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Parigi 1981: Liverpool – Real Madrid, mi ritorni in mente

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Chi ha detto che i treni passano una volta sola, molto probabilmente non si è mai interessato di sport. Ancora meno al calcio, dove una seconda occasione per riconciliarsi con la storia è quasi sempre dietro l’angolo. Anche se a volte può farsi attendere per diversi anni.

Ne hanno aspettati parecchi Real Madrid e Liverpool per ritrovarsi ancora una volta faccia a faccia e giocarsi qualcosa di realmente importante. Trentasette, per l’esattezza: tanti ne sono trascorsi da una notte di fine maggio, come quella che sarà a Kiev, ma del 1981. L’Europa più importante in palio, oggi come allora. Tutto diverso il resto, compreso formato e nome di quel trofeo dalla grandi orecchie non ancora arrivato ad annoverare mezzo continente calcistico sotto l’attuale Champions League.

Dall’Ucraina alla Francia, quel 27 maggio ’81 i sogni erano di stanza a Parigi e il mondo pallonaro parlava con uno spiccato accento britannico e con ben poca inflessione iberica. Se l’attualità ha visto viaggiare la Champions sull’autostrada Barcellona-Madrid per ben sei delle ultime dieci edizioni, all’inizio degli anni 80 il più importante trofeo continentale non era molto dissimile dall’essere una succursale della First Division. Proprio il Liverpool aveva contribuito a renderlo tale, inaugurando nel 1977 una tradizione che avrebbe visto la Coppa dei Campioni non lasciare la Manica per le successive sei stagioni, dividendosi non equamente tra la bacheca dei Reds e quella decisamente più scarna di Nottingham Forrest e Aston Villa. Dal canto suo, il Real è nel proprio momento peggiore in campo continentale. Dopo averla praticamente fondata e dominata per le prime cinque edizioni, quella coppa latita dalla sala trofei del Bernabeu fin dal ’66, quando capitan Francisco Gento l’ha levata per l’ultima volta al cielo, in un Heysel ancora ben lontano dal tramutarsi nello stadio degli orrori.

Da quel momento in poi, per le merengues il palcoscenico più alto europeo è rimasto tabù. Vi tornano, appunto, sedici anni più tardi, in quel maggio 1981 e non da favoriti. A riproporre la squadra del Re in finale ci ha dovuto pensare un tecnico appena cinquantenne e già rivelazione nelle cronache calcistiche continentali: Vujadin Boskov. Viene dalla Jugolsavia, Vuja, dove è nato nel ’31 a qualche decina di chilometri da Novi Sad. Da calciatore un infortunio gli ha frenato la carriera, malgrado qualche bella pagina l’abbia scritta anche prima di levarsi gli scarpini dai piedi, portando la Vojvodina fino a uno storico secondo posto, ma soprattutto sfiorando un oro olimpico che nell’estate del 1952, a Helsinki, è sfumato solo per mano dell’Ungheria di Puskás e Kocsis. Salutato il campo, è in panchina che la carriera di Boskov ha finalmente preso il via. Nel ’66 Vuja ha infatti portato a compimento quel che giocatore non gli era riuscito, trascinando la sua Vojvodina fino alla vittoria del campionato e dando così il la a una carriera che da quel momento in poi sarebbe stata solo in ascesa. Nel 1971 gli sarebbe infatti toccata la nazionale jugoslava, due anni più tardi il trasferimento in quell’Olanda dove da Ct del proprio Paese si era fatto notare, mettendo le catene all’Arancia Meccanica orfana del suo gioiello Cruyff ma non delle stelle Neeskens e van Hanegem. Tra i tulipani, Boskov avrebbe continuato a impressionare. Prima un biennio al Den Haag e la conquista della coppa nazionale, poi altre due stagioni al Feyenoord, ma per la svolta c’è da attendere fino al ’78, quando la chiamata arriva dalla Spagna. Lo vuole il Real Saragozza, dove Vuja fa arrivare anche il connazionale  Radomir Antić e si ritrova per le mani il fiuto del gol del Pichi Alonso. E forse è proprio quest’ultimo che ne fa veramente le fortune. Il primo anno in Liga arriva sì una salvezza tribolata, ma l’attacco gira che è una meraviglia, tanto da segnarne 56: pari merito con l’Athletic, dietro solamente Barça e Real Madrid. Alla Casa blanca questo qualcuno lo nota e infatti a fine stagione è proprio da lì che le sirene iniziano a suonare. Boskov accetta l’appuntamento con la sua grande occasione e fin da subito fa vedere cosa è in grado di realizzare quando la stoffa per le mani è di quelle pregiate. Alla prima stagione è subito accoppiata Liga- Copa del Rey, grazie ai gol di Santillana e la solidità difensiva incentrata sulla concretezza tedesca di  Ulrich Stielike. Anche in Coppa dei Campioni il Real marcia, ma la corsa si interrompe a un passo dalla finale, per mano dell’Amburgo di Kevin Keegan e Felix Magath, che fanno pendere il personale derby tra Vuja e un altro slavo, Branko Zebec, dalla parte di quest’ultimo.

