Pantani, Biaggi, Panatta: le relazioni (non) pericolose di Manuela Ronchi

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Pantani, Biaggi, Panatta: le relazioni (non) pericolose di Manuela Ronchi

Da pochi giorni è uscito il libro di Manuela Ronchi, edito da Gribaudo, Le Relazioni Non Sono Pericolose: un testo che Federico Buffa, nella prefazione da lui firmata, definisce con accortezza una biografia funzionale. Titolare dell’agenzia di relazioni pubbliche Action Agency, la Ronchi è stata, ed è tutt’oggi, manager di numerosi sportivi professionisti e uomini di spettacolo. Nel libro racconta senza sovrastrutture le relazioni che l’hanno legata a questi personaggi, con un’indulgenza particolare verso quella condivisa con Marco Pantani, esperienza che, per diversi motivi, ha segnato particolarmente il suo percorso professionale e di vita. In questa intervista abbiamo voluto approfondire con lei i motivi che l’hanno spinta a raccontare il mondo delle relazioni interpersonali, professionali e non, dal suo punto di vista.

 

Manuela, perchè hai voluto scegliere un titolo come Le Relazioni Non Sono Pericolose? Qualcuno teme che possano esserlo?

Credo che sia un titolo molto catching, nel senso che fa riferimento al film Le Relazioni Pericolose. Per me, in realtà, non lo sono mai state. Ho voluto stravolgere il titolo di questa opera mettendoci “non sono”. In questi tempi in cui molti si nascondo dietro ai social media, involontariamente ci stiamo allontanando. E’ come se avessimo paura a metterci a nudo: c’è la voglia di esprimere l’ego mascherati da qualcosa che è digitale. Quando ti guardi negli occhi, invece, non puoi fingere mentre attraverso i social fai vedere di te quello che decidi. La relazione, in ogni caso, non è solo contatto fisico e guardarsi negli occhi, che per me è alla base di tutto, ma dare valore alla relazione stessa. Il significato del libro sta in questo.   

La maggiore facilità di entrare in contatto tra persone che danno oggi i social media favorisce le relazioni? O, per paradosso, può peggiorarne la qualità?

Ho dedicato un capitolo del libro a questo aspetto. Io parto da un assunto: è l’essere umano che è al centro e determina ogni scelta e in questo senso, secondo me, in questo momento stiamo vivendo un nuovo umanesimo rinascimentale. Concordo sul fatto che i social media aiutino molto a ritrovarsi, a riconnettersi: con Facebook ho rintracciato persone che non vedevo da anni, e questo è bellissimo. Poi però non bisogna sostituire la relazione col social. Se il social non sostituisce la relazione ma facilita l’incontro è fantastico. Ma è il network poi la parte più importante, non il social che, se usato in sostituzione della relazione, diventa tossico. Se le persone non le guardi negli occhi, come fai a capire chi hai di fronte? Siamo sempre noi a capire come dosare l’utilizzo dei social, che ci devono, come tutti gli strumenti digitali, aiutare ad accelerare i processi per trovare più tempo per stare con le persone, non a sostituire la relazione con loro.  

Quali sono le caratteristiche essenziali di una relazione autentica, che genera risultati positivi?

