Ultimo dei tre appuntamenti dedicati a Pier Paolo Pasolini e il suo rapporto con il mondo del Calcio.
Questo excursus attraverso il rapporto tra Pasolini e il calcio ci porta, in conclusione, a quello che è – nell’opinione di chi scrive – il contributo più alto offerto dall’intellettuale bolognese al mondo del calcio. Avevamo concluso il primo articolo affermando che Pasolini, amante di questo sport in ogni sua forma, ha intuito quale sia il comun denominatore che lo porta ad apprezzare forme di calcio così diverse.
Tale contributo viene pubblicato su Il Giorno del 3 gennaio 1971. In tale articolo, Pasolini si dedica ad un’inaudita interpretazione del gioco del calcio. Il titolo parla da sé: «Il calcio “è” un linguaggio con i suoi poeti e prosatori».
Per l’autore, il gioco del pallone è un “sistema di segni”, una lingua articolata a sua volta in differenti varietà, che corrispondono a differenti stili di gioco. Il meccanismo di creazione del significato nel calcio non è così differente da quello di una lingua parlata. Esistono infatti delle unità minime di significato, battezzate scherzosamente podemi, che corrispondono ai fonemi linguistici: la loro combinazione dà origine alla sintassi del gioco del calcio, un discorso regolato da vere e proprie norme. L’unità minima podema corrisponde a «un uomo che usa i piedi per calciare un pallone» e grazie alla combinazione di molteplici unità si possono formare infinite parole calcistiche.
Nella linguistica del calcio ideata – o scoperta? – da Pasolini, gli stili di gioco corrispondono a dei sottocodici linguistici, che si muovono da un estremo, la poesia, all’altro, la prosa realista. I migliori interpreti del gioco prosastico sono le squadre centro-europee, che antepongono la costruzione del sistema sintattico allo spunto individuale, privilegiando dunque un gioco geometrico e corale. I migliori poeti sono invece i brasiliani e in generale tutti i latinoamericani: il loro calcio privilegia il dribbling, ovvero la soluzione fulminante, artistica e individualista che vede un calciatore liberarsi da solo dell’avversario, senza la necessità di dover scambiare il pallone con un compagno.
L’Italia si colloca più o meno a metà tra questi due estremi, con la sua prosa estetizzante corrispondente al gioco corale che non disdegna affatto gli individualismi. Pasolini riconosce dunque che ogni popolo è caratterizzato, per ragioni storico-culturali, da una particolare varietà di linguaggio calcistico. E non ha paura ad affermare che i giocatori italiani, «con il fondo quasi sempre conservatore e un po’ speciale… insomma, democristiano», ben rappresentano la cultura dell’Italia del tempo.
Nel linguaggio del calcio, anche nel gioco più prosastico e corale, è tuttavia previsto un momento di poesia. Si tratta del goal: «Ogni goal è sempre un’invenzione, è sempre una sovversione del codice: ogni goal è ineluttabilità, folgorazione, stupore, irreversibilità. Proprio come la parola poetica. Il capocannoniere di un campionato è sempre il miglior poeta dell’anno».
Il calcio è dunque un linguaggio. Un linguaggio intuitivo, giocato coi piedi e un pallone, utilizzabile in qualsiasi circostanza: non ha necessariamente bisogno di una porta, di un arbitro, di un risultato. «Chi non conosce il codice del calcio non capisce il significato delle sue parole (i passaggi) né il senso del suo discorso (un insieme di passaggi)».
Pasolini conosce bene il linguaggio del calcio. Ed è questa conoscenza che gli permette di parlarlo e interpretarlo in qualsiasi contesto: che si tratti di due calci al pallone coi “ragazzi di vita” o di una partita contro le vecchie glorie della Serie A in uno stadio. E’ dunque il podema l’unità minima, ciò che permette al poeta di apprezzare la realizzazione del discorso-calcio in qualsiasi contesto e declinazione.