Non resta che riprovarci nella stagione successiva, dove oltretutto il campionato finisce con la beffa dell’arrivo in vetta con la Real Sociedad, con il titolo che però finisce in terra basca, visto l’esito negativo per le Merengues negli scontri diretti in stagione. Dove tira aria europea, però, il Real rimane fedele a sé stesso. Ai sedicesimi scherza subito con gli irlandesi del Limerick, per poi bruciare agli ottavi anche i magiari del Honved. È nei quarti che la questione rischia di complicarsi. Il tabellone riserva agli spagnoli la carta Urss e uno Spartak Mosca che si rivela una buccia di banana sulla quale il Real corre il brivido di scivolare. Nel doppio confronto, infatti, Del Bosque e compagni finiscono con lo sbattere su Dasaev e il resto della difesa moscovita. Finisce a reti bianche l’andata e al ritorno la musica poco cambia. Si va ai supplementari e solo lì le paure svaniscono, grazie a un rincalzo come Isidoro González, che sceglie il pomeriggio giusto per ritagliarsi il proprio quarto d’ora di celebrità, siglando una doppietta che trascina le Merengues in semifinale. Ma anche lì c’è da sudare. Al Real tocca l’Inter di Eugenio Bersellini e all’andata sembrerebbe tutto facile. Al Bernabeu, Mozzini si incolla a Santillana, ma non è una delle idee migliori. È proprio lo spagnolo a timbrare il vantaggio, seguito da un Juanito che capitalizza una gara passata a creare disagi a Beppe Baresi e al resto della difesa nerazzurra. Al ritorno, il Sergente di Ferro cambia invece piano tattico e con lui muta anche la partita. Al diciasettenne Bergomi spetta quel Juanito così letale pochi giorni prima. Lo Zio fa già vedere perché Bearzot più in là se lo porterà al mondiale e annulla un Real che trema subito per il palo di Prohaska e sotto ci va sul serio per mano di Graziano Bini. Di lì in poi è solo assedio nerazzurro, ma Agustín para tutto, comprese le residue speranze meneghine. Il Real torna in finale, sedici anni dopo l’ultima volta. Da Milano strappa un biglietto per Parigi.

Peccato che poco più in là, a Monaco, il Liverpool abbia fatto lo stesso. E i Reds, in quegli anni, lo hanno fatto fin troppo spesso. Già consolidata grande del calcio europeo, il Liverpool ha iniziato a frequentare assiduamente il gotha pallonaro continentale quando sulla panchina di Anfield vi si è seduto Bob Paisley, che nel  Mersey ci è nato, cresciuto e non se ne è mai andato. Una vita in rosso, quella di Paisley, che sotto la Kop ci è arrivato nel ’39, da giocatore, e lì è rimasto anche quando nel 1954 ha deciso di appendere gli scarpini al chiodo. Per cinque stagioni gli affidano la squadra riserve, ma la svolta arriva con Bill Shankly, che nell’estate del 1959 lo vuole come suo secondo sulla panchina dei grandi. Alla fonte di Shankly, Paisley finisce per abbeverarsi in tutto e per tutto, succhiando fino in fondo i segreti di chi il calcio lo considerava questione più importante di vita o morte e scherniva i vicini di casa dell’Everton dicendo che a Liverpool sì, ci fossero due squadre: peccato che uno fossero i Reds e l’altra la sua squadra riserve. Quando nel ’74 Shankly decide di passare la mano, a nessuno vengono dubbi su chi possa prenderne l’eredità. E da allievo Paisley è stato talmente bravo da superare in ben poco tempo il maestro. Se il Liverpool è già un cavallo di razza, con le redini in mano al suo ex vice coach finisce col galoppare ancora più veloce. Oltre a quattro titoli inglesi in sole cinque stagioni, a rendere migliore Sir Bob rispetto al suo predecessore è la spiccata indole europea. Appena arrivato ha vinto la Coppa Uefa, ma il meglio lo ha servito dopo. Nel ’77, infatti, a Roma si è preso la prima storica Coppa dei Campioni del club, battendo i tedeschi del Borussia M’gladbach e la stagione successiva è nuovamente sul tetto d’Europa, quando questa volta sono i belgi del Brugge a cadere sotto il fendente di Kenny Dalglish. Due anni e un titolo inglese più tardi, i Reds sono ancora pronti a rimettere le mani su quelle grandi orecchie. Per guadagnarsi il terzo giro di giostra, Dalglish e compagni hanno rifilato gol a mezzo continente, rischiando solamente in semifinale. Al primo turno i finlandesi del Palloseura non possono certo preoccupare e infatti non creano problemi. Vanno via lisci anche gli ottavi, dove il derby tutto britannico contro gli scozzesi dell’Aberdeen vede il Liverpool passare di misura in trasferta e dominare letteralmente ad Anfield. Ai quarti, neanche a dirlo, il CSKA di Sofia va giù lungo direttamente al primo round.