La prima risposta che ti do è lealtà e libertà. Io mi sono sempre detta: evitiamo di fare i tappetini persiani, cioè assecondare l’altra persona. Se sei davanti a un personaggio famoso, dargli sempre ragione non va bene perché chi ha una forte personalità ha bisogno del contraddittorio. A volte anche a costo di diventare un po’ impopolare: non devo piacere per forza a tutti. Io sono fatta così e mi voglio mostrare all’altra persona per come sono fatta. L’altra persona deve rispettare la mia libertà come io devo rispettare la sua. Prendi mio marito: lui si è laureato in ingegneria e poi ha deciso di entrare nei vigili del fuoco, di cui oggi è funzionario. E’ capitato che, andando a cena anche con grossi dirigenti d’azienda, lui si sia addirittura presentato come un “pompiere”. Il concetto è: se mi devo presentare utilizzando l’etichetta, il ruolo, la macchina che ho, il vestito che indosso per conquistarmi un’attenzione, c’è qualcosa che non va. Col tempo puoi scoprire chi sono, cosa faccio e via dicendo. Ho avuto a che fare con personaggi con caratteri non semplici ma mi sono guadagnata la loro fiducia perché ho detto sempre quello che pensavo, perché per me questo significa rispettarsi. Talvolta anche sbagliando. Questo è un elemento che ha caratterizzato tutte le mie relazioni. Anche quelle che non sono andate a buon fine: se non ci si fa del male con parole troppo cattive, il tempo poi ricuce tutto.  

Come si può praticare una relazione in tempi di pandemia?

Ci vuole curiosità e fantasia. Dobbiamo trovare dei modi per poter comunicare tra di noi cercando di mettere al centro sempre il contenuto della relazione. Nel precedente lockdown si sono trovati mille modi per rimanere in connessione ma la cosa importante è rimanere ingaggiati e trovare altri modi per condividere cose che nella vita “normale” non abbiamo avuto modo di approfondire. Il bene più prezioso che abbiamo è il tempo: cerchiamo di usarlo sempre nella maniera migliore. Se la relazione è autentica non è il distanziamento che la fa morire, anzi.

Nel tuo libro molte pagine sono dedicate a un incontro che tu stessa definisci fatale: quello con Marco Pantani. Senza anticiparne i contenuti, vuoi spiegare perché quella relazione professionale per te è stata così significativa?

Penso perché sia stata una delle più belle anime che abbia mai incontrato nella mia vita, a parte i miei affetti più cari. E perché è stato un grande innovatore visto che, appena vinto il Giro e il Tour, non si è fatto condizionare dai clichè ed è andato a cercare una donna a cui affidare prima la sua immagine e poi la sua squadra di ciclismo. Perché questo? Perché anche qui al centro c’è stata la relazione: Pantani non cercava un manager che gli facesse guadagnare dei soldi bensì qualcuno che fosse un punto di riferimento morale che lo aiutasse a gestire le relazioni e i diritti di immagine in modo che lui potesse concentrarsi solo ad andare in bicicletta. Per me è stata una scelta incredibilmente innovativa: ancora oggi, quando la ricordo, mi viene da pensare a quale coraggio e lungimiranza abbia avuto per prendere una decisione simile. Nessuno di noi due ha mai tradito la fiducia dell’altro nonostante siamo passati in mezzo a una tempesta che nella vita mai avrei pensato di dover attraversare. E’ stato un incontro che mi ha aperto gli occhi su come relazionarmi con gli altri, mi ha fatto comprendere quanto può far male il loro giudizio. E’ stato il giudizio altrui che, andando a sporcare la sua dignità, alla fine lo ha spinto a farsi del male da solo, proprio lui che non ha mai fatto del male a nessuno. E’ una storia dalla quale ho imparato tanto: in tutto quello che lui ha compiuto, come negli eroi della tragedia greca, c’è stato un insegnamento, anche nelle azioni dettate dalle sue debolezze. Non posso che considerarla la storia più importante di lavoro della mia vita ma anche di amicizia e di rapporti umani. 

Un’altra figura ben ritratta nel testo è quella di Max Biaggi. C’è un denominatore comune che potrebbe legare questi due campioni, pur così diversi tra loro?

La tenacia. Sviluppata in modi diversi, perché erano veramente uno l’opposto dell’altro. Come Pantani ha scalato le montagne anche quando aveva tutti contro, Biaggi ha sdoganato il motociclismo, lo ha fatto diventare, dopo Agostini, uno sport per tutti e non per soli appassionati. Successivamente, nonostante l’età, è riuscito a vincere in Superbike anche se la stampa non sempre era dalla sua parte e c’era la figura ingombrante, in termini di comunicazione, di Valentino Rossi. Quando vinse mi telefonò e mi disse: Manu, lo dovevo ai miei tifosi. Sono stati due sportivi che hanno usato lo sport per riscattare se stessi mettendoci una dedizione assoluta.   