Ma il linguaggio del calcio non ha il solo scopo di realizzare la comunicazione fra calciatori: «I cifratori di questo linguaggio sono i giocatori, noi, sugli spalti, siamo i decifratori: in comune dunque possediamo un codice». Questo sport dunque, con i suoi giocatori-cifratori che comunicano, seguendo delle regole canoniche, con una massa di tifosi-decifratori, altro non è che un rituale religioso:
“Il calcio è l’ultima rappresentazione sacra del nostro tempo. E’ rito nel fondo, anche se è evasione. Mentre altre rappresentazioni sacre, persino la messa, sono in declino, il calcio è l’unica rimastaci. Il calcio è lo spettacolo che ha sostituito il teatro. Il cinema non ha potuto sostituirlo, il calcio sì. Perché il teatro è rapporto fra un pubblico in carne e ossa e personaggi in carne e ossa che agiscono sul palcoscenico. Mentre il cinema è un rapporto fra una platea in carne e ossa e uno schermo, delle ombre. Invece il calcio è di nuovo uno spettacolo in cui un mondo reale, di carne, quello degli spalti dello stadio, si misura con dei protagonisti reali, gli atleti in campo, che si muovono e si comportano secondo un rituale preciso. Perciò considero il calcio l’unico grande rito rimasto al nostro tempo.“
Nella seconda metà del Novecento, i grandi riti di massa sono finiti o in declino: la catarsi del teatro, la messa cattolica, la liturgia fascista. È il calcio l’unico fenomeno ancora capace di coinvolgere le masse, di farle evadere dalla realtà, di rapirle in un’estasi di sentimenti collettivi. Ed è un rito che si basa, come sottolinea Pasolini, sul rapporto carnale fra l’esecutore e i testimoni, per cui la presenza fisica delle due parti è fondamentale. Il cinema non può assolvere alla funzione di rito, proprio per la mancanza fisica dell’esecutore.
Pertanto il calcio, in quanto manifestazione fine a sé stessa, assolve principalmente il ruolo di rappresentazione sacra.
È un ruolo che in parte mantiene ancora oggi, resistendo a stento allo strapotere della comunicazione, che ha ormai svuotato di sacralità il rito portandolo nelle case degli interessati a qualsiasi ora. Tuttavia, il calcio continua ad essere un linguaggio senza il quale il rito non può essere compreso, così come i partecipanti al rito continuano ad essere accusati per la vanità della propria fede calcistica.
Eppure, nell’epoca dell’immediatezza, del flusso incontrollabile di news, dell’apporto esagerato di informazioni superflue, il rito del calcio riesce ancora ad essere uno dei pochi fenomeni della società capace di costruire storie, leggende, miti. Nell’era dello strumentale e dell’utilitaristico, resiste ancora come attività priva di un’utilità immediata. Forse questa visione può sembrare ingenua, poiché è chiaro a tutti che il calcio sia ormai dal punto di vista economico un enorme mercato in cui la legge vigente è senza dubbio quella del profitto. Ma, citando Eduardo Galeano, che forse centra appieno l’essenza immodificabile di questo sport, «per quanto i tecnocrati lo programmino perfino nei minimi dettagli, per quanto i potenti lo manipolino, il calcio continua a voler essere l’arte dell’imprevisto. Dove meno te l’aspetti salta fuori l’impossibile, il nano impartisce una lezione al gigante, un nero allampanato e sbilenco fa diventare scemo l’atleta scolpito in Grecia». Ed è forse questa la chiave del rito: la sua imprevedibilità e incontrollabilità, che lo fa sfuggire al calcolo e al potere umano per collocarlo, per forza di cose, nell’ambito del super-umano.
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FOTO: www.footballa45giri.it
interessante ma, “…il bolognese” potevi evitarlo!
Il calcio era una bella, apprezzabile e salutare passione di Pasolini. Ma bisogna usare moderazione e onestà intellettuale, quando si estende un afflato poetico, personalissimo, al ruolo di metafora di un sistema (peraltro già corrotto dal denaro ai tempi di Pasolini). Dove sta scritto che dobbiamo evadere dalla realtà con calcio, facendoci rapirle in un’estasi di sentimenti collettivi che, giocoforza, ci porta ad abboccare supinamente alle malversazioni finanziarie? Ogni anno le nostre squadre di calcio bruciano centinaia di milioni di euro in debiti. Quei debiti li paghiamo inevitabilmente noi, perché vanno a gravare su un sistema bancario che poi traduce le sofferenze in mancati investimenti. L’oppio non è gratis.