In tre passi, il Liverpool si ritrova al penultimo atto, ma qui c’è un’altra grande con cui doversi confrontare: il Bayern Monaco. Esperti almeno quanto gli inglesi, i bavaresi hanno addirittura una Coppa dei Campioni in più, avendone messe in fila tre il altrettante finali consecutive. Non bastasse questo, a far suonare campanelli d’allarme c’è anche il fatto che una di queste l’hanno strappata proprio a una inglese, il Leeds, nel ’75. Ma agli scousers neanche il curriculum pesante di Breitner, Rummenigge e Augenthaler può spaventare. Infatti l’andata che si gioca in Inghilterra vede proprio i Reds protagonisti. Spinge tanto il Liverpool, ma al 90° ha combinato poco e niente. 0-0 buono per i tedeschi, che negli spogliatoi accarezzano già un’altra finale, per la quale però bisogna ancora sudare. Quando la settimana dopo si vola all’Olympiastadion, la trama cambia radicalmente, anche perché Paisley ha più assenti che titolari. Costretto a dover speculare, il Boss non lesina tatticismo e lascia al Bayern l’iniziativa, che se la prende ma ci combina poco. Quando al sette giri d’orologio dal termine sono i Reds a ripartire in contropiede, qualcuno forse fiuta la beffa. E infatti la stoccata di Ray Kennedy risveglia Rummenigge e i suoi dal sogno, nonostante a un soffio del triplice fischio finale arrivi l’inutile pareggio del futuro nerazzurro. Al Parco dei Principi ci vola il Liverpool, con la sua anima inglese e il cuore pulsante scozzese. Quello di Bob Paisley è un gruppo che mixa esperienza e talento. Sta insieme da tanti anni e sa quale sia la ricetta non scritta per vincere anche quando l’asticella è alzata al massimo. Lo hanno già fatto in due occasioni, poggiandosi sul carattere e le geometrie di Graeme Souness, che in mediana smista palloni per il connazionale Kenny Dalglish e David Johnson. Dietro, se anche qualcuno dovesse riuscire a superare capitan Phil Thompson, ci sarebbe sempre da vedersela con Ray Clemence.

Si gioca il 27 maggio 1981, ma non è un mercoledì di Coppa come gli altri. Parigi parla o inglese o spagnolo, a seconda dalla parte dello stadio in cui si capiti. In campo, c’è più paura di perdere che altro. Alla prima finale europea della sua storia, Boskov sfrega l’amuleto Santillana, ci mette vicino l’unico inglese con la casacca blanca e non rossa come Laurie Cunningham, ma alla fine a dover portare la croce sono Vicente del Bosque e Uli Stielike, che si ritrova nuovamente davanti quel Liverpool che una Coppa dei Campione gliel’ha già tolta ai tempi dei Gladbach. C’è voglia di rivincita, ma la storia dirà altro. Parlerà infatti di una finale brutta, giocata più a centrocampo che in tutti gli altri settori. E lì Paisley dorme sogni tranquilli, anche perché Souness domina come sempre e in fascia Sammy Lee scappa via a Juanito ogni volta ne abbia l’occasione. Si aspetta l’errore dell’avversario, per aver ragione e sparigliare il mazzo. Errore che arriva, puntuale, quando si stanno già facendo i calcoli su come affrontare i supplementari. Ma dell’extra time non ce ne sarà bisogno, perché al minuto 83 Cortés si fa sfilare davanti un pallone spedito in area direttamente da rimessa laterale. Il madridista forse è anche stanco: ha passato tutta la gara sgomitare con Dalglish e lo ha anche arginato bene. Peccato che questa volta, dietro a quel maledetto pallone non ci sia il 7 di King Kenny, ma il 3 di Alan Kennedy: l’uomo giusto a momento giusto.

Sarà lui a siglare l’ultimo e decisivo rigore tre anni più tardi, a Roma. Sarà sempre lui, in quella notte di Parigi a prendersi quel pallone sgusciato attraverso la difesa madridista e spedirlo dove neanche le dita di Agustín possono arrivare. Basterà questo per scrivere per la terza volta il nome Liverpool sulla coppa più importante. Per qualcuno sarà anche l’ultima, Paisley compreso. Per Boskov, invece, solamente l’inizio di una maledizione che lo accompagnerà una decina di anni dopo, ma con i colori di quella Sampdoria dalla quale prima di Vuja era già passato anche Graeme Souness. Trentasette anni dopo sarà tutto diverso, compresi i pronostici. Una seconda volta Liverpool-Real Madrid, un altro treno per il tetto d’Europa. Che poi, chi l’ha detto che non passino più di una volta?

 

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