Illustrazione di David Diehl
Oleg Blokhin, l’oro dell’URSS
Compie oggi 68 anni Oleg Blokhin, leggenda del calcio sovietico e pallone d’oro del 1975. Per l’occasione vi raccontiamo la sua storia.
Partiamo dall’assunto, calcisticamente filosofico, che Beckenbauer non ha mai regalato nulla a nessuno: né in campo, né fuori. Ieri come oggi, non nei fatti e nemmeno a parole.
Per questo un complimento del Kaiser a un avversario valeva doppio; triplo, come un dribbling velocissimo e reiterato nel cuore di un’area bavarese, divenne quando il grande Franz fu costretto ad ammettere che quell’attaccante sovietico era il più forte mai affrontato nella sua carriera di difensore. Capirete che se il difensore era lui, il destinatario del complimento doveva davvero avere qualcosa di speciale, per averlo colpito. Colpito con le caratteristiche e con i gol, frastornato al punto tale da lasciargli soltanto il luccichio di una Supercoppa europea.
Di speciale ha avuto tutto, in effetti, a cominciare dalla possibilità di scegliersi abbigliamento e comportamenti, come se vivesse in quella parte di mondo dove il Muro di Berlino era possibile osservarlo dal lato più gaudente e meno vigile. Il ragazzo poteva indossare jeans occidentali e portare i capelli lunghi, che la sua velocità disponeva quasi in orizzontale, quando puntava uno spazio oltre le maglie avversarie; con l’eleganza innata che tanto più brillava quanto più crescevano i giri del suo motore naturale, avuto in dote da sua madre, quattrocentista. Del resto lui stesso copriva i cento metri regolarmente restando sotto gli undici secondi.
Come un incidente di percorso, la bravura “eccessiva” con il pallone tra i piedi. L’atletica leggera, amante abbandonata, sarebbe stata comunque invitata al matrimonio con il calcio, perché Oleg Blokhin l’avrebbe invitata a ogni partita, della Dinamo Kiev o della nazionale, portandosela appresso, e dentro, a ogni azione condotta a velocità supersonica, rifinita con quei piedi così sensibili per nascita, così progressivamente educati battendo alla cieca, letteralmente, destro e sinistro alternati per ore, verso una porta disegnata sul muro e divisa in riquadri.
CCCP: una figurina della nostra infanzia; la grande scritta bianca sul petto rosso, o viceversa. Gelido esotismo politico, cartolina di un mondo che potevano raccontarci soltanto i corrispondenti dei pochi telegiornali che andavano in onda o le coppe europee di calcio, unica zona franca dove un fischio d’inizio dissolveva la cortina di ferro per centottanta minuti tra andata e ritorno, salvo supplementari.
Privilegiato come sovietico, dalla rappresentatività orgogliosa ma anche accattivante; al tempo stesso ucraino più di ogni altro, nell’orgoglio e nei lineamenti, nelle cuciture che tra pelle e tessuto lo hanno fuso nella maglia della gloriosa Dynamo di Kiev, alla quale le grandi, filogovernative compagini moscovite dovevano spesso cedere lo scettro.
Tanto decantata la Dynamo degli anni ottanta, con più immagini a disposizione e maggiore copertura televisiva; ancora più forte quella dei settanta, però, trofei internazionali e dominio assoluto, di là e di qua dal muro. Per l’una, come per l’altra, la guida del Colonnello Lobanovsky, sciamano per carisma e scienziato nella programmazione, volto identificativo come pochi altri della simbiosi tra sport e regime.
1975, inarginabile la Dynamo, imprendibile Blokhin: demolito il Ferencváros a Basilea, nella finale di Coppa delle Coppe, quindi la doppia finale per contendere la Supercoppa europea al Bayern Monaco, che nel frattempo si era aggiudicato la Coppa dei Campioni. “Quel” Bayern Monaco, quello a cui oggi sarebbe difficile dare una valutazione a colpi di zeri: Maier, Beckenbauer, Hoeness, Müller…
Gli occhi dell’Olympiastadion, all’andata, si perdono appresso alla progressione di Blokhin, che fila sulla sinistra, più bello di un eroe nordico in casa dei nibelunghi; strappo da centometrista per portare la palla lontano da ogni tentativo o pretesa di marcatura; prestidigitazione tecnica all’interno dell’area bavarese: nitido il dribbling reiterato, arabescato nell’insistenza, come i lineamenti glaciali addolciti dai tratti levantini del viso.
Al ritorno, allo stadio Olimpico di Kiev, va in scena il monologo assoluto delle truppe del Colonnello; Blokhin si prende il campo, la scena, il tabellino: doppietta sontuosa, scintillio di tutta la gioielleria del suo repertorio che sale in alto con la Supercoppa dell’UEFA sotto il cielo di Kiev. E anche a Mosca, debbono far finta di essere contenti per la Dynamo che ha dato lustro a tutta l’Unione Sovietica.
A capo chino, sfilano i fuoriclasse del Bayern più grande di sempre, compreso Franz Beckenbauer, quello che non ha mai regalato nulla a nessuno, meno che mai un complimento.