Adriano Panatta è un’altra figura importante dello sport italiano alla quale fai riferimento. Un personaggio sicuramente molto diverso da Pantani e Biaggi. Quali sono le caratteristiche di lui che ti hanno maggiormente colpita?

Adriano ha la capacità di vivere con un’ironia che invidio tantissimo e ha una grande intelligenza emotiva. Lui dice che bisogna sempre ripartire dai fondamentali anche quando si è raggiunto il successo. E’ un uomo con una grande forza e la sua ironia sa renderlo piacevole. Un esempio? Lui mi chiama Permi perché sono molto permalosa (anche se lo è pure lui!): nel nostro rapporto di lavoro ormai non sono più Manuela ma Permi!

Lo sportivo famoso è sicuramente un personaggio dietro al quale si cela una persona che è spesso diversa da come il suo personaggio la fa immaginare. Nel racconto delle tue esperienze professionali questo dato emerge con chiarezza. Come spieghi questa dinamica? Perché la persona spesso viene soverchiata dal suo personaggio senza che possa emergere nella sua effettiva identità?

Ci sono due livelli di risposta che si possono dare. Il primo è che non tutti riescono a mettere a nudo la propria personalità perché magari sono i primi che certi aspetti di se stessi li vogliono nascondere: difetti, insicurezze. Il secondo è che, in qualche modo, c’è la necessità di conformarsi ai trend in voga nella società, che spesso sono creati dal marketing, per cui se va di moda un determinato stile a quello bisogna conformarsi. Questo ha creato dei mostri, dalla chirurgia estetica a progetti di marketing che sono nati morti. E’ il meccanismo che si innesta quando un personaggio comincia a piacere e si pensa che, somigliando a lui, sarà automatico avere successo e fare soldi. E’ l’errore più grosso che si possa fare perché la gente non è stupida e non va tradita. Bisogna capire il modo in cui si è fatti per dare il massimo alle persone che ti seguono e “arrivare” a loro. Io sono una fautrice del fatto che, nel medio e lungo termine, sia necessario seminare sincerità. Essendo se stessi alla lunga la gente saprà apprezzare i tuoi pregi e i tuoi difetti e ti seguirà per quello che sei in grado di fare, non perché hai cercato di scimmiottare il clichè che va di moda in quel momento. La gente ha voglia di ascoltare storie vere, che abbiano dentro anche degli errori. Il valore importante è la buona fede e la capacità di non tradire chi ti segue.

Quali sono gli insegnamenti più significativi che hai appreso lavorando all’interno del mondo dello sport professionistico?

Se si parla di sport in senso lato io francamente mi sono portata a casa poco, a parte il fatto che sono sempre le persone che fanno la differenza. Purtroppo è un concetto che riguarda soprattutto gli sport professionistici cosiddetti minori, che non sono in grado di fare uno storytelling dei loro valori e per darsi importanza hanno bisogno sempre che nasca un grande campione che gli dia visibilità affinchè il movimento cresca. Bisogna lavorare sul raccontare lo sport, perché ogni sport ti dà degli insegnamenti e ha dei valori che sono legati alle sue specifiche dinamiche.

Giornalista e scrittore, coltiva da sempre due grandi passioni: la letteratura e lo sport, che pratica a livello amatoriale applicandosi a diverse discipline. Collabora con case editrici e redazioni giornalistiche ed è opinionista sportivo nell’ambito dell’emittenza televisiva romana.
Nel 2018 ha pubblicato il romanzo "Ci vorrebbe un mondiale" – Ultra edizioni. Nel 2021, sempre con Ultra, ha pubblicato "Da Parigi a Londra. Storia e storie degli Europei di calcio".

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