palloni alla folla nel giorno della presentazione della squadra, la promessa di una cittadella dello sport (“Casa Pisa”). Ok, ma con quali soldi? “Iniziativa 2003”, la sua impresa immobiliare a quattrocento metri da piazza di Spagna, fu buona per una squadra di prestiti e l’aggravamento del bilancio societario, che il 31 dicembre 2008 registrò un passivo di 5.333.716 euro. Ad aprile, Pisa a centro classifica, via Ventura per Bruno Giordano. Il 30 maggio 2009, ultima giornata, sconfitta per 1-0 contro il Brescia e retrocessione in Lega Pro. Alla quale il Pisa non partecipò perché incapace di versare la fidejussione prevista per iscriversi. Il 22 luglio 2010, il Tribunale di Roma decretò il fallimento di “Iniziativa 2003” e Pomponi fu poi dichiarato insolvente per 60 milioni di euro.
Infine, la famiglia Petroni, proprietaria di “Terravision”. Rilevato il Pisa nell’autunno 2015 grazie alla mediazione di Fabrizio Lucchesi – attuale direttore sportivo del club e vertice della “Carrara Holding” che a sua volta aveva comprato il club da Piero Battini, presidente nell’epoca forse meno turbolenta (2010-2015) – parla subito di “Pisa Football College”. Lo scorso giugno, la promozione in serie-B ai play-off contro il Foggia. Ma non c’è tempo per la festa. Debiti e scandali incombono, il ritiro di Storo si dice pagato dalla Provincia di Trento, dopo metà luglio Petroni finisce ai domiciliari, beni sequestrati, Gattuso si dimette, allenamenti autogestiti, la squadra passa i due turni di coppa Italia, ma è il caos. Perché la società è in vendita e non si trovano acquirenti. Fino alla comparsa di “Equitativa”.
Viene ora da chiedersi: quale futuro si prospetta ora per un Pisa fin qui terreno fertile di soggetti che lo hanno visto non tanto come un fine – una dimostrazione è l’inesistenza di un centro d’allenamento, che ha costretto sempre a soluzioni d’emergenza (campi sabbiosi e pieni di buche in riva all’Arno; campi in sperdute località montane; campi dell’università) – ma più come un mezzo per i loro interessi?
Anche Dana, che nel 2015 presentò il tailandese mister Bee al nostro “mister B.” per una cessione del Milan mai avvenuta, veste alla moda e ha il capello impomatato. Appena conclusa la trattativa, ha lanciato proclami d’amore in diretta tv alla città e ha parlato di investimenti nel settore giovanile. Ne servirebbero, perché l’economia locale, basata su università e turismo, ha azzerato l’imprenditoria del posto e possibili patron garanti di stabilità come il compianto Corioni (Ospitaletto, Bologna e Brescia) o Campedelli (Chievo).
Il Pisa del domani necessita in primis di competenza e senso della misura, non di brame e sogni di gloria, che rischiano di svanire alle prime luci dell’alba. Come il calcio cittadino, se mancherà di lungimiranza.
E di ciò ne dovranno essere consapevoli anche l’amministrazione comunale, che in quest’occasione molto si è spesa per evitare il naufragio, e la stampa, chiamata ad assolvere al meglio la sua originaria funzione di “quarto potere” con un pressing alto e costante fin dall’inizio sulla nuova proprietà, monitorandone ogni singola azione e non incensandola alla stregua di un angelo redentore. Dopo un decennio di sofferenze, prudenza e vigilanza sono il minimo sindacale. Anche perché la ricomparsa dello spettro del fallimento (il terzo in vent’anni), spalancherebbe nuovamente le porte della Giudecca del dilettantismo e darebbe un’altra volta ragione al Poeta: “Ahi Pisa, vituperio delle genti…”.