Paul Scholes, la testa rossa di un fiammifero
Dice Noodles, Robert De Niro, in “C’era una volta in America”, che i vincenti si vedono alla partenza. Battuta leggendaria per la storia del cinema; una boiata per quella della Premier League e perlomeno un’assurdità per l’almanacco del Manchester United. Perché in un’ipotetica enciclopedia della storia del club, un volume intero sarebbe riservato a uno che, la prima volta che si presentò davanti a Ferguson, il gigante scozzese quasi non riusciva a individuarlo, tanto era minuto, ossuto, gracile. Quasi bastava il polpaccio di Brian Kidd a nasconderlo; sì, proprio “quel” Brian Kidd, che aveva disputato la finale del 1968 contro il Benfica al posto di Denis Law e segnato un gol nella notte di quella che era stata, fino al 1999, l’unica Coppa dei Campioni del club. Alto come un fiammifero, spiccava solo per la testa rossa, Paul Scholes. Anzi: Paul Aaron Scholes, nato nella Greater Manchester, quella cintura urbana di casette tutte identiche a perdita d’occhio; fumi di ciminiere all’orizzonte e insegne di pub alla buona come punteggiatura di luci in mezzo alla nebbia.
Perché Kidd aveva portato quello scricciolo dalla testa scarlatta al cospetto di Ferguson? Perché si era innamorato, dopo la prima segnalazione dello scout Mike Coffey, del senso tattico innato e del tocco del ragazzino. E s’era al tempo stesso invaghito di una scommessa, da far pesare sulle spalle di cartapesta del ragazzino: far sì che quelle doti sopperissero nel tempo all’asma con cui Paul Scholes tuttora convive, a una malformazione della rotula, all’ombra scheletrica che la sua corsa compassata proiettava nel cerchio di centrocampo. Non c’era nemmeno l’ombra di una prospettiva, quel giorno, nello sguardo di Sir Alex. La più rosea delle previsioni poteva essere, ragionevolmente, che il ragazzo a livello giovanile riuscisse a divertirsi almeno un poco, se quelle doti si fossero confermate tali, escludendo in partenza che un ragazzino più piccolo di parecchi bambini potesse anche soltanto pensare di farsi largo tra i professionisti.
– Non ho mai visto nessun ragazzo “picchiarlo”, perché aveva la capacità di anticipare i contrasti e affrontare le sfide – aveva detto Kidd a Ferguson. Un po’ come nel provino di Billy Eliott quando all’accademia di danza chiedono al ragazzino cosa provi mentre balla.
1990 e un futuro difficile da prevedere, figurarsi da scrivere. Paradossi, col senno di poi, come quello in base al quale la sua carriera nelle giovanili non fa per nulla pensare a un decollo in prima squadra. Nemmeno a un debutto, in verità. Lo pensano per primi i suoi migliori amici allo United, ovvero Nicky Butt e Gary Neville.
Poi, cosa può essere accaduto? A volte gli sviluppi più impensabili di una storia nascono da realtà insospettabilmente semplici, come lo stesso Neville ha raccontato: – Smise di bere birra e di mangiare torte il venerdì. Nel giro di due o tre mesi acquistò forza e resistenza; dacché era senza fiato divenne quello con più fiato. –
E allora persino Ferguson si convince che, irrobustita appena la carrozzeria e scoperto il nuovo motore, Scholes possa davvero fare il grande salto. Sempre restando uno di settanta chili, per uno e settanta scarsi di statura. Cresciuto all’ombra di Roy Keane, che però è grosso quanto la sua custodia, gli toccherà prendere il posto del leggendario irlandese, quando quest’ultimo si infortunerà seriamente al ginocchio. Siamo nel corso della stagione ‘96 – ‘97 e quella è l’annata in cui il rosso attraversa la linea d’ombra della propria calcistica maturità, che va di pari passo con una consacrazione ottenuta con il moto perpetuo del suo recupero palla, con i lanci millimetrici che tagliano un campo in diagonale, con le conclusioni secche e precise dalla distanza. Ogni volta dopo aver fatto l’immancabile aerosol per la sua asma, che ancora oggi lo marca più stretto di quanto abbia fatto qualsiasi dirimpettaio di centrocampo.
A proposito di Irlanda, Scholes è stato uno dei pochi calciatori inglesi di rilievo ad ammettere candidamente di avere origini sia da parte di madre che di padre nella terra del Trifoglio. Non è una cosa così comune, in un’Inghilterra piena di calciatori che quelle discendenze lì fanno finta che non esistano.
È nato il 16 novembre del 1974, Paul Scholes, in un giorno in cui la pioggia di Manchester stava dando il meglio di se stessa. Quel giorno lo United batteva a fatica l’Aston Villa; quell’anno lo United giocava nella serie cadetta, essendo retrocesso nella primavera precedente.
Quando ne sveste la maglia, al termine della stagione 2011 – 2012, in diciannove anni con i Red Devils Paul Scholes ha vinto 11 Premier League, 2 Champions League, 2 Coppe del mondo per club, 5 Charity Shield, 3 FA Cup e 2 Coppe di lega inglese.
La bomboletta spray per l’aerosol è ancora lì, un passo prima della linea laterale, dove tutti, compreso Ferguson, pensavano che si sarebbe fermata la storia calcistica di quel ragazzino troppo piccolo per poter diventare un vero calciatore.